Aprì gli occhi, incredula. Per la prima volta si ricordava con chiarezza cosa era successo nel bel mezzo di un emicrania. Sapeva di averla avuta, le ricordava tutte, anche se paradossalmente più quei momenti erano vividi e più il resto della sua vita diventava nebuloso; ma in quel momento sembrava di secondaria importanza.
Si mise a sedere, cercò nuovamente il foglietto e lo lisciò: era il programma della festa di laurea, sul retro erano segnate delle lettere senza significato:
XXX VI MMCXXXVIII
XV VIII MMCXXXIX
XXXI XXII MMCXL
XXIII IX MMCXLI
XXXI XXII MMCXLII
Cosa
erano quelle lettere, che cosa si era voluta appuntare? Più le
guardava più le vedeva mischiarsi sotto ai suoi occhi, era come se
un altra sé stessa avesse voluto lasciarle degli indizi da
risolvere.
Ma non era mai stata una brava in crittografia, non si
spiegava come le era venuto in mente di lasciarsi un messaggio
simile.
Una voce irruppe dall'altra stanza, era qualcuno al
telefono.
– Ivy? Ci sei? Sono Betty, passo a prenderti alle sette,
fatti trovare pronta...
Corse a rispondere.
– Betty? Non penso
di stare molto bene. – provò a declinare.
– E salteresti la festa
di capodanno? Scordatelo, mettiti due fette di cetriolo sugli occhi e
vatti a fare un bagno, vedrai che sarai come nuova. A dopo. – le
rispose l'altra ragazza, perentoria, prima di chiudere la
comunicazione.
Ivy seguì di controvoglia il consiglio, anche
se avrebbe voluto rimanere a casa e riflettere sul suo mistero; anche
perché, esattamente come in un episodio di emicrania, non si
ricordava chi fosse quella Betty.
Ma doveva cercare di comportarsi
normalmente, e inoltre sperava di poter incontrare qualcuno che la
potesse aiutare a sbloccare la memoria: la sua paura era quella di
tornare a scordarsi di quelle lettere, che il ricordo le scivolasse
dalle mani così come era spuntato, all'improvviso. Puntuale, alle
sette, il campanello di casa suonò, Ivy prima di uscire mise nella
borsetta il foglio con le lettere, come un amuleto che le avrebbe
impedito di dimenticare: aveva la sensazione che la soluzione a quel
mistero era quanto di più importante ci potesse essere.
Salì
sulla macchina salutando le ragazze, cercando di mascherare il suo
imbarazzo nel non riconoscerle.
– Allora, – le disse la bionda
alla guida, Betty, – sei pronta a incontrare il prossimo uomo della
tua vita?
Ivy sollevò un sopracciglio, stanca,
– Non sono
dell'umore adatto.
– Ehi, – si ribellò la rossa seduta dietro, –
io e Betty ci siamo fatte in quattro per trovartelo, e tu stasera lo
conoscerai! Vedrai, è completamente diverso da Sean.
Ivy cercò
di ricordare l'uomo che sapeva di aver lasciato tempo prima, e si
chiese in che modo la persona che volevano presentarle fosse
diversa.
Parcheggiarono nel vialetto di una villa enorme, piena di
luci e di musica.
Colin era alto, vestito elegantemente come
ricordava Sean, ma aveva una barbetta ispida ad arte, e un piccolo
cerchietto nel sopracciglio.
– Che schianto, eh? – le sussurrò
“la rossa”.
Ivy sorrise debolmente, non aveva minimamente
voglia di passare la serata con quel tizio.
– Vado a prendere da
bere, volete qualcosa? – disse, per togliersi
d'impiccio.
Fortunatamente allontanandosi notò che Colin era
molto più interessato alla “rossa” che a lei, il che attutì il
suo senso di colpa, perché era lampante che anche “la rossa”
stravedeva per lui, spingendola a chiederle come mai allora volesse
presentarlo a lei.
– Dolce o secco? – le chiese un cameriere.
– Dolce, grazie.
Una voce famigliare attirò la sua attenzione,
– Il tempo passa ma i tuoi orrendi gusti rimangono uguali.
Si voltò
e vide Paul, lieta di riconoscerlo.
– Ciao, è... – tentennò,
sperando di non sbagliare. – È un po' che non ci si vede, vero?
Lui
scrollò le spalle,
– Abbastanza. Hai fatto qualcosa? – le chiese,
studiandola.
– In che senso?
Continuava a guardarla.
– Non
lo so, sembri diversa.
Doveva forse dirgli dei suoi ricordi persi
e ritrovati?
Chiacchierarono del più e del meno, fortunatamente
senza entrare troppo nei particolari, e Ivy riuscì a tenere la
conversazione senza perdersi, sentendosi normale.
– Hai intenzione
di rimanere? L'ultimo capodanno che abbiamo fatto insieme te la sei
data a gambe, avevi davvero mal di testa o non volevi vedere...
Ivy
non lo stava più ascoltando, osservava delle lettere che gli
spuntavano da sotto la camicia.
– Che cos'è? – chiese,
interrompendolo.
Paul alzò la manica, mostrando il tatuaggio: V X
MMCX
– La mia data di nascita. – rispose, con estrema
ovvietà.
Ivy si massaggiò la tempia.
– È una data? Tu sai
tradurle? – chiese, improvvisamente affannata.
Paul la guardò,
preoccupato.
– Non starai avendo un altro attacco, vero?
Le
dita tremavano, mentre raggiunse la chiusura della borsa. La fece
scattare, riuscì a tranquillizzarsi solo quando sentì la carta
logora del foglio. Sospirò, più sicura.
– Prometto di spiegarti
tutto, ma prima riesci a tradurmi queste date?
Paul guardò il
foglio che gli stava porgendo, dubbioso.
– Posso provare. – disse,
grattandosi la testa. Ivy era decisamente strana quella sera, l'aveva
intuito quando l'aveva incontrata e ora ne aveva la conferma.
Scrisse
su un tovagliolino le cifre corrispondenti.
– Ecco. – disse,
porgendoglielo.
Ivy lesse a mezza voce.
– Trenta sei
duemilacentotrentotto. Quindici otto duemilacentotrentanove...
– Sai cosa sono? – le
chiese.
Ivy scosse la testa.
– A te dicono qualcosa?
Lei non
sapeva niente della sua vita, magari gli altri potevano ricordare per
lei.
– Questo è il capodanno di due anni fa, e questo è quel
ferragosto... – si bloccò, sembrava aver trovato la soluzione, ma
era restio a comunicargliela.
– Vai avanti, Paul, per favore.
Lui
guardava lei e guardava il tovagliolo, indeciso.
– Queste due, la
data di oggi e il ventitré settembre duemilacentoquarantuno, non so
a cosa si riferiscono, ma le altre... sì, le altre corrispondono
alle date di quando Zach è tornato a casa.
Quel nome le passò da
una tempia all'altra.
– Chi? – boccheggiò.
– Zach. – ripeté
lui, serio.
Ivy non respirava più, chi era Zach? Prese le sue
cose, e corse da Betty, chiedendole di accompagnarla a
casa.
Zach.
La prima emicrania: la voce tra la folla, gli
occhi che aveva incontrato; era lui.
La seconda emicrania: c'era
anche lui a quel barbecue, per qualche strano motivo erano stati ai
poli opposti del giardino per tutto il tempo.
La terza emicrania:
era Zach quello che era arrivato allo scoccare della mezzanotte.
Ma
chi era Zach?
Cercò di ricordarsi di quel settembre, della
panchina: guardandola aveva ricordato che erano passati dieci anni,
ma dieci anni da cosa?
Poi, come una diga che all'improvviso va in
frantumi, tutti i ricordi la travolsero: dieci anni dal loro bacio,
Zach era Zach, il ragazzo che aveva amato con tutta sé stessa.
Come
aveva fatto a dimenticarlo, perché?
Insieme ai ricordi belli
erano arrivati anche quelli brutti, la borsa di studio, il figlio che
avevano perso, il sapere che non avrebbero mai potuto averne
insieme.
La decisione di lasciarlo senza una spiegazione, e
l'ipnosi e le medicine per sradicarlo dalla sua vita, per non
soffrire.
Tutti i suoi buchi erano cicatrici un tempo riempite da
lui.
Quando Ivy ricordò quell'amore travolgente e unico, il
dolore di averlo perso le fece mancare il respiro. Ancora. Dopo
tutti quegli anni ancora quel dolore, si chiese quanto sarebbe
durato, prima che l'ipnosi afferrasse nuovamente il suo inconscio,
per farla ritornare nell'oblio.
E a quel pensiero il respirò
sembrava non volerle tornare più, doveva trovarlo, a qualsiasi
costo, doveva guardarlo un ultima volta sapendo chi aveva davanti e
doveva dirgli tutto, il perché l'aveva lasciato.
Respirò dentro
a un sacchetto di carta, la sua unica speranza era Sasha, e doveva
trovarla: lei l'avrebbe portata da Zach.
Si collegò al sito del
suo corso universitario, stando a quello lavorava ancora in città, e
viveva a una cinquantina di chilometri da lì; doveva essere sua la
casa di quel capodanno che ricordava.
Guardò l'ora: era quasi
mezzanotte, non poteva presentarsi lì, avrebbe dovuto aspettare il
giorno dopo. Nel frattempo, però, sarebbe dovuta rimanere sveglia e
lucida: era l'unica speranza per continuare a ricordare.
Passò la
notte seduta sul divano, spossata dalle lacrime che continuavano a
scenderle, al pensiero di quello che aveva fatto.
Non che si
pentisse di averlo lasciato: lo aveva fatto per lui, per dargli
l'opportunità di avere una vita,e probabilmente era riuscita nel suo
intento; aveva sbagliato nel non dirgli il perché, nel fuggire e nel
dimenticarlo, perché conoscendolo sapeva che in quel modo lo aveva
ferito profondamente.
Tornò sul sito e lo cercò: aveva
frequentato quel famoso master, ma era tornato e si era preso il
posto che le aveva detto di volere, giornalista in una delle testate
più importanti della nazione.
Continuò a vagare su internet,
leggendo i suoi articoli, cinici ma sagaci, spiando i particolari
della sua vita: non si era mai sposato, ma aveva avuto un figlio. Non
stava con la madre, ma stando a quello che era riportato lo aveva
riconosciuto e provvedeva a lui.
Tutto quello che scoprì le fece
male e bene allo stesso tempo: Zach aveva fatto quello che lei aveva
sperato, ma sembrava che nella sua vita mancasse qualcosa, e sperava
di poter restituirglielo lei, confessandogli come erano andate
realmente le cose. Prima di dirgli addio un'ultima volta.
Alle
cinque si preparò un altro caffè, la determinazione aveva spazzato
via il sonno, complice anche il fatto che il pomeriggio prima aveva
dormito, ma voleva accumulare quanta più caffeina, in modo da poter
resistere il più a lungo possibile. Trovare qualcuno che le facesse
nuove sedute per rompere definitivamente l'ipnosi era impossibile, in
quei giorni di festa, e se si conosceva un po', se anche si fosse
annotata di farle, una volta tornata a scordare tutto si sarebbe
fidata di più del suo istinto di anni prima nel voler dimenticare, e
avrebbe ignorato la cosa.
Sapeva che non avrebbe potuto
bussare alla porta di Sasha di prima mattina, così una volta
arrivata nel suo quartiere attese che il sole si alzasse, ripetendo a
mezza voce il discorso che si era preparata.
Doveva partire col
dirle dell'ipnosi, perché Sasha l'ascoltasse.
Quando si sentì
finalmente pronta suonò il campanello, e aspettò ancora.
– Ivy? – sbadigliò mentre apriva la porta e la faceva entrare. – Sono anni
che non ti vedo, tutto bene? Come mai questa visita?
Registrò
l'affermazione, chiedendosi il motivo di quel distacco, dal momento
che attualmente era l'unica amica che ricordasse di avere.
– Ti
devo parlare, Sasha, è una cosa molto importante: scusami se sono
venuta qui senza avvisarti, ma devo risolvere tutto questo il più in
fretta possibile.
Sasha la precedette in cucina, e versò il caffè
in due tazze, facendola sedere.
– Parla, allora.
– Innanzitutto
devi sapere che quando ho lasciato Zach mi sono sottoposta a dei
cicli di ipnosi, per dimenticarlo. Ecco perché devo esserti sembrata
un po' strana.
Sasha si era innervosita a sentire nominare il
fratello da lei, lo capiva dal sopracciglio alzato, ma continuò,
raccontandole tutto, dai motivi del perché l'aveva lasciato alle
varie amnesie. Lei non fiatò, per tutto il tempo, rimanendo immobile
come una statua di sale.
Poi, quando Ivy finì, Sasha incrociò le
braccia.
– A questo punto fai una nuova ipnosi e dimentica di
nuovo tutto. – disse, aspra.
– Ma non capisci? Devo vedere Zach,
devo dirgli...
Sasha la interruppe.
– Tu non gli devi dire
niente, Ivy: anni fa gli hai spezzato il cuore, punto. Anni fa, non
ieri: non c'è niente che tu possa fare, ora, se non andartene, e non
azzardarti più a nominare mio fratello. Lascialo in pace.
Ivy era
sbalordita dalla sua freddezza, che l'aveva congelata. Sasha non
l'avrebbe aiutata a cercare Zach.
– Devo chiederti un'ultima cosa,
poi me ne andrò: come ti ho detto non ricordo praticamente nulla
degli ultimi anni, cosa è successo tra me e te?
– Non lo
immagini? Dopo come hai trattato Zach ci siamo allontanate, prima di
poco, poi finita l'università abbiamo iniziato a frequentarci sempre
meno. Quando mio fratello, stufo della tua presenza, mi ha chiesto di
non invitarti più se ci fosse stato anche lui, ho preferito tagliare
direttamente tutti i ponti con te. Non mi cambiava niente.
Ormai
era alla porta di casa.
– Sasha, nemmeno ora riesci a perdonarmi?
Neanche dopo che ti ho spiegato perché l'ho fatto?
– Dici che lo
hai fatto per lui, ma l'unica cosa che gli hai fatto è stato farlo
soffrire, non hai migliorato la sua vita. – sibilò, prima di
chiuderla fuori.
Ivy iniziò a camminare, senza una meta
precisa.
Ora la sua unica alternativa era cercare Paul, ma non
sapeva da dove iniziare, non sapeva niente di lui.
Chiamò Betty,
che dopo essersi lamentata della sua ritirata la sera prima gli diede
il numero di chi aveva organizzato la festa, l'unica risorsa che Ivy
aveva.
Fortunatamente Joe conosceva Paul, e riuscì a farsi dare
il suo numero.
Non rispose al telefono, ma aveva il servizio di
localizzazione attivato, e non era a più di tre chilometri da dove
si trovava lei; e imprecando contro il servizio taxi che sembrava non
volesse raggiungere quella zona iniziò a correre.
Arrivò davanti
a casa sua trafelata, e si attaccò al campanello, imponendosi di
svegliarlo: piuttosto avrebbe buttato giù la porta, ma Paul doveva
ascoltarla.
– Ma che diamine ci fai qua, Ivy? – disse, aprendole,
infastidito.
Lei entrò in casa, aveva paura che così come Sasha
non l'aveva voluta aiutare neanche Paul l'avrebbe fatto, soprattutto
dal momento che l'unico motivo per cui lo conosceva era perché era
amico di Zach.
– Paul dov'è lui? Dov'è Zach? – gli chiese, quasi
urlando.
Lui l'aveva guardata con pietà, o almeno fu quello che
Ivy lesse nei suoi occhi.
– Lo sai, non vuole avere più niente a
che fare con te, in questi anni non è cambiato niente.
– Paul, ti
prego. Devo solo parlargli, ho poche ore per farlo, e non so neanche
quante di preciso. È difficile da spiegare, ieri mi hai aiutato a
ricordare alcune cose, e devo dirgliele assolutamente.
Paul le
mise una mano sulla fronte.
– Sei consapevole di avere la febbre,
vero?
Ivy si scansò.
– Ascoltami, è importante: mi sono fatta
ipnotizzare, per dimenticarlo, ma devo dirgli perché l'ho lasciato,
ho sempre saputo di doverglielo dire, ecco perché avevo quelle
emicranie, il mio subconscio cercava di farmi ricordare. Ora lo so,
ma non durerà a lungo, ecco perché devo trovarlo il prima
possibile.
– E stai anche delirando. – affermò Paul.
Ivy si
appoggiò al muro, sconsolata: non la stava cacciando come aveva
fatto Sasha, ma sapeva che non aveva modo di fargli cambiare idea.
Vide il suo cellulare,
appoggiato su una mensola, e cambiò strategia.
– Fammi un favore. – disse, più mansueta, – Dammi un'aspirina, e torno a casa.
Aspettò che lui si
allontanasse, e cercando di fare il meno rumore possibile raggiunse
il telefono, trovando il numero di Zach e copiandolo sul suo
cellulare. Poi, prima che Paul tornasse, uscì di casa e iniziò a
correre di nuovo.
Iniziò a rallentare, mentre il telefono tra le
sue mani sembrava bruciare: lo guardò, fece partire la chiamata, e
si fermò.
– Pronto? – la sua voce la raggiunse dopo un paio di
squilli, era identica a come si ricordava. Aveva sempre amato la sua
voce. – Pronto? – stava ripetendo.
– Non attaccare. – disse
allora, maledicendosi perché non sapeva cosa dirgli. Zach rimase in
silenzio, lei deglutì, e provò a parlare. – Zach, sono Ivy, non
attaccare, ti prego, ti devo parlare.
– Non voglio ascoltarti,
Ivy, cosa vuoi da me? – ora la sua voce le arrivò tagliente,
nervosa. Sentì le lacrime pungerle gli occhi, mentre cercava le
parole da dirgli.
– Lo so, so che non vuoi, ma ti prego, dimmi
dove sei: ti devo parlare. È importante, poi ti lascerò in pace, te
lo giuro.
– Ivy smettila: non chiamarmi più.
– Zach, –
singhiozzò impaurita, sentendo che lui stava per chiudere la
conversazione. – Zach ascoltami, non ti cercherò più, non potrò
cercarti più, ma ora ti devo vedere, ti devo parlare, e ho poco
tempo per farlo: poi me ne dimenticherò.
– Smetti di piangere,
non si capisce quello che dici. Cosa vuol dire che te hai poco tempo?
Stai forse per morire e vuoi darmi l'ultimo saluto? Dedicalo a
qualcun altro, non ne vale la pena.
– No, non è quello, ti prego,
ti scongiuro. – Controllò lo schermo del suo telefono, anche lui
poteva essere localizzato e le diceva che era in città. – Ascolta,
sarò da te in meno di un'ora, aspettami. Te lo giuro, solo questa
volta, solo oggi, poi non ne saprai più niente di me.
Zach chiuse
la conversazione, ma ora sapeva dove trovarlo. Riprese a correre,
Paul aveva ragione, aveva la febbre, forse era una reazione fisica ai
suoi ricordi tornati a galla, ma ignorò le gambe che le cedevano e
la testa che pulsava odiosamente, ricordandole quanto fosse flebile
quel momento di lucidità, fino che raggiunse un posto dove un taxi
accettò di andarla a prendere. Riferì l'indirizzo che il telefono
le aveva evidenziato come posto dove si trovava Zach, e si staccò
dallo schienale, cercando di rimanere lucida: non poteva cadere
nell'oblio proprio in quel momento.
Lottò contro le palpebre che
si volevano abbassare, cercando di non lasciarsi cadere in tentazione
quando il suo corpo le suggeriva di chiuderle per un solo istante, e
quando finalmente il taxi si fermò sentì di nuovo le lacrime
affiorare. Era arrivata, poteva dire tutto a Zach: doveva solo farsi
ascoltare.
Il portone del condominio era aperto, fortunatamente,
lesse il piano sull'etichetta del citofono e raggiunse il suo
pianerottolo.
Guardò la porta che aveva di fronte: Zach si
trovava dietro di quella, a pochi metri.
Si portò una mano al
petto, come a voler rallentare inconsciamente il cuore che
martellava, impazzito, e suonò il campanello.
La porta si
spalancò di colpo.
– Cosa non ti era chiaro nella frase: “non
voglio parlare con te”?
Ivy però non lo sentiva.
Rimase
senza fiato a guardarlo, perfetto come si ricordava, forse anche di
più con un accenno di barba incolta e lo sguardo più maturo.
– Sei tu. – singhiozzò. – Sei proprio tu.
– Vattene Ivy: questa
storia non attacca. – disse infastidito, cercando di chiuderla fuori,
ma lei riuscì a scivolare tra la porta e lo stipite.
– Zach ti
prego ascoltami, è tutta mattina che corro, e ti cerco: se non ti
dico questa cosa non potrò farlo più, dammi quest'occasione, ti
scongiuro!
La stava guardando con una strana smorfia, Ivy lo
vedeva tra le lacrime che le offuscavano la vista, e capiva perché
si stava comportando così: non era difficile tornare a interpretare
i suoi occhi, era ancora arrabbiato, soffriva ancora nel trovarsela
di fronte.
– Parla, allora, dannazione! – esplose, perdendo la sua
apparente pacatezza. – Almeno la finisci: si può sapere cosa
vuoi?
Ivy rimase ad osservarlo, in silenzio. Ora, trovandoselo
davanti, iniziava a pentirsi per non avergli dato l'opportunità di
scegliere lei, a dispetto di tutto: non avrebbe mai voluto sentirsi
un peso, un ostacolo tra lui e la felicità; ma d'altra parte sapeva
con assoluta certezza che per lei l'unica felicità si sarebbe
avverata accanto a lui. Non poteva essere altrimenti, lo amava
ancora, e lo sentiva con inaspettata chiarezza, nel suo inconscio non
aveva mai smesso di amarlo e di cercarlo.
– Sono qui per dirti la
verità, hai diritto di saperla. Quando ti ho lasciato ho deciso io
per te, come sarebbe stata la tua felicita e come sarebbe dovuto
andare il tuo futuro, mi rendo conto soltanto ora che volendo
assumermi io tutto ho solo fallito. Zach, se c'è una cosa a cui devi
credere è che se l'ho fatto è stato solo perché pensavo fosse il
tuo bene, ti amavo da impazzire, e in questo non è cambiato niente,
ti amo ancora oggi.
La smorfia si accentuò.
– Sei venuta solo
a confessarmi i tuoi sentimenti? – disse a mezza voce.
Ivy gli
raccontò tutto, a partire da quando aveva saputo del suo master,
quando aveva capito prima di lui di aver avuto un aborto, di come il
suo cuore si fosse doppiamente spezzato nel leggergli negli occhi il
dolore, mentre il dottore glielo comunicava. Del test che aveva
fatto, a sua insaputa, e di come tutto quello le avesse accecato
tutto, portandola a vedersi come un veleno nella vita di lui.
Zach
scivolò sul pavimento, turbato. Sembrava crederle.
Ivy si
inginocchiò di fronte a lui, aspettando che elaborasse le
informazioni, osservando i suoi occhi, che vagavano per la stanza e
poi su di lei, cercando di capire.
– Perché, – le chiese poi,
dopo un lungo silenzio, – non mi hai detto niente, in questi anni?
Perché solo ora?
Ivy strinse la mano in un pugno, quella
spiegazione le ricordava anche quanto fosse labile quel momento. Le
unghie si conficcarono nel palmo, spingendola a parlare, a
confessargli quell'ultima cosa.
Sussultò quando Zach posò la
mano sulla sua, aprendole il pugno. Abbassò gli occhi, guardando le
due mani una sull'altra.
– Non riuscivo a sopportare di averti
lasciato, così ho voluto dimenticarti. Mi sono iscritta a una
sperimentazione di ipnosi, e ti ho cancellato dalla mia testa.
Tornò
a guardarlo, le sembrò di leggere la pietà nei suoi occhi, e lo
capiva: si commiserava da sola.
– Col senno di poi, – continuò, –
se da un lato me ne pento, dall'altro non posso giurare di aver
sbagliato, non dopo aver scoperto che il mio cuore non vuole saperne
di smettere di amarti. In tutti questi anni quando ti vedevo, o
quando vedevo delle cose che potevano ricordarmi te, avevo delle
emicranie, erano dei momenti in cui non mi ricordavo più chi ero ed
ero più vicina a capire chi eri. Una volta finito me ne scordavo,
tutte le volte, fino a ieri. Ieri mi sono ricordata, ho trovato le
date delle emicranie, e ho trovato te. – si coprì la bocca con una
mano, cercando di impedire alle labbra di tremare. – Non dormo da più
di ventiquattro ore, avevo paura che se mi fossi addormentata mi
sarei scordata di nuovo tutto.
Zach prese la mano che le copriva
le labbra, abbassandola e scoprendole il volto.
– Perché ci
tenevi tanto a raccontarmi tutto? – le chiese, senza smettere di
guardarla negli occhi.
Ivy sentì l'ennesima lacrima sfuggirle,
rotolare giù per la guancia e cadere nel vuoto, andando a bagnare i
suoi pantaloni.
– Perché sapevo di averti rovinato la vita. –
ammise.
Zach abbassò la testa, sbuffando un sorriso stanco.
– È così, Ivy. Sei stata una stupida, hai deciso anche per me, e
davvero, mi hai rovinato la vita. – Ivy cercò di divincolare le mani
dalle sue, ma Zach le trattenne. – E ora lascia che sia io a decidere
per tutti e due: starai con me, e me la metterai a posto. Non ti farò
andare via di nuovo, non mi importa cosa diranno tutti: sei stata
stupida, stupida, tremendamente stupida, ma non posso ignorare che lo
hai fatto per me.
– Non so per quanto riuscirò a ricordarmi di
te.
– Ti farò fare un'altra ipnosi. – disse, sicuro.
– E se
non funzionasse?
– Non lo so, ma prima o poi ti riporterò da me,
troverò un modo. Ivy a me non importava niente, insieme ce la
saremmo cavata: non potevamo avere figli? Li avremmo adottati,
l'essenziale era che ci fossi tu nella mia vita, non un figlio con il
mio codice genetico. E quel master sai che fine ha fatto?
La tirò
a sé, e Ivy si strinse al suo petto.
– Scusami. – singhiozzò.
– Perché piangi ancora?
– Non sopporto l'idea di perderti.
Zach
le accarezzò la testa.
– Vedrai, non mi perderai. E comunque ora
sei qui, vero? Ti ricordi di me, vero? Non importa quanto durerà.
Ivy
sollevò il viso verso di lui, e mentre lo baciava pregò che lui
avesse ragione.
Ancora, le loro labbra unite, le mani e le gambe
intrecciate, avevano senso come poche cose nella vita.
Lo amava,
avrebbe voluto urlarlo con tutta la sua voce, e anche ogni centimetro
della sua pelle esplodeva per gridarlo.
Le accarezzò la
guancia.
– Dormi, Ivy: vedrai, ti farò di nuovo ricordarti di
me.
Le palpebre le tremavano, quasi chiuse del tutto, ma lei non
voleva ancora lasciarsi andare.
– Abbracciami. – sussurrò.
Zach,
sdraiato accanto a lei, la strinse, e Ivy si addormentò.
Nda: Ecco il terzo e ultimo capitolo. Mi rendo conto che essendo la storia il racconto di un sogno, sia molto più comprensibile per me che per voi, e probabilmente avrei dovuto delineare meglio, evitare alcuni stacchi della narrazione: oggi vi posto il terzo capitolo, ma un giorno riprenderò in mano la storia, e la riscriverò, sperando di riuscire a darle una forma migliore! Si spengono le luci su Zach e Ivy, chissà se riusciranno a stare insieme...