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Autore: _Connie    21/09/2013    3 recensioni
There's a boy who fogs his world and now he's getting lazy
There's no motivation and frustration makes him crazy
He makes a plan to take a stand but always ends up sitting
Someone help him up or he's gonna end up quitting.

«Si sentivano un po’ come del vetro rotto, caduto per terra. Poi, un giorno, Rufy entra nelle loro vite senza preavviso, come un vero e proprio ciclone, e in qualche modo raccoglie da terra quei frammenti, li rimette insieme, li salva dall’oblio in cui erano caduti senza chiedere nulla in cambio. Lui è fatto così.»
[...]In quel momento, Zoro si rese improvvisamente conto di essere appena stato raccolto da terra.
Zoro/Sanji, AU,INCOMPLETA
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Mugiwara, Roronoa Zoro, Sanji, Z | Coppie: Franky/Nico Robin, Rufy/Nami, Sanji/Zoro
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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{ Capitolo 9: The Thin Ice }


Il giorno dopo, quando Rufy e Nami entrarono nel club per prendere alcuni volumi sulla meteorologia, rimasero parecchio sorpresi nel vedere Zoro ronfare sul divano – con tanto di rivolo di saliva che gli usciva dalla bocca e un braccio penzoloni – insieme a Chopper, che invece si era comodamente sistemato sulla sua pancia. Dopo essere riusciti miracolosamente a svegliarlo – aiutati anche da un pugno ben assestato di Nami –, quello si stiracchiò e sbadigliò come se nulla fosse, alzandosi solo dopo essersela presa comoda. Zoro ci mise qualche istante a mettere a fuoco quello che gli stava davanti e si guardò intorno spaesato: perché diavolo si trovava nel club, con tanto di Rufy e Nami che lo osservavano interrogativi? 
La risposta a quella domanda gli arrivò fulminea: era scappato di casa. Ah, già.
…Cazzo.
Zoro deglutì rumorosamente. Come diavolo aveva fatto a dimenticarsene? Tutta colpa del suo cervello che di mattina non voleva proprio saperne di mettersi in moto.
Scosse un po’ la testa, per darsi finalmente una svegliata. Se ne era andato e ormai non poteva più tornare a casa sua: si era finalmente deciso ad avventurarsi sul ghiaccio sottile della vita, senza nessuno su cui fare affidamento. O forse qualcuno c’era. 
Puntò finalmente gli occhi sui suoi due amici che stavano ancora di fronte a lui, in piedi. Infine Nami parlò: «Che ci fai tu qui? Quando sei venuto?»
Nei loro sguardi non c’era né irritazione né altro: vi si leggeva solo una viva e sincera curiosità. Zoro rimase in silenzio ancora per pochi secondi, prima di sospirare pesantemente e iniziare a raccontare cosa gli era successo la sera prima.

Era andato tutto proprio come aveva immaginato.
Quando aveva confessato loro di essere scappato di casa, l’espressione di Rufy si era fatta improvvisamente seria. Zoro non l’aveva mai visto così: era troppo abituato a vederlo nelle vesti del ragazzo casinista e solare con l’eterno sorriso sulle labbra. Ma quando gli aveva chiesto se, per l’appunto, poteva avere il permesso di sistemarsi nel club ancora per qualche giorno – eccolo lì! – il sorriso era ritornato, più caloroso che mai. 
«È ovvio che puoi!» aveva risposto infatti, senza pensarci due volte. «In questo club non esiste un capo o roba del genere: il club appartiene a tutti i suoi membri, quindi puoi rimanerci quanto vuoi!»
Anche Zoro aveva sorriso leggermente, dopo aver sentito quelle parole: come aveva potuto, anche solo per un istante, aver dubitato di Rufy? Era stato davvero un idiota.
Nami, però, gli era sembrata ancora piuttosto preoccupata, nonostante le parole di Rufy l’avessero decisamente tranquillizzata. Gli si era avvicinato un altro po’, si era piegata sulle ginocchia per abbassarsi alla sua stessa altezza – dato che era rimasto seduto sul divano per tutto il tempo – e lo aveva guardato dritto negli occhi. Poi gli aveva poggiato una mano sulla spalla in segno di conforto, sorridendogli dolcemente:  
«Se, per qualsiasi motivo, avrai qualche problema, ricorda che potrai sempre contare su ognuno di noi.»
Zoro era rimasto quasi scioccato. Non avrebbe mai pensato che la perfida ed egoista Nami nascondesse in realtà un lato del genere. In quel momento le era sembrata una specie di sorella maggiore che tenta di confortare il suo fratellino*.
«…Ma, ovviamente, questo ti costerà parecchio.»
Zoro si era portato una mano alla fronte in segno di rassegnazione. Anche se, nonostante avesse fatto di tutto per impedirlo – sul viso le si leggeva chiaramente la sua caratteristica espressione da soldi, soldi, soldi –, si era capito benissimo che lo stava facendo solo per mascherare la sua preoccupazione. ‘È proprio una stupida’, aveva pensato ridacchiando.
«A proposito, Zoro» aveva poi iniziato Rufy, pensieroso. «Ma tu non dovresti essere già al CP9? Sono quasi le undici.»
Oh, merda. Si era completamente dimenticato di andare al lavoro! Con tutto quello che era successo, vedere la brutta faccia di Lucci era stato l’ultimo dei suoi pensieri, tanto che alla fine l’aveva scordato. 
Era scattato subito in piedi, si era preparato il più velocemente possibile – imprecando e maledicendo chiunque gli venisse in mente – ed era corso fuori come un razzo, salutando di sfuggita Rufy e Nami. Non aveva alcuna intenzione di sorbirsi un’altra strigliata.

Col cavolo che non si era sorbito un’altra strigliata.
Nonostante avesse tentato di entrare nel locale dal retro per passare inosservato, Lucci era riuscito lo stesso a scoprirlo – e Zoro sospettava a causa di una soffiata di quel pettegolo patentato di Fukuro. Questa volta le parole Kaku non erano bastate a calmarlo, così Lucci per punizione l’aveva costretto a lavorare in cucina con Blueno come lavapiatti. 
Zoro odiava fare il lavapiatti per Blueno. Nonostante l’aspetto imponente e minaccioso – accentuato anche da quella sua bizzarra capigliatura a forma di corna, che gli dava l’aspetto di un vero e proprio toro –, che dava l’impressione di trovarsi di fronte a un cuoco di una bettola da quattro soldi, Blueno prendeva sul serio il proprio lavoro. Per questo motivo teneva in modo particolare all’igiene e controllava costantemente chiunque avesse la sfiga di dover fare il lavapiatti nella sua cucina, incazzandosi per ogni minima macchiolina lasciata per sbaglio su un piatto. Aveva sentito dire che una volta aveva addirittura rotto un braccio al malcapitato di turno che, a detta di Blueno, «puliva i bicchieri una vera schifezza».
Comunque sia, ormai ci era dentro fino al collo, quindi tanto valeva cercare di non farlo alterare – anche perché, in caso contrario, Lucci l’avrebbe licenziato in tronco – e di mettersi al lavoro. Indossò il grembiule, si rimboccò le maniche e iniziò a pulire il primo boccale di birra, iniziando già ad irritarsi sentendo gli occhi del cuoco costantemente su di sé.

Si erano fatte ormai quasi le quattro di pomeriggio – e il locale stava finalmente iniziando a sfollarsi – quando dalla porta della cucina fece capolino Kaku.
«Ehi, Zoro» lo chiamò. «Vieni un attimo con me sul retro.»
Zoro rimase piuttosto sorpreso, dato che Kaku non lo interrompeva praticamente mai mentre lavorava, conscio del fatto che Lucci l’avrebbe poi ripreso, quindi si tolse velocemente il grembiule e lo seguì, ricevendo un’occhiataccia da Blueno. Un paio di metri prima di arrivare alla porta che dava sul retro, però, Kaku si fermò bruscamente, afferrando l’altro per un braccio. Lo guardò dritto negli occhi, e Zoro poté giurare di non averlo mai visto così serio come in quel momento. Poi Kaku sospirò profondamente. «Lì fuori c’è tua madre.»
Zoro sentì come se fosse improvvisamente comparsa una crepa sul ghiaccio sottile sul quale si trovava. Si era appena lasciato tutto alle spalle, ed ecco che i suoi problemi tornavano da lui, quasi gli si fossero artigliati addosso e non volessero lasciarlo andare per nessuna ragione.
Kaku doveva aver capito in che situazione si trovava l’altro, perché si affrettò subito ad aggiungere – dopo aver sospirato di nuovo: «Senti, Zoro: lo so che certe volte la vita può sembrare così opprimente da spingerti a cercare cambiarla, lasciandoti tutto alle spalle. In fondo l’ho fatto anch’io, decidendo di trasferirmi in questa città e di aprire questo pub insieme a Lucci.» Ci fu un attimo di pausa nel quale Kaku lasciò finalmente andare il braccio di Zoro, andando a poggiare entrambe le mani sulle sue spalle e fissandolo intensamente negli occhi. «Però, ti prego, non fare la mia stessa cazzata: non rompere per sempre i legami con tua madre. Non dico che non devi cercare di inseguire i tuoi sogni rimanendo in questo buco di città; questo mai. Ma, almeno, non lasciarla in questo modo. Ti prego.»
Zoro rimase parecchio scosso. Non aveva mai sentito Kaku fare discorsi del genere così seriamente. La persona che lui conosceva era spensierata – anche se comunque responsabile – e non era raro vederla col sorriso sulle labbra: in quel momento, invece, nei suoi occhi poteva leggere la determinazione e la malinconia di chi vuole a tutti i costi persuadere un amico a non fare i suoi stessi errori. Era proprio come si diceva in giro: in fatto di maturità, Kaku dimostrava molti più anni di quelli che realmente aveva.
Kaku si rilassò tutt’ad un tratto e gli diede una pacca amichevole sulla spalla. «Mi raccomando, eh?» gli disse sorridendo.
Anche Zoro sghignazzò. Eccolo, era tornato il Kaku di sempre.
Poi quest’ultimo si allontanò senza aggiungere altro, lasciandolo solo.

Zoro stava fissando la maniglia della porta da almeno un paio di minuti buoni. Non sapeva ancora bene cosa fare. Cosa gli voleva dire sua madre? Lo voleva di nuovo trascinare a casa? Aveva per caso bisogno per l’ennesima volta di qualcuno su cui fare affidamento, dato che da sola non era in grado di fare nulla?
E se era questo che voleva, valeva davvero la pena uscire lì fuori e starla a sentire?
Zoro inspirò profondamente. Rimase per un po’ immobile, svuotando la mente da ogni pensiero. Era inutile continuare ad arrovellarsi il cervello: l’unico modo per dar fine ai suoi dubbi era quello di uscire lì fuori e affrontare sua madre, qualsiasi cosa avesse fatto o detto. Afferrò la maniglia, la girò e tirò a sé la porta.

Zoro si ritrovò in mezzo a due alti palazzi di mattoni, in uno strettissimo vicoletto sporco con qualche busta dell’immondizia aperta dai cani randagi qua e là. Sembrava proprio uscito fuori da uno di quei film d’azione americani.
Iniziò a cercarla con lo sguardo, ma non dovette guardarsi troppo intorno per trovarla. Eccola lì: sua madre si trovava poco davanti a lui, più piccola e fragile di quanto ricordava. Aveva gli occhi scavati dalle occhiaie, come se quella notte non fosse riuscita in nessun modo a chiudere occhio, e il suo aspetto nel complesso era molto trascurato. Lo stava guardando con occhi tristi e rassegnati, ma a Zoro sembrò, per un solo istante, di scorgere in essi anche una sorta di forte determinazione.
Passò probabilmente un minuto o poco più nel quale nessuno dei due aprì bocca, mentre continuavano a fissarsi a vicenda. Infine Zoro, iniziando a irritarsi a causa di tutto quel silenzio e quel tempo perso – Kaku non sarebbe riuscito a coprirlo in eterno –, iniziò a parlare, sbuffando e incrociando le braccia al petto: «Allora? Perché diavolo sei venuta qui? Sto lavorando.» La guardò dritto in faccia. Non aveva la minima intenzione di tornare indietro: oramai se n’era andato via di casa perché stanco della sua vecchia vita, quindi nulla lo avrebbe persuaso a ritornarci.
Sua madre rimase ancora per qualche secondo in silenzio, titubante. Era visibilmente a disagio: aveva lo sguardo fisso per terra, si stava mordendo il labbro inferiore già a un po’ e non la smetteva di girarsi e rigirarsi una ciocca di capelli con la mano destra. Era sempre stato un suo tic: ogni volta che era nervosa, afferrava una ciocca di capelli e se la torturava anche per ore.
«Senti, Zoro…» cominciò, continuando a puntare il proprio sguardo ovunque tranne che sul figlio. Passò ancora qualche secondo, ma alla fine si decise a guardarlo. Sospirò. «Zoro, lo so che non sono esattamente la madre migliore del mondo. Mi rendo perfettamente conto del fatto di essere un vero disastro di donna.» I suoi occhi si stavano decisamente facendo lucidi, ma trattenne le lacrime. Zoro iniziò a sentire un peso posarsi sul suo stomaco: cazzo, non riusciva proprio a sopportare la vista di sua madre in quelle condizioni. Ma non poteva permettersi di arrendersi proprio ora, non dopo aver ottenuto la sua libertà.
Di nuovo silenzio. «…Sai, ho lasciato Andrés» disse, continuando a rigirarsi la ciocca di capelli tra le mani. «Lo so che questo non ti farà cambiare idea e che non torneresti per nulla al mondo a vivere con me, ma non sono venuta qui per questo. Te l’ho voluto dire perché sei mio figlio e ho pensato che, in quanto tale, avrei dovuto avvisarti. Tutto qui.» 
Zoro rimase spiazzato. Davvero sua madre non aveva intenzione di riportarlo indietro? Aveva sul serio deciso di soffrire in silenzio per lasciargli finalmente condurre liberamente la sua vita?
Lei gli si avvicinò con passo lento e, una volta di fronte a lui, Zoro notò con stupore che sul suo viso non c’era né tristezza, né timore, né altro: solo un’immensa forza di volontà e determinazione. Quello era un lato della sua personalità che Zoro aveva quasi dimenticato: lo aveva infatti mostrato solo una volta, quando suo padre se ne era andato e lei era stata costretta a portare tutto sulle proprie spalle.
«Anch’io voglio cambiare vita» asserì lei. «Non ho più intenzione di aggrapparmi agli altri per non affrontare le mie debolezze, questo è poco ma sicuro. Cercherò di diventare più indipendente, così non dovrai più preoccuparti di me.» Poi iniziò a ridacchiare, ma si sentiva che la sua era una risata forzata. «Non ti sembra ironico che negli ultimi anni sia stato tu a occuparti di me? E dire che dovrebbe essere il contrario!»
Per tutta la durata di quel discorso, Zoro era rimasto immobile, in silenzio, e non aveva fatto altro che guardarla impassibile. Ma anche se esternamente non era visibile, nel suo animo era in corso una lotta tra varie emozioni contrastanti: da una parte c’era la sua testardaggine, che continuava a ripetergli di lasciarla perdere e di continuare per la sua strada, fregandosene della donna che in quel momento gli si trovava di fronte; dall’altra, invece, c’era una piccola vocina che continuava a sussurrargli che quel che stava facendo era sbagliato. Abbandonarla in quel modo avrebbe solo arrecato dolore a sua madre – e anche a lui. Era per caso la sua coscienza?
Alla fine, però, quello scontro ebbe un solo vincitore: il suo orgoglio.
«Sto lavorando, non vedi? Fa’ presto, non ho tempo da perdere qui con te.»
Zoro pensava davvero quello che aveva appena detto: non poteva perdere altro tempo, altrimenti Lucci l’avrebbe definitivamente spellato vivo. Però, nonostante continuasse a guardarla con uno sguardo duro misto ad indifferenza, non voleva cacciarla sul serio. Non prima di aver sentito tutto quello che aveva da dire, almeno.
 «Capisco» sospirò l’altra, iniziando stranamente a ridacchiare di gusto. «Sempre serio e responsabile come al solito, eh? Decisamente non hai preso da me.» Lo guardò dritto negli occhi e, lasciando Zoro di sasso, gli regalò uno dei suoi più dolci sorrisi. «Voglio solo che tu viva felicemente la tua vita, e se questo significa che devi andartene di casa, beh… allora fai pure. Non ti fermerò.» Si alzò sulle punte dei piedi e gli scoccò un bacio sulla guancia, prima di voltarsi e allontanarsi.
Mentre la vedeva camminare e sparire dietro l’angolo, Zoro sapeva che in realtà quelle poche parole le erano costate uno sforzo sovraumano. Non poteva credere che, per la sua felicità, sua madre fosse stata in grado di rinunciare completamente alla propria. In quel momento si rese conto di essere una vera testa di cazzo.
Iniziò a correre come un forsennato e, una volta girato l’angolo, la vide a pochi metri davanti a lui. «Oi!» la chiamò, facendola girare. Zoro notò che aveva gli occhi lucidi. 
Si fermò proprio di fronte a lei e, mentre lei lo guardava confusa, le disse, con un po’ di fiatone: «Quando sarò diventato il miglior spadaccino del mondo e verrò a trovarti, ricorda di farmi trovare nel frigorifero almeno un paio di bottiglie di sake, capito?»
Sua madre non ce la fece più. Scoppiò in lacrime e gli si buttò al collo, abbracciandolo. 


*In questa fic, ovviamente, Nami è più grande di Zoro.

[Angolo dell’autrice]
Ahw, Zoro e Kaku insieme sono troppo belli.♥ Li ho sempre visti piuttosto in sintonia – se tralasciamo il minuscolo particolare che in realtà sono nemici. XD 
Per chi non lo sapesse dato che su YT non si trova manco a pagarla oro, The Thin Ice è una canzone dei Pink Floyd in cui Waters, per l’appunto, paragona la vita a del ghiaccio sottile su cui le persone pattinano e che, quindi, si può facilmente rompere, facendole cadere sott’acqua (mi vengono i brividi ogni dannatissima volta che la ascolto, davvero). 
In ogni caso, più che sulla prima parte del capitolo, in queste note vorrei soffermarmi sulla seconda parte, quella dell’incontro tra Zoro e sua madre.
All’inizio, quando scrivevo i primi capitoli della fic, avevo pensato di non farli più incontrare e di far rimanere Zoro arrabbiato con sua madre; dopo, però, mi sono resa conto che, in questo caso, sarebbe dovuto rimanere arrabbiato a vita, e poi sarebbe stato inverosimile se sua madre non avesse cercato di rivederlo, no? In fondo una mamma è pur sempre una mamma, e farebbe di tutto per il proprio figlio. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che ho cercato di evidenziare. 
Questo capitolo mi ha dato parecchie grane – è difficile pensare cosa farebbe Zoro con una madre del genere – e spero vivamente (come sempre XD) di non essere andata OOC.
Alla prossima, dunque, e spero che il capitolo vi sia piaciuto! ^^ 

  
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