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Autore: Vagabonde    13/03/2008    2 recensioni
Un guerriero senza riposo. Un tris di vagabonde, destinato solo a espandersi. Un mondo senza frontiere, un cielo pieno di stelle, treni, aerei, navi, e ancora treni e aerei alla ricerca dell’isola che non c’è.
Desideri in standby, pensieri sconnessi, poeti e criminali.
Un materasso di parole scritto apposta per lui.
Un diario di bordo senza precedenti per quel viaggio chiamato vita.
E lui, Orlando, lo zahir. Quel desiderio potente che smuove mari e continenti.
E allora, le vagabonde vi sfidano a credere. Voltate pagina.
*Authors: Strowberry, Aredhel, Summer. more to come*
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Orlando Bloom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sountrack: You’ll be in my heart, Phil Collins.

Vagabonda: Emily

“The fear that gave me wings”

 

 

Si dice che a viaggiare troppo si perdano gli angeli custodi.

Non saprei dirti se è vero o no, posso solo assicurarti che per te è difficile perderli. Ci sarà sempre chi ti seguirà al galoppo, riacchiappando pezzi di cuore e riattaccandoteli con estrema attenzione, un po’ di ago e filo, chiedendoti di stare fermo quei due minuti necessari all’operazione, come una mamma che chiede al piccolo di stare buono, per favore, che deve mettergli la maglia perché fuori fa freddo.

È vero Orlando. Fuori si gela. Fa un freddo reale, brutale, crudele. Fa così freddo che a volte dimentichi l’estate.

Voglio raccontarti una fiaba.

“C’era una volta un principe coi riccioletti, proprio come i tuoi, che abitava in un grande castello in riva al mare.

Il principe guardava sempre l’orizzonte dalla finestra nelle ore del tramonto e dell’alba, domandandosi cosa succedeva là dove il cielo e il mare si fondevano, se gli uccellini incauti sbagliando rotta rischiavano di affogare, se un pesciolino finiva saltando per sbaglio impigliato in una nuvola.

Un giorno, quando fu abbastanza grande per badare a se stesso, il principe coi riccioli partì verso l’orizzonte, stanco di quella prigionia.

Il principe soffriva, e non sapeva perché. Eppure la regina lo amava molto, e così la sua sorellina, e il re, pur non essendo suo padre, non gli aveva mai fatto mancare nulla.

Era prigioniero di un mondo bellissimo, eppure restava un prigioniero.

Così decise di andare via, di esplorare, di portare quegli occhi color cioccolato su quella linea dell’orizzonte, per vedere se davvero i pesci giocavano con gli uccelli e le barche iniziavano a volare in cielo, per capire cosa pensava il mare quando una mano sconosciuta ci pucciava dentro il sole come fosse un biscotto, poco prima del sopraggiungere della notte.

Il principe partì, e man mano che i giorni passavano la situazione era sempre più strana.

Vedeva la riva allontanarsi sempre di più, eppure l’orizzonte non si avvicinava. Restava là, lontanissimo, irraggiungibile.

Un giorno, il principe si voltò e scoprì di non riuscire più a vedere la riva da cui era partito.

Si spaventò così tanto che si dimenticò anche che un giorno aveva sognato di raggiungere l’orizzonte, dimenticò il perché di quel viaggio e iniziò a vagare su e giù per la sua grandissima, bellissima barca, dove v’era acqua e cibo per una vita e v’era lusso in ogni angolo. Ma al principe non importava né del cibo, né dell’acqua, né del lusso.

Terrorizzato da quella scoperta, guardò verso l’orizzonte: era ancora lontano. Si voltò allora verso prua, ma la riva sicura da cui era partito non si vedeva più.

Il principe iniziò ad annaspare.

Era solo, tutti i suoi paggi dormivano, sicuri di poter tornare a casa non appena avessero voluto, ma lui non poteva.

Lui doveva arrivare a quell’orizzonte.

Ma quell’orizzonte gli sarebbe costato molto più di ciò che pensava.

Alla barca si avvicinò una sirena.

< Cosa ti spaventa, bel principe?> chiese la creatura, guardandolo al di là dei suoi grandi occhi.

Quand’era bambino, la regina lo aveva messo in guardia contro le sirene. < Sono creature effimere, e vuote, abitate da vanità e orgoglio.>.

Ma lui scelse di rispondere.

< Sono solo, sirenetta. Sto cercando di raggiungere l’orizzonte, ma è sempre laggiù e io sono sempre più lontano da casa.>

< Vieni con me, ti insegnerò io e ti farò compagnia.>

E fu così che il principe andò con la sirena, e molti giorni passarono, ma l’orizzonte era ancora lontano. La sirena chiese in regalo molti gioielli, molte perle, e quando ne ebbe a sufficienza gli disse:< Ora devo andare, ci sono altri che hanno bisogno di me.>

E il principe, che in quel periodo si era sentito meno solo, ne fu ferito e crollò in lacrime sul ponte.

< Perché se n’è andata? Io le avevo dato tutto il mio affetto, la mia compagnia, il mio oro! Ora sono solo, non riuscirò mai più a fidarmi di qualcuno.> sussurrò al vento, che gli scompigliò i riccioli.

Dopo qualche tempo, l’orizzonte era ancora là, e casa sempre più lontana.

I paggi non sembravano capire quanto lui fosse cambiato, quanto la strada che aveva intrapreso avesse inevitabilmente mutato qualcosa. Purtroppo, lui non poteva pretendere che capissero. Erano  abituati al principe di prima, quello nel castello. Non sapevano, non avendolo vissuto in prima persona, quanto un viaggio cambia nel profondo del cuore chi è disposto ad ascoltare. Quanto un sogno rompa le barriere del possibile, e rimetta in discussione le certezze di una vita intera.

Il principe ripensò al castello, agli abbracci di sua madre, ma sapeva che semmai fosse tornato, se si fosse arreso, nulla sarebbe più stato lo stesso,

Un giorno, un banco di meduse si avvicinò alla barca.

< Perché sei triste, dolce principe?> chiese una di loro.

< Sto cercando di raggiungere l’orizzonte, ma non ci riesco, e sono sempre più lontano da casa.> rispose il principe

< Non preoccuparti, ti faremo noi compagnia. Sappiamo come vanno queste cose, le abbiamo viste milioni di volte.> risposero quelle, e per un po’ il principe vagò insieme a loro, ma presto imparò che doveva tenersi a debita distanza anche quando gli era vicino, perché i loro tentacoli infiammavano la pelle.

Dopo un po’, le meduse si fecero vedere più di rado, e tornavano solo per infastidirlo, per spettegolare, per sapere di lui e della sua frustrazione.

Il principe soffriva molto, e ogni sera confidava i suoi pensieri al vento.

Il tempo passava e niente cambiava, e un giorno un’altra sirena passò di là.

< Posso esserti d’aiuto, bel principe?>

Il principe non vide alternative. Era abituato alle sirene, e frustrato dalla solitudine, così accettò la sua compagnia. Pur sapendo come sarebbe andata a finire, le regalò oro e gioielli, sperando in un’illusione.

E quella, dopo un po’, puntualmente svanì, dicendo che aveva altri da aiutare.

L’orizzonte era sempre lontano.

Una notte il principe, ormai così lontano da casa che aveva scordato anche cosa fosse stato prima di intraprendere quel viaggio, si rivolse in lacrime al cielo e chiese aiuto. E là vide una stella. Una stella triste, spenta di malinconia, circondata da tante altre stelle, che spiccavano nel cielo.

< Chi sei?> chiese il principe alla stella.

< Mio dolce principe, sono stata quassù a guardarti fin dal principio. Ma non ho pinne io, non posso muovermi, non ho i mezzi per avvicinarmi a te. Sono rimasta qui ad aspettare che tu alzassi lo sguardo, che mi notassi, per poterti aiutare. Anche se un po’ lontana, ho visto tutti i tuoi movimenti, ho pianto con te, ho quasi perso la mia luce. Avrei fatto qualsiasi cosa per esserti d’aiuto, per scendere a consolarti.

Ogni sera il vento mi portava le tue lacrime, ogni sera un po’ di luce mi lasciava per via della mia rabbia, e della mia impotenza nel vederti così prostrato.

Ho cercato di metterti in guardia, con un brillio insolito, un raggio più lucente che fendeva il tuo cuscino, ma tu non potevi vedere, mio povero principe.

Cosa avrei dato per essere là ad abbracciarti, scompigliarti i riccioli e dirti che andava tutto bene, che insieme ce l’avremmo fatta.

L’orizzonte non si può raggiungere, principino.

E’ una cosa da cercare, ma non si trova.

Sembra un paradosso, lo so, ma tu non lasciarti ingannare. E’ la ricerca che rende un viaggio interessante. Tendere alla cima. Non arrivarci, tendere, sforzarsi sulle punte di arrivare più in alto. Se ci riuscirai, scoprirai che anche le lame di un coltello non fanno poi così male, che niente e nessuno può ferirti, buttarti a terra. E che se dovesse succedere, tu ti rialzeresti.

Non preoccuparti, non sei solo. Ci sarò io qua, con la mia luce, a darti una mano. Ogni volta che mi vorrai, ti basterà alzare gli occhi per vedermi, sentirmi vicina. E ogni volta che mi dirai qualcosa, io la sentirò, anche se dovessi essere dispersa per l’Universo, e tu lontano un milione di anni luce.

Ti dono la mia luce, prendila. Ti occorrerà quando ti ritroverai in posti bui, senza nessuno al tuo fianco.>

Il principe, che aveva ascoltato attento, e un po’ diffidente, si stupì di quella proposta, < Ma… così tu ti spegnerai!> le disse.

< Non preoccuparti per me. Preferisco donarti la mia luce, piuttosto che vivere cent’anni col rimorso di non aver preservato il tuo cuore, proprio tu, che così piccolo, entusiasta, e innocente, mi irradiasti di luce immensa anche senza sapere nulla.>

Il principe, titubante, e un po’ arrabbiato per la scoperta di non poter raggiungere l’orizzonte, rifiutò quel regalo.

< Ti cercherò un giorno- le disse- e se ancora ti troverò, allora sarò sicuro della mia scelta.>

Passarono gli anni, e il principe era stato in molti posti. La stella era ancora là, ma non gli parlava, lui non le apriva il cuore. Voleva vedere. Capire.

Poi, una notte, chiamò la stella.

E la stella era lì, brillava al centro del cielo come un diamante in un astuccio di seta.

< Stella, ci sei ancora?>

< Mio piccolo principe, ma allora non hai capito. Io ci sarò sempre.>

E fu così che la stella scese sulla Terra e divenne un piccolo girocollo che si appoggiò intorno al collo del principe, e il principe con i riccioletti negli anni che vennero, fino alla fine dei suoi giorni, anche trovandosi ai confini del mondo non si sentì mai più lontano da casa.”

Vorrei una storia così. Una storia a lieto fine, che faccia contenti tutti.

Lo so, sono una sognatrice, spero ancora in un mondo perfetto. Un mondo in cui ai bambini sia permesso di essere bambini, in cui gli adulti si comportino da adulti, in cui a governare siano i sogni che una volta abbiamo avuto e non solo il denaro.

Un mondo in cui non dicano a Jools che è ‘discreta’, e poi pubblicano Moccia.

Lo so, utopie.

Utopie di cui non so fare a meno.

Questo mondo mi appartiene.

Conosci questa sensazione?

Sul tetto di un palazzo, la città docile ai tuoi piedi. Un mondo tuo, fatto di orizzonti lontani, che non si possono raggiungere ma che sono là per farti correre, e per farti scoprire quanto sia la corsa e non il fine quello che conta.

Perché mentre corri, se ti concentri sulle tue gambe e non sul traguardo, inciampi in realtà parallele che altrimenti non si possono conoscere, che restano sotterrate, come un osso da un cane geloso, proprio sotto i tuoi piedi, ma è facile che tu non le veda mai.

E invece no, nella mia corsa queste realtà sono venute fuori come radici dal terreno, mi hanno fatto inciampare, a volte cadere, sanguinare, imparare, vedere.

E l’orizzonte, sempre là.

Oltre il limite, ancora più in là, verso una terra in cui si leva l’alba, in cui il tè non lo prendo seduta in cucina davanti al pc mentre ti scrivo, ma sul soffitto di fianco a Mery Poppins.

Un mondo in cui so cantare, e mi esibisco davanti a una scelta platea di galline ovaiole.

Surreale, no?

Eppure è realtà.

Però io sono uno scrittore, e come diceva J.M.Barrie, gli scrittori non diventano mai veramente adulti.

Questo mondo ha bisogno di custodi.

Siamo passate tutte e tre porta a porta a mettere i sigilli di ceralacca a un’infanzia forse mai veramente avuta, e magari nella nostra Londra tra un anno a quest’ora mi vedrai camminare col naso in un libro di Barrie per Hyde Park, con le all-star con le coccinelle rosse e la tracolla a forma di chitarra.

Immutata eppure mutevole.

Come diceva il Liga, ‘io non cambio mai, e mi cambio tutti i giorni’.

Ancora piango di commozione davanti alle puntate di Naruto e credo che Lewis Carroll sia stato il più grande psicologo della storia dell’umanità.

Ancora, adesso che sto diventando grande, mi arriveranno messaggi con il testo ‘Premiere di Orlando il giorno x nella città x, questa non è un’esercitazione’ e in meno di tre ore saranno fatti i biglietti e pronti i bagagli.

Magari la vita la passeremo da gitane, con me che suono la chitarra in piazza e Jools e C e le altre Vagabonde, finalmente libere dalle catene, che cantano alla luna seguendo un ritmo strimpellato in attesa di te.

Magari, dico magari, è questa la perfezione.

Quella di Erasmo da Rotterdam.

Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Infuse nell’uomo più passione che ragione, perché fosse tutto meno triste. Se i mortali si guardassero da qualunque rapporto con la saggezza, la vecchiaia neanche ci sarebbe. La vita umana non è altro che un gioco della follia: il cuore ha sempre ragione.

E’ diventato il mio diktat, e per ribadirlo oggi ho chiuso la tesi di 150 pagine per la maturità sull’emancipazione della donna e ho iniziato a scriverne una del tutto nuova che si chiama ‘Ragione e sentimento nel genere umano: come cielo e terra sulla linea dell’orizzonte’.
Come vedi, non posso fare a meno di essere me.

Di poggiare Neruda e alzare Shakespeare e poggiare Shakespeare e aprire Cohelo, di finire Cohelo e alzare Bambarèn.

Sono sempre circondata di libri.

‘You know Em, you’re kinda freak’ mi disse una volta qualcuno di molto saggio, e il bello è che mi sentii anche offesa.

Ma non è più così. Lo so, sono kinda freak.

Parecchio strana. Perché mi fermo ad accarezzare gli alberi o perché terrorizzo gli inglesi ai Kengsinton Gardens voltandomi continuamente di scatto perché dice Barrie che in questo modo è possibile cogliere le fate che si muovono sicure di non essere guardate.

Libri, vagabonde e fate sono le tre cose di cui sono costantemente circondata.

Uno dei miei film preferiti di sempre è Mr Magorium’s Wonders’ Emporium, seguito a ruota da Love Actually, Quattro matrimoni e un funerale, e il Favoloso Mondo di Amelie per la sola frase ‘Lei non ha le ossa di vetro, mia piccola Amelie. Quindi si butti.’.

Buttarmi è quello che ho imparato a fare.

Sono un essere che si nutre di emozioni, come ho la presunzione di credere anche tu.

Le mie vene pompano adrenalina e libertà, e vorrei fosse così per sempre.

Però non c’è certezza del domani, ed è per questo che credo che la vita vada vissuta attimo dopo attimo.

Ho avuto paura tante volte, ma il mio cuore è stato più potente. Sono sempre andata dove lui mi portava.

Per capire, mentre qualcuno con una penna stilografica metteva la parola fine ai guai dei miei anni e girava la pagina scrivendo ‘to be continued’, che era proprio quella paura a darmi le ali.

La paura e il bisogno di te.

La paura e il bisogno di vagare.

La paura e il bisogno di sfidare questa vita armata di polvere di fata e di chilometri macinati a poco a poco per le strade di questo mondo, dove i miei stivali hanno lasciato impronte numero 40 impresse nel cemento a imperitura memoria di chi dopo di me verrà a battere questi sentieri, a cercare questi sogni, a inciampare in questa vita, a imparare che oltre ad essere unica, è anche una. Una soltanto.

 

Grazie ragazze per il calore con cui ci avete accolte. Grazie Miolety, Bebe e Kiki per i bellissimi commenti, grazie Nar, Michi, Saretta (altrimenti note come ‘la gang delle vagabonde’ xD), , perché ci appoggiate, perché ci volete bene, perché ci mettete in forze quando qualcosa crolla, perché ci tirate su e ci spronate a combattere, perché ci insegnate che qua nessuno è discreto e siamo tutte straordinarie, per credere insieme a noi che un giorno nemmeno troppo lontano saremo tutte ‘singin in the rain’ sotto il Big Ben. O magari sopra. Su una lancetta. Pronte al decollo.

E grazie sorelle, Jools e C, per aver appoggiato questa ennesima follia di una mente pericolosa. Grazie di cuore.

E grazie Orlando, anche da parte della Fabriano e della Pigna, per tutti i pezzi di infinito (incalcolabili) in balia dei pezzi di carta (incalcolabili) su cui ho scaricato maree di penne biro (incalcolabili) raccontando tutti i modi in cui ho scoperto di poterti amare (incalcolabili).

Al prossimo aggiornamento, sempre che non legga qualche dipendente della Neuro, caso in cui saremmo costrette a continuare dalla cella del manicomio criminale in cui soggiorneremo.

Baci, abbracci e polvere fatata su tutte le vostre capoccette.

 

 

 

  
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