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Autore: KaienPhantomhive    20/09/2013    2 recensioni
[NUOVA EDIZIONE - VERSO LA PUBBLICAZIONE
Dopo 7 anni di blocco dello scrittore, riprendo in mano finalmente questo progetto, con una revision e correzione integrale dei capitoli già pubblicati, oltre a proseguire la storia.
Indispensabili lettori e recensori, aiutatemi a trasportare questo sogno da EFP alle pagine di un libro!
Completa | Prosegue in: "EXARION - Parte II"]
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"Quando i Signori della Luna penetrarono per la prima volta il nostro cielo, ciò avvenne come un monito, portando con sé il Freddo Siderale. [...] E da quel giorno il Cielo fu d'Acciaio."
Anno 2050: dopo più di un secolo, l'Umanità imparerà ad affrontare nuovamente la sua più mortale nemesi; se stessa.
Zeitland, Natasha, Helena, Arya, Misha, Màrino, Aaron: qual'è il filo invisibile chiamato 'Exarion' che lega queste anime? Quale la vera natura e il segreto del contratto che li lega alle misteriose sWARd Machines, gigantesche entità bio-meccaniche dai poteri soprannaturali? Una storia di Amore e Odio, Ricordi e Desideri, conflitti, legami, alchemiche coincidenze e destini incrociati. La Storia dell'Amore Egoista e dell'ultima Guerra del Mondo.
Genere: Guerra, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'EXARION: Tales of the EgoSelfish sWARd Machine'
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7.

 

Confronto

 

 

Ore 11:30. Sala ‘Truman’; Nuova Sede Centrale dell’ONU – Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. New York; Area Nord degli Stati Federati d’Austramerica.

 

“Eccolo, sta entrando in questo momento.” – con un cenno della testa al suo cameraman, una reporter americana indirizzò l’attenzione verso il fondo della sala; si assicurò che il microfono fosse acceso e il soggetto a fuoco – “Il Capo di Stato della Russia ha varcato ora la soglia della sala Truman e si appresta a prendere posto.”

“…certo, il clima in aula è teso, come è facile immaginare.” – continuò qualcun altro, rivolgendosi ad anchormen dall’altra parte del globo – “Vediamo Novikov scortato dal Ministro alla Difesa Lebedev, che ricordiamo essere la sua nuova scelta per il secondo mandato presidenziale. Mossa abbastanza prevedibile e…”

Non era certo un servizio in esclusiva assoluta, considerando il quasi centinaio di altri inviati dalle televisioni internazionali, in una Babele di lingue diverse.

 

Facendosi largo tra la calca irrequieta, Novikov sostenne e passò oltre lo sguardo accusatore dei Capi di Stato di Grecia, Italia, e qualche rappresentante degli Stati minori Austramericani. Insieme a Lebedev, raggiunse la postazione contrassegnata dalla bandiera russa e dal suo cognome, al grande tavolo ovale posto al centro della sala conferenze. Salutò con asettica cordialità la Presidente francese Caroline Blanchard e il trentasettenne erede dei Windsor, che subito si prodigò nell’alzarsi in piedi. Gli regalò un sorriso di circostanza, che nascondeva la poca fiducia che Novikov riservava al nuovo rampollo dei reali inglesi e alla sua decisione di darsi alla politica internazionale, e poi ognuno prese posto. Intento a sbottonarsi la giacca del completo, che ora gli risultava insopportabile, Novikov abbracciò con la sguardo l’intera sala. Sedeva al tavolo centrale insieme ai rappresentanti delle maggiori potenze economiche mondiali: era affiancato a destra e sinistra dall’Inghilterra e dal Presidente cinese Liu Bingwen; a seguire in senso antiorario trovò la Blanchard dalla Francia (alla cui bellezza, arrivata agli inizi delle sue sessanta primavere, non poteva restare del tutto indifferente) e ovviamente l’invitato scomodo della tavolata: Georg Baumann, l’anziano Cancelliere tedesco che stava così coraggiosamente scendendo a compromessi con i Nazisti, in bilico tra una guerra civile o una minaccia di attacco da parte di coloro che vantavano diritti inesistenti sul suo Paese. Finito il blocco eurasiatico, iniziavano i seggi dedicati ai rappresentanti delle Nazioni Arabiche Unite, tutti rigorosamente maschili, che si attardavano ancora in piedi: Qatar, Egitto, Kuwait, Turchia ed Emirati sembravano decisamente presi da una conversazione concitata, che si alternava a occhiate furtive in direzione di Novikov e dell’Eurasia tutta. L’ultimo spicchio di tavolo era riservato al Presidente del Consiglio dell’ONU e al Triumvirato d’Austramerica: il nord-americano Henry Williams e l’australiano Arthur Jackson (due conservatori, dopo una lunga parentesi democratica), affiancati dall’ecuadoregna Veronica Almeida, prima presidente donna della neonata superpotenza. Alle spalle del tavolo centrale si estendeva il resto della platea composta dai portavoce di tutte le altre Nazioni e infine, sopra tutti loro, lampeggiavano i flash del loggione riservato alla Stampa.

 

“Eccolì la.” – borbottò sottovoce Lebedev – “Adesso possono anche sedere belli comodi in questa aula. Che vergogna.”

Si riferiva ovviamente all’uomo e alla donna alla piccola scrivania aggiunta proprio al centro dell’aula: Erwin Albrecht e Katrina Winter. Novikov non si era nemmeno accorto della loro presenza, tanto era il silenzio che come contraddiceva gli ufficiali del Reich, a metà tra etichetta diplomatica e sdegnoso contegno.

“Auguriamoci solo che la prossima volta non siano direttamente al posto di Baumann.” – commentò Novikov, provando a muovere le labbra il meno possibile.

Attention, please.” – una monocorde voce femminile risuonò agli altoparlanti – “The congress is about to begin in two minutes. Representatives are asked to take their seats. Thank you.

Il chiasso si ridusse fino a un tenue brusìo e sul grande schermo appeso alla parete Nord scomparve il logo delle Nazioni Unite, sostituito da quella che sembrava a tutti gli effetti una foto dei giganti Fafner e Freya, intendi a combattere in lontananza in una boscaglia. La qualità non era delle migliori e chiunque con un minimo di competenze grafiche avrebbe potuto falsificarla, ma se fosse stato così non sarebbe di giunta all’attenzione dell’ONU intera.

Good morning everyone.” – fu il saluto di Omar Mizrachi; questo mese era il turno di Israele a presiedere la seduta; non suonava per nulla allettato – “Alle ore 11:35 si riunisce l’assemblea straordinaria del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In base al regolamento, la parola va ai richiedenti la seduta. Prego, parlate pure.”

“La ringrazio.” – Albrecht prese la parola, alzandosi in piedi; parlò in un’inglese scolastico ma dall’ottima dizione, scandendo ogni parola – “Il mio nome è Erwin Albrecht, Oberstgruppenführer del Quarto Reich. In qualità di suo portavoce, informo questa platea che il Kaiser è amareggiato dagli ultimi eventi. Come immagino saprete, quattro giorni a fa ho inviato il mio Oberstleutenant nella periferia di Baksheevo, in Russia, con ordini di accertamento circa un campo-base improvvisamente reso operativo. Trasgredendo ii Patti di Non-Aggressione, il corpo di guardia militare ha deliberatamente aperto il fuoco contro i miei uomini, costringendoci a rispondere.”

Un’onda invisibile ma non meno pesante investì Novikov da ogni direzione. Tutto il mondo aveva gli occhi puntati su di lui.

“Se vi state chiedendo il motivo della visita, sappiate che dall’ultimo bilancio stilato dal Governo russo risaltano numerose incongruenze. Era chiaro che certe spese del settore bellico e gli insensati aumenti alla tassazione pubblica nascondessero qualcosa. Se non sbaglio questo è anche una violazione dell’Articolo 7 della Convenzione di Ginevra; dico bene, signor Presidente del Consiglio?” – e si rivolse in modo molto retorico all’uomo sul palco – “Potete facilmente dedurre dalla foto alle mie spalle che si trattava di un’arma: una macchina robotica dall’enorme potenza, sconosciuta a chiunque di voi. Il Kaiser invita la Russia a esporre le sue motivazioni per un tale atto di tradimento.

Un suono acustico prolungato. Novikov aveva richiesto parola e il lampeggiante che contraddistingueva il suo banco si era acceso di arancione.

“La Russia chiede diritto di parola.” – annunciò l’assistente al Presidente di seduta.

“Permesso accordato.” – confermò Mizrachi, toccando un tasto sulla sua postazione che fece passare a verde la luce dei russi.

“La ricostruzione presentata è parziale e tendenziosa.” – iniziò Novikov; avrebbe dovuto mostrarsi sicuro di sé o Dio solo sa come il mondo avrebbe accolto un suo minimo tentennamento – “L’invasione del sito di Baksheevo non è consentita da Ginevra e rappresenta un’aggressione a cui è possibile rispondere con il fuoco. Inoltre, Mr. Albrecht trascura di sottolineare che nella foto proiettata compare anche una macchina rossa, che mi risulta appartenere al Reich.”

Un altro segnale acustico, dall’altra parte del tavolo circolare: “Il Qatar chiede diritto di parola.”

Omar Mizrachi acconsentì ancora: “Permesso accordato.”

“Forse Mr. Novikov potrebbe dirci perché quella base era ancora attiva dopo il disarmo mondiale del 2033.” – chiese il Primo Ministro Hussein bin Al-Marri, con una vena indiscutibilmente polemica.

“Primo Ministro Al-Marri,” – e Novikov decise in fretta di porgere il fianco a quella piccola sfida – “mi rendo conto che siete da poco parte di una grande formazione economica internazionale, e alcune dinamiche potrebbero sfuggirle, ma il sito di Baksheevo è sotto protezione speciale delle Nazioni Unite e questo è pacifico.”

Un terzo segnale acustico e un terzo “Permesso accordato”.

“Gli accordi speciali pregressi non si dovrebbero applicare alla nuova situazione mondiale.” – fu la Germania a parlare stavolta, provando a cavalcare l’onda dell’aggressione a Novikov.

“Ma stia zitto, lei!” – gli ringhiò contro il Ministro spagnolo, dagli spalti più in alto del secondo anello – “Dopo che ha anche accettato le clausole dei Nazisti! Abbia almeno la decenza di tacere!”

Baumann sobbalzò sulla sedia, la bocca contratta in una smorfia contrariata e iniziò ad inveire a sua volta contro la Spagna e su quanto non avessero percezione della delicatezza della questione per il suo Paese eccetera, eccetera, eccetera. Nel suo scomodo ruolo di mediatore, Omar Mizrachi tentò un paio di volte di riportarli all’ordine con le buone, poi lasciò perdere e mutò direttamente i loro microfoni, facendo passare da verde a rosso il segnaposto luminoso. A chiedere di intervenire subito dopo fu il Giappone.

“Io credo che non stiamo centrando il punto della questione.” – disse solennemente il Primo ministro Torajiro Harada con il suo inconfondibile accento giapponese, i suoi occhietti sottili passarono in rassegna ogni membro dell’anello centrale – “Sarei invece interessato a sapere perché le armi del Reich e della Russia hanno un aspetto tanto simile.”

Un brusìo agitato si levò dalla platea, segno che il passato da procuratore legale di Harada si faceva ancora sentire nelle sue strategie diplomatiche. Novikov dovette ammettere a sé stesso di sentirsi particolarmente a disagio. Non erano in buoni rapporti con il governo giapponese già dal 2040 e quella situazione non faceva che incrinare gli equilibri.

Stavolta fu Lebedev a rispondere: “Non c’è alcun legame tra noi e il Reich e l’inizio degli sviluppi sull’arma robotica risalgono a prima della formazione stessa dell’Eurasia.”

“È facile capire i timori del collega giapponese.” – subentrò ancora il Qatar – “A differenza delle Nazioni Arabiche Unite, la vostra intesa è nata su accordi deboli. Chi può garantirci che non seguirete politiche militari di testa vostra?”

Il dibattito stava per riaccendersi quando Jackson, dell’Austramerica, prenotò il suo intervento.

“Parla a nome suo o del Triumvirato?” – chiese Mizrachi, massaggiandosi in mezzo agli occhi con i pollici.

“Del Triumvirato.” – rispose Jackson – “Signori colleghi del Consiglio di Sicurezza, oggi più che mai la missione delle Nazioni Unite è preservare la pace mondiale. La stessa Alleanza della Faglia del Pacifico è nata per garantire una linea militare coerente tra Austramerica ed Eurasia. Per questo, in quanto Super-Nazione promotrice della RIM-PAC, chiediamo di prendere sotto osservazione l’arma della Russia.”

L’uomo sulla quarantina che sedeva alla destra di Hamada borbottò qualcosa in giapponese tra sé, che a quanto pare non sfuggì al labiale di Henry Williams: “No, non è per colmare il divario militare che invochiamo queste misure. E può sentirsi libero di esprimere i suoi pensieri davanti a tutti, Hamada-san.”

L’uomo s’irrigidì come colpito alla schiena, mentre il Primo Ministro giapponese gli rivolse uno sguardo raggelante con la sola coda dell’occhio.

“Non permetterti mai più.” – sibilò, premurandosi di coprire la bocca con il dorso della mano – “Sconsiderato.”

Torajiro e Isao Hamada. Il Primo Ministro e il Consigliere allo sviluppo dell’Industria Militare. Padre e figlio. Generazione 1 e 2. Aldilà del discutibile conflitto d’interessi ricoperto dalle loro posizioni, l’altro conflitto non meno palese era sempre stato di carattere personale e c’era chi scommetteva sulla caduta del Governo anche solo per un bisticcio familiare.

“Vi prego, vi prego, cerchiamo di mitigare i toni.” – Katrina Winter aveva prenotato il suo turno ma non aveva atteso il ‘via libera’; ora era in piedi, alta e provocante, e tutta lanciata in un’arringa dai tonti tanto patemici quanto artefatti – “Il nostro intento era solo chiedere un po’ di trasparenza ma, vedete, è questo il motivo che ha spinto il nostro illuminato Kaiser a formare il Reich: il caos che regna in quest’aula.”

Il brusìo che fino a quel momento era stato contenuto iniziò a farsi più vivo, ma la leader di Marine Kreuz non aveva orecchie per nessuno: “Vivete su un pianeta sul ciglio del collasso ambientale. Ogni giorno la vostra illusione di Democrazia è minata dagli interessi personali, da accordi nascosti sotto il tappeto, da speculazioni economiche. Ammettetelo: il vostro tentativo di spartirvi la Terra è un fallimento che merita compassione.”

Ora il brusìo era divenuto un vero e proprio chiacchiericcio generalizzato, contro il quale a nulla servirono gli ammonimenti del Presidente del Consiglio.

“Non esiste pace senza legge, e non esistono leggi senza un sovrano. Non pensate a ciò che è il Reich è stato nel passato, ma guardate al futuro! Il Reich è ordine. Abbracciatelo. La Svastica che portiamo sul braccio non è un segno d’odio, ma d’illuminazione! Non è così, onorevole Bingwen?”

E si voltò verso il Presidente Cinese con un gesto quasi caritatevole, che venne ripagato con un’invettiva su tutte le furie: “Non osi paragonare i simboli del Buddha con quello schifo!”

Arrivato a quel punto Omar Mizrachi aveva messo da parte ogni speranza nel moderare la discussione.

“Chiediamo solo un posto in questo mondo.” – proseguì la Winter – “Molte persone, in ogni città, sono entusiaste del nostro ritorno e noi siamo qui per darvi speranza! Mrs. Almeida…”

Stavolta era il turno della Presidente austramericana.

“…glielo chiedo da donna a donna. Non vorrebbe che i suoi figli crescessero in un mondo rinato?” – chiese infine con un cruccio da tragedia greca.

“Ms. Winter.” – rispose seccamente l’altra, trattenendo a stento l’impulso di spezzare una penna nel pugno – “Da donna a donna, è un disonore per tutte noi sentir parlare così una che condivide il nostro stesso colore della pelle.”

Un nugolo di schiamazzi, applausi misti a fischi, si levò dall’aula e fu chiaro a tutti che ormai la diplomazia era andata a farsi benedire. Il clamore terminò solo quando Albrecht fece squillare ancora il segnale acustico, così a lungo che rimase udibile ancora per qualche istante dopo che il silenzio fu tornato. Infine, parlò e ogni sillaba suonò pesante come piombo: “Discutere non porterà a nulla. Vi porto la nostra richiesta: d’ora in avanti siete invitati a dichiarare pubblicamente ogni Machine di cui dispongano i vostri Paesi.”

“E se invece foste voi a nasconderne delle altre?” – chiese il giovane Windsor.

“Siate informati che il Reich è in possesso di tecnologie ben oltre le vostre aspettative.” – furono le ultime parole di Erwin Albrecht che batterono l’ultimo chiodo sulla bara della speranza – “Nazioni della Terra, accettate le nostre condizioni…o rinunciate alla pace. Questo è ciò che demanda il Kaiser!”

 

E nel clamore generale che ne scaturì Edvard Novikov rimase impassibile al suo posto, mentre una singola frase gli attraversò la mente: Nataša. Ormai non posso più tenerla fuori da questa storia.

 

*   *   *

 

Ore 19:57.

Casa del Presidente Novikov; Mosca, Neo-Russia.

 

Aumentano i malcontenti e i cortei di protesta in tutta la Russia per quanto accaduto a Baksheevo, una settimana fa. Il sindaco

continua a negare qualsiasi implicazione nella faccenda e intanto, oggi, si è tenuta a San Pietroburgo la prima manifestazione…

Qualsiasi fosse il canale su ci si sintonizzasse, la storia era sempre la stessa: malcontenti, minacce di sciopero, accuse contro il Governo borbottate a un incrocio pedonale…la tensione e il sospetto su stavano facendo strada fra l’opinione pubblica piuttosto velocemente.

Nat, a cavalcioni sulla sedia della cucina, si limitava a fissare la sarabanda di servizi e di riprese a spezzoni che si avvicendavano sconclusionatamente in ogni notiziario.

“Non c’è proprio nient’altro in TV?” – chiese Arina Novikov, mentre armeggiava ai fornelli.

“Pare di no.” – mormorò Nat.

“Non credo ti faccia bene vedere tutta quella roba.” – insistette sua madre, ma non venne ascoltata.

 

Ogni intervista era un pugno allo stomaco, una maldicenza detta alle sue spalle a cui non poter replicare, una sferzata alla sua coscienza. Ma Nat sentiva che quelle persone avevano ragione, che meritavano di sapere la verità. Avrebbe voluto correre da loro e raccontare tutto in preda alle lacrime, scongiurandoli di mettersi nei suoi panni e darle conforto, ma sapeva anche di non averne il coraggio.

Dire a tutti che ero io a bordo di quel robot? – si chiese, con le guance bollenti – E poi cosa mi farebbero, se lo venissero a sapere? Io…

Il campanello d’ingresso e il rumore della serratura che scattava interruppero i suoi pensieri. Quando suo padre Edvard ricomparve sull’uscio, l’accoglienza che trovò fu piuttosto tiepida: Luka lo salutò a mala pena con un ‘ciao’ dal divano su cui si era stravaccato, sua moglie gli venne incontro e lo aiutò a sfilarsi il soprabito, ma nulla di più; e poi vide lei. Nataša si sollevò appena e con quei suoi grandi e stanchi occhi azzurri lo guardò in viso: “Ciao, papà.”

Lui le si fece subito vicino, abbracciandola e accarezzandole la testa: “Nat, tesoro, come stai? Sapessi quanto sono stato preoccupato.”

Lei si scostò da lui: “Sì, lo immagino. Ora sto bene., grazie. Stamattina un po’ meno.”

“Devi scusarmi. Lo so che oggi ti dimettevano, ma avevo un incontro davvero molto importante. Sono riatterrato poco fa e…”

“Centra con il lago?” – chiese sua figlia, con un filo di irritazione.

 

La cosa lo fece tentennare per un attimo.

Avrebbe dovuto dirle la verità, e cioè che per averla fatta salire a bordo di quel ‘barattolo di latta’ si era attirata contro le antipatie di tutto il pianeta? Avrebbe dovuto dirle delle attenzioni, per nulla rassicuranti, che il Risveglio della sua Machine aveva suscitato? Le avrebbe detto che, d’ora in avanti, la possibilità di salire nuovamente a bordo di quell’affare sarebbe stata sempre più probabile, che una Terza Guerra Mondiale era alle porte e che lei ne avrebbe fatto di certo parte? Sì, lo avrebbe fatto. Come padre, uomo e massima autorità politica aveva l’onere di pensare tanto allo Stato quanto alla sua famiglia e – per quanto gli costasse ammetterlo – era anche questa la gerarchia da rispettare.

Sua figlia era una parte di lui ma la popolazione della Russia contava milioni di vite. E inoltre proprio sua figlia era colei che era stata in grado di attivare la misteriosa sWARd Machine ibernata da decenni. Era l’ultima arma e speranza di cui si sarebbe potuto servire.

 

Mantenendo il controllo e scegliendo tra tutte le risposte possibili, optò per un laconico e sincero: “Sì. Centrava il lago.”

“Lo immaginavo.” – asserì lei, con un sorrisetto amaro.

Ledi Novikov smise di preparare la tavola e Luka si mise tirò a sedere sul divano.

“Ascolta, il fatto è che è stata una mossa avventata.” – tentò di spiegarsi lui – “Combattere contro quegli uomini, intendo. Certo non potevate permettere loro di avvicinarsi, nessuno si aspettava che…”

“Ne sei sicuro?” – lo interruppe bruscamente lei; negli occhi aveva una scintilla di sfida – “Non se lo aspettava nessuno? E com’è, allora, che io ero lì? No perché, sai, è una bella coincidenza che proprio nel giorno in cui ci attaccano i Nazisti io mi trovi lì.”

“Era solo il giorno che avevate stabilito con il dottor Asimov, pace all’anima sua!” – provò a discolparsi suo padre – “Nat, ti trovavi lì per pura coincidenza!”

“Che cavolata.” – le sfuggì una mezza risata nervosa – “Non me la bevo. Asimov ha detto che io ero l’unica in grado di salire a bordo dell’Unità e ‘per pura coincidenza’ era vero.”

“D’accordo.” – concluse l’uomo.

“Edvard…” – provò ad arginarlo sua moglie, intuendo come sarebbe finita di lì a poco.

“Ti prego.” – lui non volle sentire storie, ponendole una mano davanti; si voltò ancora verso Nataša – “Vuoi la verità? Va bene, ok, è giusto così. È un tuo diritto.”

Prese un respiro e poi: “Hai ragione: quello della tesi era solo un pretesto. Il motivo per cui ho acconsentito che andassi a Baksheevo era perché volevo che tu vedessi la Machine. Il dottor Asimov aveva ragione nel dire che solo tu avresti potuto attivarla. Ma ti posso assicurare che non avevo idea che sarebbero arrivati quei tizi, non avrei mai voluto che il tuo collaudo avvenisse così d’improvviso.”

“Perché?”

“Perché, cosa?”

“Perché sono l’unica che può pilotarla?”

“Questo non posso dirtelo.” – disse lui lentamente, quasi dovesse domare una belva feroce – “Non ancora.”

“Ah, non puoi?!” – lei iniziò a parlare più forte, alzandosi in piedi – “Però puoi decidere di farmi salire su qualcosa di cui so a mala pena il nome! Puoi scegliere di mandarmi a farmi ammazzare quando ti pare ma non il perché, mi pare ovvio!”

“Sai che non è questo il mio punto di vista. Io non vorrei mai – mai – che tu ti mettessi in pericolo.”

“Davvero?! E allora non farmi mai più nemmeno avvicinare a quel coso!”

“La cosa non è così semplice.” – avrebbe voluto fare come lei chiedeva ma sapeva essere impossibile; provò a spiegarsi meglio – “Ci sono di mezzo miliardi di vite, sta diventando una questione mondiale.”

“Questo vuol dire che io sto diventando una questione mondiale, vero?! Alla fine tutti vorranno farmi la pelle perché sono stata costretta a salire su quell’affare!”

Quella giornata stava iniziando a diventare troppo pesante anche per il Presidente Novikov, che tentò di tagliare la discussione: “Sei molto scossa, è normale, ma questo è un discorso che dovremo riprendere più avanti, con più calma.”

“No, qui non si riprende proprio niente!” – alzò la voce, con le gote infuocate – “Io ho iniziato e chiuso con questa storia nel momento in cui ho messo piede su quel robot! Ho fatto la mia parte, ma la cosa non si ripeterà mai più! Io non salirò mai più a bordo di una sWARd Machine!”

“Nataša…” – il padre allungò una mano versò di lei.

“No.” – si tirò indietro lei, neanche si fosse ustionata; gli occhi che iniziavano a gonfiarsi di lacrime – “No.”

Si voltò verso le scale che conducevano al piano di sopra.

“La cena…” – il banale quanto timoroso commento di suo fratello le sfiorò le spalle.

“Non ho fame.”

E sparì nella sua stanza, sbattendo la porta.

 

*   *   *

 

Per tutto il tempo che Nataša rimase chiusa in camera, non aveva fatto altro che starsene sdraiata sul pavimento. I suoi occhi erano sempre rimasti fissi sulle scarpette da danza buttate in un angolo della stanza; quelle punte rinforzate dal gesso e quei nastrini color salmone se ne stavano lì nel buio, fermi e scomposti, come giocattoli abbandonati o ricordi di una vita che le sembrava già lontana anni-luce.

Io volevo solo fare la ballerina. – fu il suo pensiero ricorrente, a ogni battito di ciglia.

Tutto ciò che aveva potuto ascoltare, con l’orecchio premuto contro il parquet, erano stati i radi, neutri, commenti della sua famiglia a qualche noioso programma televisivo. Poi, quando la cena fu presumibilmente terminata e il rumore dei piatti che venivano riposti nella lavastoviglie fu finito, sentì uno scalpiccio risalire le scale e bussarle alla porta.

“Nat, posso?” – era Luka.

“Vattene via!”

I passi si allontanarono.

Poi, dopo un tempo imprecisato di nulla assoluto, giunse una voce, dal piano inferiore.

“Allora…hai proprio deciso?” – sua madre.

“Non c’è altra scelta.” – suo padre.

“Ma lei è solo una ragazza! Non sa niente di tutto questo, non è una militare! Non può accollarsi una responsabilità tanto grande!”

“È l’unica che possa farlo.”

“Ma insomma, Edvard, stai parlando di nostra figlia! Di tua figlia!”

“Non credere che mi faccia piacere, Arina. Ma non è qualcosa che possiamo scegliere noi. In quei Registri che abbiamo rinvenuto c’era scritto anche questo. Io per primo non credevo a una sola parola, ma quel che è successo prova l’impossibile.”

“Oh, andiamo, non dirai sul serio?!” – sentì sua madre scuotere una sedia e poi camminare in nervosamente in cerchio – “Adesso ti metti a credere a queste leggende da folklore ortodosso? Ti conosco troppo bene per crederlo possibile.”

“Sono molto di più. E per certi versi sono anche l’unica speranza a cui aggrapparci. Non avrei mai voluto che andasse così, ma…è ora che Nataša cresca. Quando sarà il momento saprà tutto e allora non potrà fuggire dalle sue responsabilità.”

Nella pausa che seguì sembrò quasi che la donna volesse controbattere ancora, ma suo marito parlò ancora: “Vuoi sapere come stanno le cose? È inutile che ci giriamo intorno: tutte le Nazioni stanno evitando l’ostacolo ma la verità è che presto saremo in guerra. Anzi, già lo siamo. Se combattiamo potremo anche perdere, ma se facciamo finta di niente allora siamo già tutti morti.”

 

Basta così.

A Nataša era stato sufficiente quello scambio di battute per darle il quadro della situazione: aveva già intuito che tra Nazisti, strani robot giganti dai poteri soprannaturali e sogni inquieti la sua vita non prevedeva nessuno sviluppo positivo, nell’immediato. Sperava in cuor suo che esistesse un modo – per quanto sofferto – per far finire tutto questo prima che fosse troppo tardi, ma si sbagliava. Era già tutto un casino. La sua esistenza non sarebbe stata mai più la stessa, ma si sarebbe adombrata di nubi oscure portatrici di sventura, fin quando non sarebbe rimasta totalmente inghiottita da quel vortice di eventi e vi sarebbe annegata. Sarebbe arrivata la Terza Grande Guerra, avrebbe visto le città andare in fiamme, il sangue scorrere a fiumi, il cielo cadere in pezzi e milioni di vite estinguersi come ceri sotto una folata di vento.

Le venne da piangere.

Pianse in silenzio, strozzata, con le mani a tapparsi la bocca per non essere udita e le lacrime che le scorrevano dolorose tra le ciglia sottili. La sua famiglia sarebbe stata costantemente in pericolo, le amicizie più care sarebbero andate distrutte e se ci fosse stato qualche sopravvissuto sarebbe comunque finito per allontanarsi da lei, spaventato dal potere che d’ora in avanti si sarebbe addossata.

Guardò ancora le scarpette da danza. Mai avrebbe pensato che imbracciare un fucile potesse essere più probabile che salire sul palco dell’Opera. Non era giusto che finisse così.

Non è questa la vita che sognavo. – pensò tra un singhiozzo trattenuto e l’altro – Però…ci sono riuscita. Sono salita a bordo di Freya – se è questo il suo nome – e ho combattuto. Ho vinto. Forse…

Un minuscolo barlume di speranza si accese nel buio.

…forse posso ancora riuscirci. Forse posso ancora porre fine a tutto questo. La mia famiglia…i miei amici…non posso perderli. Non voglio.

Strinse forte un pugno.

 

*   *   *

 

“Edvard, ti prego di ripensarci.” – Arina serrava lo schienale della sedia tra le dita, cercando di trattenere la rabbia e la paura che ora la invadevano.

Lui scosse la testa, fissando un punto vuoto sul pavimento: “Se non coinvolgo Nat allora non ci sono altre soluzioni: non appena ci attaccheranno, richiederò l’uso dei Missili Nu-”

“Non ce ne sarà bisogno.” – una voce lo interruppe.

Si voltarono e qualcosa di intangibile li colpì nel profondo del cuore, con un tonfo sordo. La loro unica figlia era sul ciglio della porta. Nei suoi occhi c’erano state di certo molte lacrime, se ne vedevano i segni, e adesso vi leggevano paura, sofferenza, ma anche determinazione.

“Ho capito.” – disse cercando di tenere insieme i pezzi della sua voce rotta – “Farò come vuoi tu, papà.”

“Nat, non devi per forza.” – fremette sua madre, ma venne respinta.

“No.” – disse – “Ormai ho deciso. Domani tornerò a scuola – voglio farlo – e poi verrò ovunque vorrai condurmi. Sono cresciuta.”

Nonostante Edvard Novikov sapesse che quell’ultima parola era stata pronunciata più per rivalsa che per coscienza, non poté fare a meno di approvare la decisione di sua figlia con quanto più il suo amore e il suo ruolo gli permettessero. Avrebbe potuto perderla per sempre, ma se anche fosse successo, il mondo intero ci avrebbe guadagnato una martire, una salvatrice. La guardò un’ultima volta e poi accondiscese:

“Come vuoi tu, Nat.”

 

 

   
 
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