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Autore: Alyss Liebert    29/09/2013    5 recensioni
Un bambino allegro, pieno di sogni e speranze è stato vittima delle discriminazioni contro la sua gente. Riconosceva di essere diverso dagli altri, voleva esplorare il mondo che lo circondava per imparare a rispettare le persone ed essere accettato.
Il suo clan venne sterminato pochi anni dopo per avidità e disprezzo. Ricordava i corpi senza vita dei suoi familiari, bruciati ed ammassati a terra come degli appestati, e i loro visi senza bulbi oculari...
"Quegli occhi scarlatti valgono una fortuna".
"Appartenevano ai figli del diavolo!".
Giurò vendetta a costo della vita, diventando un Blacklist Hunter per recuperare gli occhi dei suoi compagni e dare la caccia alla Brigata.
Il Kuruta si era incatenato nella parte più squallida della società, dove gli omicidi erano all'ordine del giorno e dove i frustrati diventavano peccatori.
Stavolta i problemi sorgeranno nella Mafia. In questa guerra Kurapika si renderà conto delle sue scelte sbagliate, dell'odio che lo ha accecato, di essere diventato un criminale.
Si risveglierà la sua parte malvagia e svanirà il suo buon senso. Non potrà contare sull'aiuto dei suoi amici e capirà di aver gettato la sua anima e giovinezza in un baratro dove non sarebbe più arrivata la salvezza.
Genere: Azione, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kurapika, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Spoiler!, Tematiche delicate
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Attenzione: il testo scritto utilizzando il colore blu indica un flashback, il quale ha come punto di riferimento una × per indicare il suo inizio e la sua fine.





 
Cognome e nome: Minami Shijo
Età: 31 anni
Gruppo sanguigno: AB+
Altezza: 1.83 cm
Peso: 73 kg
Segno zodiacale: Capricorno
Compleanno: 28 Dicembre
Tipo di Nen: Specializzazione
Capacità: Assorbimento temporaneo degli Hatsu
Abilità preferita: Toki no Kensa (controllo del tempo)



 
 
L’udienza
Capitolo 5: “Associazione NSSK x Inganni x Tradimenti”.
 
 
 
 
Leorio stava camminando rapidamente sotto la pioggia.
Gli sembrava parecchio difficile orientarsi in quella città; si era ritrovato insolitamente a dare uno sguardo ai segnali stradali e alle vie.
Sapeva dove abitava il Kuruta. Il problema era che un impermeabile ed un ombrello non bastavano per ripararlo dalla fitta pioggia.
 
Non c’era anima viva sul marciapiede.
Si sentiva l’unico idiota che aveva tentato di fare un’azione così azzardata.
“Maledizione, devo muovermi”, rifletté senza smettere di essere teso.
Sarebbe stato più conveniente provare a telefonarlo il giorno dopo, ma la sua indole impaziente aveva premuto ancora una volta sui suoi sentimenti.
 
 
All’improvviso sentì il rumore di alcuni passi. Delle persone erano in procinto di avvicinarsi a lui e, a giudicare dalla frenesia con la quale stavano calpestando le pozzanghere, erano di fretta.
Si mise istintivamente vicino al muro per lasciarli passare.
 
Ciò che vide lo spiazzò.
Dal buio spuntarono i visi di Light e Basho. I due non si accorsero neanche della sua presenza; lo superarono e continuarono a correre.
 
«Ma che cavolo…?», si domandò sbalordito.  
Non erano a casa.
Avevano delle espressioni terrorizzate; pareva essere successo un fatto molto grave.
 
Fece appena in tempo a tornare dov’era che venne urtato violentemente dal corpo di un’altra persona.
Riuscì a mantenere l’equilibrio, ma il suo ombrello finì a terra, impregnandosi in seguito di acqua piovana.
 
Stava per sbraitare con la sua solita arroganza quando vide Kurapika di fronte a lui.
Il biondo era completamente fradicio; i suoi capelli erano talmente bagnati da aderire perfettamente al pallido viso.
Il suo sguardo emanava un misto fra rabbia e stupore. Stava tremando; aveva un paio di ferite ed un livido sul labbro inferiore.
 
«Kurapika…», emise scioccato ed allarmato.
«Spostati», fu la sua secca risposta.
Scansò Leorio, lo sorpassò e svanì di nuovo in quella cupa oscurità.
 
Il più grande era rimasto esterrefatto; non riusciva nemmeno a muoversi e a porsi delle domande.
 
«Leorio…», lo chiamò una voce femminile.
Si voltò di scatto e vide Senritsu.
«Non seguirci», concluse prima di avanzare.
 
Cominciò a comprendere il motivo dell’assenza del suo migliore amico.
Stava accadendo qualcosa di tremendo.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
Nessuno ebbe il coraggio di dire una parola.
Rimasero immobili; ciò che era attorno a loro li atterrì.
La porta della loro villa era stata scassinata, tutti gli oggetti preziosi eburnei e d’argento erano stati rubati; i mobili, i tavoli, le poltrone… erano rovesciati a terra.
I vetri delle finestre frantumati, la cassaforte aperta, i muri imbrattati di inchiostro e vernice…
Il piano inferiore della casa era stato completamente saccheggiato.
 
No… Era impossibile.
Stavano solamente vivendo un dannatissimo incubo.
 
Senritsu non poté più sopportare quell’orrore; gli occhi le si riempirono di lacrime e ruppe in un disperato pianto.
Basho l’abbracciò. Lui stesso stentava a capire la situazione.
I nemici non puntavano a loro, ma alle ricchezze; era una cosa inusuale. Se fossero stati dei veri ladri, non si sarebbero curati della presenza dei proprietari.
Sapevano l’identità e la posizione di ognuno, altrimenti come avrebbero potuto organizzare tutto alla perfezione?
Si sentivano spiati… anche in quel momento.
 
Kurapika non stava manifestando nessun’emozione in particolare; non aveva la forza di farlo.
Aveva gli occhi puntati verso il pavimento dove erano sparsi incautamente cocci di vasi e le gambe di qualche sedia.
Per un attimo le sue iridi si tinsero di scarlatto; doveva cercare di tenere a freno la sua immensa furia.
 
Osservò ad un tratto uno specchio con sdegno: avevano lasciato un messaggio utilizzando un rossetto che apparteneva probabilmente a Neon.
Mosse la sua bocca soltanto per leggerlo.
«Se non vi arrenderete, la prossima volta toccherà ad uno di voi».
 
Quel silenzio funereo venne interrotto da un urlo di Light, il quale prese miserabilmente a calci una cornice che aveva trovato su uno scalino.
 
Tutti furono assoggettati da un senso di sfiducia.
Una delle più prestigiose famiglie mafiose era diventata un insieme di disgraziati che ormai avevano perso anche la dignità.
 
 
 
 
*****
  
 
 
 
«L’avete visto tutti?», domandò un euforico Nakamura.
«Sì. Che peccato: hanno scoperto il trucco…», commentò Rokuro.
«Stai tranquillo. È bastato questo».
«Mi spieghi prima di tutto come funziona il tuo potere?», lo interrogò Takahiro.
Dopo una breve pausa di silenzio passata a scrutarsi, Rokuro si decise a raccontare.
«Io sono un hunter della Materializzazione. La mia specialità è concretizzare delle creature che possono sembrare vive e reali, ma in realtà sono frutto di una potente illusione attuata grazie agli specchi. Se l’avversario non si dovesse accorgere dell’artefice di questi inganni, rimarrebbe per sempre intrappolato. Si può essere soddisfatti così, giusto?».
L’interlocutore lo stava seguendo con una certa ammirazione.
«Quanta concentrazione usi per evocare gli specchi?».
«Poca. Ormai sono abituato, dato che ci sono voluti due anni di allenamento», rispose con sorprendente indifferenza, «Adopero principalmente l’En per estendere il mio campo illusorio, poi entra in scena il Ryu insieme allo Sho per bilanciare la forza delle creature con quella degli specchi che li evocano».
«Adesso è tutto chiaro?», chiese Nakamura spazientito.
«… Sì».
 
Non sapeva se provare considerazione per l’operato dell’uomo o una grande gelosia.
Purtroppo lui non era un hunter. Non era qualcuno.
Questo fatto gli provocò un enorme fastidio.
 
«Riprendiamo il discorso», annunciò il boss, «Rokuro, cos’hai visto durante i combattimenti?».
«Su Light, la ragazza e il tipo muscoloso non ho niente da dire. Si sono difesi bene».
«A me interessa Kurapika!», specificò.
«Prima devo informarvi su un’altra cosa… Non sono io che decido il tipo di illusione», rivelò.
«E chi le controlla?», sbottò Takahiro stupefatto.
«Parte tutto da una condizione: non sarò io a determinare cosa far apparire, ma lascerò che le paure più grandi dei nemici vengano a galla».
«Quindi… vuol dire che tutti temono di affrontare delle persone più forti di loro?».
«Tranne Kurapika…», s’intromise Nakamura, «È successo qualcosa di diverso durante la sua illusione».
«Con chi stava parlando?», domandò Takahiro.
«Non te lo so dire», rispose Rokuro, «Quando l’avversario sta avendo una cosiddetta illusione psicologica, mi risulta impossibile vedere l’oggetto della sua inquietudine. Però posso benissimo ascoltare la sua voce».
«Allora?».
«Ho cercato di segnarmi quello che ha detto», confessò afferrando un taccuino, «Ha urlato: “Ho seppellito le tue sudice membra a York Shin”».
«Sapevo che Light si fosse trasferito da lì… ma non ero a conoscenza del fatto che il biondino avesse commesso un omicidio!», affermò il boss ghignando, «Niente male…».
«Poi ha tentato di giustificarsi per una cosa che non ho ben assimilato. Urlava ed era disperato».
«Non ha proprio nominato nessuno?».
L’interessato chiuse gli occhi nel tentativo di rammentare. Non era facile ordinare tutti quegli avvenimenti.
 
All’improvviso spalancò gli occhi e tornò ad osservare i due.
«Sì… C’è una persona…».
«Chi è?».
«Mi pare che si chiami… Kuroro».
 
Il rombo di un tuono squarciò il cielo appena pronunciò il suo nome; il pavimento tremò come se ci fosse una scossa di terremoto.
 
Non osarono parlare: quell’avvenimento scosse parecchio i loro animi.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
«NEON… NEON!».
Light e gli altri si stavano velocemente dirigendo al piano superiore.
Quando vi giunsero, videro che era immacolato; nessun oggetto era stato rubato o distrutto.
Si precipitarono verso la camera della ragazza. Fu in quel momento che una guardia del corpo piombò di fronte a loro, facendo cenno di parlare a bassa voce.
«Daiki…», sussurrò il capo.
«Stia calmo. I ladri non sono saliti; hanno esplorato solo la sala».
«E Neon? Come sta?».
«Benissimo. È assopita da un sacco di tempo».
«Cosa?!», sbottò.
«È la verità», insistette mostrando la giovane mentre stava dormendo sul suo letto.
«Ci siamo radunati in camera sua per proteggerla nel caso dovessero attaccare di nuovo», aggiunse.
 
Light stava cogliendo poco la circostanza.
«E voi?», chiese tremando con gli occhi puntati verso di lui, «Non avete tentato di far fronte al pericolo? Non avete visto in faccia il colpevole? PERCHÉ DIAMINE VI HO DATO QUESTO INCARICO, ALLORA?».
 
Aveva una collera incommensurabile. Era talmente rosso in viso che pareva dovesse scoppiare.
Daiki fu costretto a chiudere la porta per evitare di disturbare Neon, poi riprese.
«Capo… la verità è che… ci siamo addormentati anche noi».
 
Tutti rimasero sbigottiti.
«… Prego?».
«Non sto mentendo!», esclamò mentre i suoi occhi si inumidivano, «Non sappiamo come sia potuto accadere… ma, quando ci siamo svegliati, abbiamo visto questo disastro».
Appena finì il discorso, due mani circondarono brutalmente il suo collo.
«Dammi una buona ragione… per cui io non vi debba licenziare!».
«Capo», lo chiamò Kurapika, «Non si arrabbi. Potrebbero essere stati colpiti da qualche potere Nen. Che senso avrebbe perdere apposta il lavoro?».
Dopo aver lanciato un’occhiata velenosa all’uomo, lasciò la presa su quest’ultimo.
«Sono degli hunter?», chiese poi.
«Non lo so. Penso che abbiano soprattutto voluto spaventarci», congetturò il Kuruta.
«Ha ragione! Noi non c’entriamo niente!», tentò ancora di discolparsi Daiki.
«STAI ZITTO!», ordinò Light, «Come fai a non ricordarti quello che è successo?!».
«Tenga presente che anche Neon non si è accorta di quelle persone… e sta dormendo», sottolineò Kurapika.
«È impossibile ed inspiegabile! Io… non posso crederci», concluse mettendosi disperatamente le mani fra i capelli.
 
Senritsu era rimasta turbata.
Non poteva fare a meno di badare al sonno improvviso che l’aveva colta quella mattina.
Ripensò al discorso di Basho: le aveva parlato di un misterioso signore anziano che aveva avuto un malore di fronte alla villa.
Strano, molto strano…
La parola “coincidenza” stonava nella sua mente. Non voleva essere pessimista, ma probabilmente la famiglia era già entrata in contatto con quegli individui.
Doveva riferirlo al capo senza nascondere nulla.
 
«È terribile!», urlò ad un tratto un’altra guardia del corpo uscita dalla camera.
«Cosa c’è?», domandò atterrito Light.
«Hanno rubato alcune predizioni di sua figlia…».
«Merda!».
«E anche degli oggetti a lei molto cari. Credo che siano un paio di occhi scarlatti».
 
Kurapika si irrigidì; quell’affermazione l’aveva spiazzato.
Non erano più nelle sue mani.
Avevano osato toccare ciò che gli apparteneva. Perché?
 
Strinse così tanto i pugni che le nocche gli diventarono bianche.
Non era facile mantenere la calma, ma in quell’attimo non poteva fare altro.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
«Chi sarebbe questo Kuroro?», continuava a postulare Nakamura.
«Non ne ho idea», rispose Rokuro.
«Scommetto che è un nemico del biondino. Avete visto quant’era adirato?», ritenne Takahiro.
«Oppure è un parente con cui ha avuto divergenze di opinioni», addizionò il boss.
«La cosa più importante da sapere è che presumibilmente ha avuto un passato da assassino», ricordò l’altro.
«Forse è stato costretto ad uccidere qualcuno», accluse l’hacker.
«Almeno sappiamo un suo segreto! Chissà se il suo capo ne è a conoscenza…».
«Penso proprio di no», rispose l’uomo, «Ma chiariremo le idee molto presto».
 
«Che conversazione interessante!», esclamò una persona.
Dietro di loro si trovavano Shijo, Satoshi e Kagamine.
«Colleghi!», li accolse Nakamura.
«Avete scoperto tante cose, ma anche noi abbiamo fatto il nostro lavoro!», disse Satoshi con orgoglio.
«Non lo metto in dubbio. Dove sono le vostre guardie?».
«Al piano inferiore: non vogliamo che ci sentano», spiegò Kagamine.
«Concordo. Sono in debito con te per ciò che hai fatto a Kurapika», continuò il capo Mafia.
«Natsume è unico».
«Alla fine anche quella era un’illusione!», fece notare Takahiro.
«Sì, ma è diversa da quella di Rokuro», ribatté l’altro, «Natsume è dell’Emissione. Ogni corpo che tocca viene infettato da un germe particolare di Nen che si insinua nella sua pelle e nel suo cervello. Il punto è che non può creare dei mostri apparentemente tangibili; non rientra nel suo potere».
Lui annuì. Tutti quei preliminari erano serviti solo per sconvolgere il biondo.
 
«Guarda cosa ti abbiamo portato!», interruppe il discorso Shijo.
«Fai vedere», si incuriosì Nakamura.
Fra gli oggetti sequestrati tirò fuori dei fogli di carta sbiaditi; avevano assunto un particolare color marrone fulvo.
Il boss lesse qualche riga di essi.
«Sono poesie?», chiese alla fine.
«Forse, ma accennano sempre ad avvenimenti futuri», replicò il collega.
«Nel retro di ogni foglio c’è scritto un nome diverso», notò.
«Sì, è la cosa che ci ha sorpresi di più».
«Dove li avete trovati?».
«Nella camera della figlia di Light. È davvero bella!», commentò Satoshi.
«Non fare l’imbecille…», lo rimproverò Kagamine.
«Davvero notevole!», proruppe Nakamura con sguardo vispo, «Il motivo per cui Light non vuole perderla è sicuramente fra le mie mani. Magari la ragazza fa un lavoro particolare».
«E se fosse un’utilizzatrice di Nen? Può darsi che siano alcuni incantesimi», suppose Shijo.
«Intendi dire che è una maga?».
«… Qualcosa del genere».
«Ci rifletterò dopo. Altri oggetti?».
«Oh, sì».
 
Estrasse un contenitore con due bulbi oculari aventi le iridi scarlatte.
«Sono questi, vero?», domandò.
«Gli occhi dei Kuruta…», mormorò incantato il capo.
La brillantezza che emanava quel colore era indescrivibile.
Sembrava che quelle pupille lo stessero scrutando. L’uomo era rimasto completamente rapito dalla loro bellezza.
«Meravigliosi…», emise.
«Perché ci hai ordinato di prenderli?».
«È semplice: sono certo che quella famiglia centri con la questione del massacro», ribadì, «Oppure c’è qualche superstite là dentro e nessuno se n’è accorto».
«Ti riferisci a Kurapika?».
«Già. Ora che sono venuto a conoscenza di una parte del suo passato, i miei sospetti si sono ingigantiti».
«Fammi capire… I suoi occhi sono diventati scarlatti?».
«Non lo so. Quando era in procinto di impazzire, qualche suo amico deve aver rotto gli specchi e non ho più potuto vedere niente», narrò.
«E adesso cosa pensi di fare?», si interpose Takahiro.
Il boss gli rivolse un sorriso beffardo.
«Potrei chiederti la stessa cosa. Domani dovrai svolgere un lavoretto per me».
«Di che si tratta?».
«Il collega di Light potrebbe farsi sentire; me l’hai detto anche tu, no?».
«Dovrei ammazzarlo?».
«Mi sembra la cosa migliore. In futuro può diventare pericoloso e Light lo chiamerà di sicuro».
«… Agli ordini!», esultò entusiasta.
Per la prima volta gli aveva concesso di impugnare delle armi: non stava più nella pelle.
 
Il signore si riferì agli altri.
«Voi dovrete cominciare a divulgare la mia innocenza. Presto a Light potrebbe venire qualche sospetto».
«Sarà fatto», rispose Shijo.
«Il problema è: dove conserviamo gli oggetti rubati?».
«Non c’è da preoccuparsi», irruppe Kagamine, «Ho una guardia che sa usare dei trucchi».
«Cioè?».
«Lo vedrai. Gli serviranno solo… delle superfici molto ampie; possono essere delle pareti o anche un tavolo», anticipò.
«Mi fido di te», terminò Nakamura, «Caro Light… ci vediamo domani».
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
Erano le sei del mattino seguente.
Il chiarore dell’alba tardava a presentarsi. Continuava insistentemente a circolare una leggera brezza.
I telegiornali non facevano altro che annunciare notizie su allagamenti, persone rimaste coinvolte e rapine.
Sentire queste cose provocava un senso profondo di nausea.
 
Dalle due di notte tutte le guardie del corpo erano state impegnate a rimettere in ordine il piano inferiore della villa.
La porta d’ingresso e le finestre erano tornate come prima grazie al Nen.
Le cameriere e i servitori avevano pensato alla pulizia di ogni angolo e, quando tutto fu pronto, sembrava che la famiglia si fosse appena trasferita.
Tutti gli oggetti di valore e gli ornamenti non erano più presenti.
 
Chiamare la polizia era una sciocchezza: avrebbe svolto delle indagini, ma nel frattempo loro sarebbero stati arrestati.
Nessuno poteva sottrarsi alle rigide regole della Mafia.
 
 
«È da ieri sera che, quando chiamo Sato, mi risponde la segreteria telefonica. Ma cosa diavolo sta combinando?», protestò Light.
«Capo, è possibile che anche lui sia stato implicato nella questione!», gli ricordò Senritsu mentre stava svolgendo delle analisi al computer.
«Non lo saprò mai se continuerà ad evitare di rispondermi. Tu pensa a lavorare!».
 
 
Intanto al piano superiore Kurapika era disteso sul suo letto.
Si sentiva male. Dopo essersi fatto una doccia rinfrescante, si era reso conto di avere la febbre.
Era inevitabile: un’intera nottata trascorsa sotto la pioggia e il vento avrebbe sicuramente portato a questa sventura.
La temperatura non era molto alta, ma gli rodeva il fatto che Senritsu fosse rimasta illesa e che Basho avesse solo un semplice mal di gola.
 
Perché era così debole? Non riusciva proprio a sopportarlo.
Schifava letteralmente come si era ridotto.
 
Immerse debolmente la garza nell’acqua fredda e se la mise sulla fronte; un immediato senso di sollievo lo invase, poiché sentiva il sudore appiccicare i vestiti contro la sua pelle.
 
Chiuse gli occhi e ripensò all’illusione da cui era stato soggiogato.
Kuroro non aveva il diritto di giudicarlo come la causa di tutto, neanche se fosse il falso nemico della sua amata tribù.
Eppure… conosceva i suoi timori alla perfezione. Non aveva ordinato alla sua coscienza di pensare; era tutta opera di quello sconosciuto maestro di Nen che pareva essere parecchio potente.
In pochi minuti gli aveva fatto tornare tutto il risentimento nei confronti dei suoi parenti che lui aveva tentato di ripudiare, lasciando un vuoto nelle sue passioni.
 
Non si era pentito…
Era sempre stato nella ragione; a causa loro si trovava nella squallida società.
Non aveva abbandonato i suoi cari.
Voleva cercare un dottore per Pairo, scoprire i luoghi che circondavano la sua foresta, conoscere delle nuove persone…
 
Già… ma perché?
 
Tutto era cominciato da un semplice capriccio. E allora? Ogni bambino a quell’età dovrebbe avere un sogno nel cassetto.
 
Il mondo esterno: un luogo che il Kuruta avrebbe incessantemente odiato.
Era forse sbagliato avere il colore degli occhi diverso? Che diritto avevano di perseguitarli e trucidarli?
Lui era sopravvissuto per questo: vendicare e non perdonare.
 
Un altro pensiero apparve nella sua mente.
Se avesse dedicato la sua vita a rimuginare sul passato, non sarebbe mai stato visto bene dalla gente.
 
Cosa importava? Era molto meglio spedire all’inferno i criminali, piuttosto che lasciarli a piede libero.
 
 
Aprì gli occhi all’improvviso.
Anche lui era un criminale…
 
“Maledizione”, pensò. Finiva per contraddirsi tutte le volte.
 
Mostro.
Di nuovo quella parola, di nuovo quell’immagine.
Non voleva diventare così, ma era ineluttabile.
 
Basta. Doveva distrarsi; la testa gli stava esplodendo.
Si alzò faticosamente dal letto e si diresse verso la cucina.
Il capo aveva momentaneamente proibito a chiunque di uscire, quindi doveva arrangiarsi.
 
Qualcosa di forte da bere; lo desiderava ardentemente.
Non gli bastava la febbre. Per scacciare quelle paure era necessario ubriacarsi… ubriacarsi come mai aveva fatto, sperando di non ritornare cosciente.
 
 
 
 
Birra. Trovò solo dieci lattine di essa.
Meglio di niente…
 
Non fece nemmeno in tempo ad afferrarne una che qualcuno gli chiuse immediatamente in faccia lo sportello del frigorifero.
«Cos’hai intenzione di fare?», chiese quell’individuo.
Kurapika si degnò di seguire con lo sguardo la direzione della voce fino a puntare gli occhi su quelli di Basho.
«Che vuoi?».
«Ti ho fatto una domanda», ribadì il bruno.
«C’è bisogno che ti illumini io?».
«Kurapika, sto parlando seriamente! Hai la febbre e vuoi anche bere? Complimenti, stai distruggendo il tuo corpo! La dipendenza è una brutta bestia…», lo rimproverò.
«Hai finito?», domandò distaccatamente il Kuruta.
«… Tu sei matto! Potresti ammalarti gravemente!», lo avvertì l’amico.
«Ho già la testa che non mi funziona. Cosa cambia?».
Fece per toccare di nuovo la maniglia, ma Basho si parò davanti a lui.
 
«Perché mi fai questo?», scoppiò il biondo disperato.
«Se io non fossi tuo amico, ti avrei lasciato passare», fu la risposta.
«Piantala di essere gentile con me».
«E tu smettila di essere testardo!».
 
Vedendo che il più giovane aveva smesso di ribattere, ne approfittò per continuare.
«Ti invito a guardare come sei diventato».
 
Kurapika trasalì. Era la stessa frase che gli aveva rivolto Kuroro.
 
«Non riesci ad avere pietà né per gli altri, né per te stesso», gli rinfacciò ancora, «Questo lavoro ti sta cambiando. Capisco che vorresti continuare la tua vendetta, ma non puoi».
 
Stava esattamente ascoltando la ripetizione di quella dannata illusione e non ne poteva davvero più di essere ripreso per quel motivo.
 
Era impazzito, lo sentiva. Il suo autocontrollo stava vacillando.
 
«Quando ingerisci quegli alcolici, diventi un mostro!».
 
Sentita quella parola, non ci vide più dalla rabbia.
La sua mano si mosse automaticamente. Sferrò un rapido pugno a Basho, il quale lo accolse in pieno viso senza spostarsi.
La sua reazione fece alterare ulteriormente il giovane.
Cosa voleva dimostrargli? Che fosse lui quello nel torto? Si sbagliava di grosso.
 
Lo prese per la camicia e lo sbatté al muro con forza.
«Lasciami in pace!», comandò aggressivamente.
Era irriconoscibile.
«Coraggio…», lo incitò l’altro, «Dammene un altro… se aiuta a sfogarti».
«Non dire stronzate!», controbatté il Kuruta stringendogli il collo.
«Tu vuoi picchiarmi… proprio come hai fatto con Senritsu».
 
Udita quell’affermazione, Kurapika rimase spiazzato; si tuffò improvvisamente nei ricordi di non molto tempo fa.
 
Abbassò lo sguardo, rimanendo a bocca aperta, e lasciò lentamente Basho dalla violenta presa.
 
Rimembrare quel giorno gli procurava dolore; l’inconsueta parte del suo carattere si era animata per una sbronza.
Strinse i denti. Non aveva il coraggio di osservare chi gli stava di fronte.
 
«Non l’hai dimenticato, vero?», chiese il moro.
 
Non ricevette una risposta. Nella cucina calò il silenzio.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
«Apri la bocca».
«No! Sto bene!».
«Tua madre mi ha detto che hai tanta tosse; devo controllare la gola».
«Quel bastoncino di legno mi dà fastidio!».
«Non lascio la presa, tranquillo».
«Se mi costringi, mordo la tua mano!».
 
Nel luogo dove Leorio stava lavorando, il pediatra per cui si adoperava era impegnato a discutere con un bambino di nove anni.
Quest’ultimo si rifiutava di lasciarsi visitare; temere i dottori era una cosa abbastanza abituale, ma la pazienza di cui a volte ci si doveva servire era inconcepibile.
 
Il ragazzo era seduto in un angolo della stanza a meditare.
Dopo quel paradossale incontro con il suo migliore amico era tornato a casa esagitato.
Gon e Killua stentarono a credere al suo racconto.
 
Cosa ci faceva Kurapika ferito sotto la pioggia a mezzanotte?
La cosa più presumibile era che ci fosse stata una rissa tra mafiosi durante un’asta, ma il Kuruta non era il tipo che si gettava nelle mischie.
C’erano anche Senritsu, Basho e il suo capo.
Cominciò a sentirsi un verme per non averlo subito chiamato quella mattina.
Allo stesso tempo gli faceva paura quell’acida occhiata che gli aveva rivolto.
Era davvero il suo timido vecchio compagno di avventure?
 
 
«LEORIO?», inveì il pediatra.
«S-Sì? Mi dica», rispose il giovane intimidito dall’urlo.
Si era incantato da dieci minuti.
«Anziché bivaccare su quella sedia, dammi lo stetoscopio!».
L’aiutante corse a prenderlo senza farselo ripetere.
Quando glielo porse, il bambino disse: «Allora sei un alleato del nemico! Strano, credevo fossi più vecchio!».
«Ho solo vent’anni, mio caro Yuichi», replicò cercando di sorridergli.
Il medico gli tolse la maglietta, prese l’estremità dell’oggetto a forma di campana conica e la posò sul torace del piccolo, procedendo con l’auscultazione.
«Questa specie di disco è freddo!», si lamentò.
«Shh», emise Leorio per farlo zittire.
«Respira lentamente», disse il dottore.
Yuichi ubbidì.
«Ora devi dire “trentatré”», proseguì.
Il paziente ripeté la parola.
«Un’altra volta».
«Ancora?!».
«Mi serve per percepire meglio le vibrazioni».
«Trentatré trentini trotterellando. Va bene adesso?», domandò esasperato.
«Sì…», concluse sospirando.
Subito dopo si rivolse al collega.
«Prendi nota. Il Fremito Vocale Tattile è diminuito; è una malattia della laringe. Penso che sia disfonia, visto che il bambino ha poca voce».
«Allora? Ho dentro un mostro sputa fuoco che mi ha seccato la gola?», s’immischiò l’interessato.
«Certo che no! Guardi troppi cartoni», asserì Leorio.
«Cosa ti aspettavi? Io sono piccolo e indifeso», ribatté con sguardo dolce.
«Che tenera creatura…», disse il bruno con voce melliflua.
«Beh, chiamiamo tua madre?», propose il pediatra.
«No! Mi hai promesso che avrei fatto il medico!», gli ricordò.
«Ma ho altri pazienti…».
«Se non mi fai provare, dico alla mamma che mi hai importunato!», lo ricattò.
I due rimasero di stucco.
«Brutto bamboccio petulante…», cominciò a dire Leorio, ma l’altro lo interruppe.
«Facciamo quello che vuole: non voglio che rovini la mia reputazione».
«Si sta davvero sottomettendo a lui?».
«Non discutere e fai il malato!», comandò.
«Evviva!», esclamò Yuichi, «Coraggio, sdraiati!».
«Cerca di distrarlo. Nel frattempo io vado a parlare con i suoi genitori», gli sussurrò all’orecchio il dottore.
«Fermo! Non mi faccia…».
 
Troppo tardi: aveva già lasciato lo studio.
Non era proprio il momento di giocare. Il ragazzo non aveva sperimentato un’esperienza più imbarazzante di quella.
 
«Hai frequenti dolori alla testa, eh?», si accinse a dire il bambino.
«Quando mai avrei…?».
«Ho deciso che hai mal di testa!», ribadì.
Si avvicinò al suo viso.
«Mostrami la gola», ingiunse.
«Cosa c’entra?!», eruppe l’altro.
«Attieniti alle mie regole!».
Il moro sbuffò e acconsentì.
 
Dopo aver esaminato il suo interno, Yuichi prese lo stetoscopio e appoggiò il disco sulla sua fronte.
Leorio rimase stupito.
«Che stai facendo? È impossibile che possa sentire il respiro!».
«Infatti non è la mia intenzione», obiettò.
Il giovane restò in silenzio a scrutare l’espressione concentrata del bimbo.
Credeva veramente in quello che stava facendo per lui: non era un passatempo.
 
«Posso fare lo psicologo?», gli domandò ad un tratto.
«… Perché?».
«Tu soffri di nostalgia, dico bene?».
 
Per il ragazzo fu come se il tempo si fosse fermato. Continuò ad osservare il sorriso innocente del piccolo con ammirazione.
Aveva centrato perfettamente l’argomento. Si notava così tanto la sua tristezza?
 
«Stai bene?», gli chiese Yuichi.
«No, per niente…», rispose con la massima sincerità, «Smettila di leggermi nel pensiero!».
L’ilarità si dipinse sul volto dell’altro.
«Ho indovinato? Sono un genio!», esultò mettendosi a saltare.
 
«Senti…», lo richiamò il bruno, «Se è vero che i bambini sono la voce della verità, dammi un consiglio».
Non aveva ben chiaro il motivo per cui si fidasse tanto di quella persona sconosciuta.
La solitudine e la disperazione lo portavano a cercare l’appoggio di qualsiasi individuo.
«Dimmi tutto», approvò l’aspirante medico.
«Facciamo finta che il tuo migliore amico sia… un tipo duro di comprendonio, un impulsivo, uno che non si accorge dei suoi limiti».
«Un incosciente?», sintetizzò.
«Esatto. Questo ragazzo decide di intraprendere un lavoro molto pericoloso».
«Come mai?».
«Ehm… perché è ossessionato da una determinata cosa».
«Mmh…», emise incrociando le braccia.
«Dopo un po’ comincia a cambiare atteggiamento; non ti telefona più e nasconde i suoi problemi. Tu non puoi stargli vicino e riesci a vederlo quelle poche volte che gli concedono del tempo libero. Il punto è che sei molto arrabbiato con lui perché non ti ascolta e vorresti prenderlo a schiaffi per farlo ragionare».
Yuichi venne incuriosito da quella spiegazione.
«Insomma… che cosa faresti?», gli domandò alla fine con sguardo speranzoso.
 
 
«Niente», replicò il bimbo convinto.
«Come sarebbe a dire?!».
«Niente che possa nuocere alla mia salute», specificò.
«… Stiamo parlando del tuo amico!».
«Lo so, ma non ho scelto io questa strada per lui», ribatté immediatamente.
Leorio non seppe difendersi ancora, perciò lo lasciò parlare.
«In parole povere TU sei in ansia», azzardò.
«Sì».
«Il consiglio che posso darti è: non strafare. Lui ha voluto questi problemi e adesso se li tiene».
«Non posso restare indifferente! Può succedergli qualcosa!», sbottò.
«Pazienza», fu la replica.
 
La costernazione che provò l’hunter gli impedì di proferire parola.
«Mi spiego meglio», continuò il piccolo, «Non sto dicendo di dimenticarti del tuo amico, però è più importante che tu stia bene».
«… E quindi?».
«Se lui si ostina a combinare stupidaggini, lascialo fare; prestò imparerà la lezione».
«Ma non posso stare con le mani in tasca se si caccia nei guai!».
«Non puoi seguirlo? Trascorri un po’ di tempo con lui quando è libero».
«Lo faccio!».
«Nel modo sbagliato», aggiunse Yuichi, «Mettere il broncio con servirà a niente; gli trasmetti il tuo malessere ed è l’ultima cosa che vorrebbe provare. Dimostragli che sei tranquillo, scherza con lui e prova a farlo ridere; l’allegria è sempre contagiosa. In questo modo si renderà conto di non essere solo e tu potrai stare in pace con te stesso».
 
Leorio era stato rapito dal suo insegnamento. Era solo un bambino, eppure velava una certa maturità.
 
«È l’unica cosa che puoi fare. Se non funzionano i rimproveri, fallo sentire a suo agio».
«Capisco…».
«Se oggi pomeriggio è libero, perché non vi vedete? Potete incontrarvi al parco giochi; andate sullo scivolo, giocate a nascondino o con la palla. Sbizzarritevi!», consigliò con euforia.
 
Il moro si ricordò di stare discutendo con una persona di nove anni; per lui era normale che due amici frequentassero un posto simile.
A parte quel particolare, aveva trovato davvero interessante il suo parere.
«Ti ringrazio per la tua pazienza. Sei davvero un tipo sveglio!», affermò sentendosi rianimato.
Si era fatto prendere dal panico; avrebbe potuto ragionare come il bimbo.
«Figurati. Farmi gli affari degli altri è la mia specialità!», rispose ridacchiando.
«Dai, ora ti accompagno da tua madre».
«Fermo dove sei!», comandò, «Mi devi pagare. Non lavoro gratis!».
«Mi stai prendendo in giro?! Non elargisco soldi ad un marmocchio!», protestò.
«Ricordati cosa posso dire ai miei genitori», lo minacciò puntandogli il dito.
«… D’accordo, piccolo impertinente. Hai vinto tu».
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
Basho aveva condotto Kurapika nella sua camera, poiché il Kuruta era visibilmente demoralizzato.
Per molti minuti erano rimasti in silenzio. Ciò che era successo prima li aveva afflitti nello spirito.
 
Il moro fu quello che ritentò di instaurare un dialogo.
«Ascolta… mi dispiace per essere stato duro con te. Volevo però che riflettessi sul tuo comportamento. Ammetti che sei fragile! Non puoi di certo nasconderlo facendo il gradasso!».
«Senritsu…», mormorò il biondo senza ascoltarlo, «Io… non riesco più a parlare serenamente con lei da quando è successa quella cosa».
«Non esagerare! Se lo sarà dimenticato», persistette l’amico.
«No», negò l’hunter con fermezza, «Lei ha paura di me… dal giorno in cui sono impazzito per lo stesso motivo».
 
 
 
 
×××××
 
 
 
 
Era una gelida serata di Ottobre.
In uno dei locali più miseri e pericolosi del quartiere di Shibuya stava avvenendo una tremenda colluttazione.
I due ragazzi alle prese con una lite erano completamente ebbri.
Non avevano una valida ragione per azzuffarsi in quel modo; alcune persone avevano testimoniato che per errore uno dei due era andato addosso all’altro, facendo rovesciare a terra la sua bevanda.
La cosa più atroce ed indecente era che la lotta aveva preso vita per colpa di Kurapika.
 
«Sai quanto ho pagato per bere quel liquore, razza di imbecille?», domandò continuando a sbattergli la testa contro il pavimento.
Le sue iridi scarlatte non si notavano per via delle lenti a contatto.
«Peggio per te, stronzo! Hai le mani di pastafrolla!», gli rinfacciò l’altro.
Il biondo afferrò al colmo dell’alterazione i capelli del ragazzo, lo sollevò e lo colpì con un violento pugno che lo scaraventò contro un tavolo.
Gli altri indietreggiarono atterriti.
«Prova a ripeterlo, sudicia merda di discoteca!», inveì a denti stretti.
Faticava a reggersi in piedi e vedeva tutto doppio.
«Avanti…», iniziò a dire l’avversario mentre si stava rialzando, «… dimmi invece cosa vuoi fare tu qui dentro! Ti sbronzi per accalappiarti qualche sgualdrina che ti ammira per le porcate che fai?».
«CHIUDI QUELLA BOCCACCIA!», tuonò Kurapika avventandosi contro di lui e colpendolo sullo stomaco.
Il giovane sputò sangue.
«Indicami allora la tua provenienza», continuò il Kuruta, «Tu sei nato certamente da una madre altrettanto bastarda!».
Gli arrivò immediatamente un ceffone che gli fece voltare la testa a sinistra.
«Questa non te la perdono…», promise l’altro, «CHIEDIMI SCUSA, IDIOTA!».
Il biondo gli rivolse un sorriso mordace e dopo gli sputò in faccia.
«Puoi scordartelo», concluse.
 
Fu un susseguirsi di colpi brutali e sferrati senza usare la minima tecnica.
I ragazzi, sottomessi dall’ubriachezza, reagivano solamente secondo un istinto animale.
 
Ad un tratto qualcuno agguantò le braccia di Kurapika e lo allontanò dal suo avversario.
«DATTI UNA CALMATA! NON TI RICONOSCO PIÙ!».
 
Il giovane riconobbe la voce di Basho, ma si ostinava a dimenarsi.
«Lasciami andare! LASCIAMI!».
Il più grande dovette utilizzare tutta la sua forza per tenerlo a bada.
Ormai il suo amico non comprendeva più niente: c’era rabbia e sdegno.
Non riusciva a fermare le sue grida, le quali erano peggiori di quelle di un indemoniato.
Di Kurapika era presente solo l’aspetto esteriore; tutto il resto stonava con il suo modo di essere.
 
Il suo collega era venuto a sapere appena in tempo del luogo dove era andato quello sconsiderato. Con lui c’era anche Senritsu, la quale impallidì nel vedere la scena.
Un amico dell’altro ragazzo era intervenuto a sua volta per fermare la lite.
 
«Sei diventato pazzo?! Cosa ti è saltato in mente di fare?», sbottò Basho adirato.
Ottenne un ghigno come risposta.
«Ciao, mamma…», fu il saluto ironico.
«Non posso credere che tu abbia fatto una simile balordaggine… per un’insulsa bevanda!», lo sgridò esterrefatto.
«Insulsa?», ripeté il Kuruta, «Io ne ho bisogno! NON CAPISCI CHE LA VOGLIO?».
«KURAPIKA!», urlò Senritsu parandosi di fronte a lui, «Adesso smettila! Torna ad essere un ragazzo intelligente!».
Lui la scrutò attentamente, poi dalla sua bocca uscirono solo parole taglienti.
«Ha parlato la sventurata che si è ridotta così per aver ascoltato il suo amico ubriaco mentre le suonava la “serenata” oscura».
 
Lui era inconsapevole di starla accusando, ma quella frase non poté fare altro che causarle una piaga profonda nel cuore.
«Proprio per questo ti voglio fermare!», reiterò alla fine.
Prese dal tavolo una bottiglia contenente un superalcolico e la mostrò al ragazzo.
«Non esisteranno mai più delle droghe create per accorciare la nostra vita!», annunciò con atteggiamento risoluto.
Chiuse gli occhi e aggiunse: «Il tuo battito è convulso ed incontrollabile. Sei stregato da queste maledizioni…».
Non poté più trattenersi.
«Il Kurapika che conoscevo non c’è più! Il tuo comportamento… mi fa semplicemente schifo!».
 
 
Qualcosa la colpì con violenza.
Una mano si era appena gettata contro la sua guancia.
Il Kuruta, dopo essere riuscito a liberarsi dalla presa di Basho, le aveva mollato uno schiaffo.
 
Tutto procedette in maniera terribilmente lenta per la giovane; non credeva ai suoi occhi.
Questi ultimi si inumidirono. Scorse poco nitidamente la sagoma di Basho, il quale aveva di nuovo bloccato le mani del ragazzo, imponendogli di calmarsi.
 
Si accorse successivamente di essere caduta a terra.
«Sen, stai bene?», le chiese l’amico atterrito.
Provò a toccarsi la gota dolorante mentre calde lacrime cominciavano a solcarle il suo viso.
 
Nel vedere quella reazione, Kurapika smise di agitarsi. Realizzò finalmente che stava piangendo per lui.
Sentì che Basho stava tentando di condurlo via dal quel posto e non ebbe il coraggio di protestare.
 
La ragazza che gli aveva sempre voluto bene come una madre… era stata maltrattata dal suo fantomatico figlio.
 

 
 
 
×××××
 
 
 
 
«Solo perché non mi aveva dato quello che volevo, le ho alzato le mani come un rozzo villano! Non posso perdonarmelo…», concluse l’interessato coprendosi il volto con le mani.
 
Dopo qualche secondo di silenzio Basho diede una leggera pacca sulla spalla del collega.
«Ehi, non demoralizzarti! È acqua passata… L’importante è che tu abbia imparato la lezione».
«Non è così facile…», fu la replica immediata, «Cadrò sempre nello stesso errore e non maturerò mai completamente. Sono il parassita della famiglia!».
«Ma che stai dicendo?!».
«Tu mi temi… e non ti fidi di me. Senritsu ha solo un mio ricordo passato perché non facciamo altro che litigare. Spesso lei ha ragione; io però, sfoggiando la mia cocciutaggine, trovo una scusa per vincere. Finirò per farmi odiare dai miei amici; non ho la coscienza pulita».
Il moro stava per ribattere, ma l’altro continuò.
«Non voglio più ricordare… né vivere».
«Rimangiati queste parole!», ordinò, «Io credo in te e so che riuscirai ad uscire da questo vizio. Devi solo avere tenacia e sicurezza in te stesso».
 
Il loro discorso venne troncato da un urlo di Neon proveniente dal piano inferiore.
«BASHO? SENRITSU DESIDERA IL TUO AIUTO! MUOVITI!».
I due sbuffarono nello stesso momento.
«Il dovere mi chiama», disse il bruno, «La cornacchia ha gracchiato».
«Io mi domando come abbia fatto a restare impassibile di fronte al furto», rifletté il Kuruta.
«Quella pensa solo al colore ideale dello smalto! Non arriva a comprendere gli altri problemi», ripeté l’amico toccandosi la testa con un dito.
A Kurapika sfuggì un lieve sorriso per il sarcasmo del compagno.
Sollevò la testa fino ad incontrare il suo sguardo.
«Non pronunciare una parola sulla nostra discussione a Sen», gli raccomandò.
«Stanne certo!».
«E poi… falla divertire, dato che hai questo dono», aggiunse.
«Perché non la raggiungi tu? Saresti la persona più adatta!», affermò l’altro strizzandogli un occhio.
«È meglio di no. Ho perso l’autostima in un mare di difetti ed imperfezioni».
 
«BASHO!», gridò di nuovo la ragazza.
«A dopo», concluse uscendo imbronciato dalla stanza.
 
Appena la porta si richiuse e Kurapika rimase da solo, il suo cellulare vibrò sul comodino.
Cercando di scacciare quegli orribili pensieri, contemplò il mittente del messaggio che aveva ricevuto.
 
Come temeva: era Leorio.
Si ostinava a farlo sentire ancora più in colpa; voleva di sicuro essere informato sulle faccende della notte passata.
Nel suo vocabolario non era presente il significato di farsi gli affari propri.
 
Cambiò completamente idea quando lesse il contenuto.
-Ci vediamo questo pomeriggio alla caffetteria Yuumei.
Sì, te lo sto ordinando. Ho voglia di scherzare con il mio migliore amico ed esigo la sua presenza!
Io verrò comunque. Sarà accettato il tuo rifiuto solo in caso di forza maggiore-.
 
Il ragazzo continuò a fissare lo schermo quasi meravigliato.
Sembrava tranquillo e contento.
Non sapeva se si stesse sforzando o se avesse preso un colpo in testa, il quale gli aveva fatto dimenticare tutto.
 
Prese coraggio e si diresse verso l’ufficio del capo.
Era probabile una negazione del permesso, ma doveva provarci ed utilizzare la sua fermezza per giungere ad un accordo.
 
Decise di accontentare il suo amico; le cose si sarebbero presto complicate e forse dopo quell’uscita non l’avrebbe più potuto rivedere.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
Vennero le quattro del pomeriggio.
Nella villa di Nakamura erano presenti momentaneamente il proprietario e Shijo.
I due stavano ancora discutendo sulle faccende dell’altra sera e riuscivano ad aggiungere delle informazioni interessanti.
«Kurapika ha usato delle catene?», domandò il collega incredulo.
«Sì. Rokuro può darti la conferma», rispose il boss, «Quando ha nominato quel Kuroro, ha sfoderato minacciosamente cinque catene: una per ogni dito. Credo che siano fatte con il Nen perché sono apparse all’improvviso».
«E poi?».
«Non è successo più niente. Sembrava intimorito ed insicuro sul fatto di usarle», rivelò.
«Che notizia interessante!», esclamò Shijo appoggiando il mento sui dorsi delle mani, «Deve avere un potere davvero inquietante».
«E sicuramente ha commesso quell’omicidio grazie ad esse», seguitò l’altro.
«Un utilizzatore di Hatsu, eh? Potrebbe essere della Concretizzazione», immaginò il moro.
«Mmh, io non mi intendo di queste cose. So che… stiamo facendo venire allo scoperto tutti i suoi segreti», affermò fieramente.
«Però dobbiamo essere certi che non abbia qualche capacità pericolosa. Può darci del filo da torcere».
«Come pensi di svelarlo?».
«Con la mia Specializzazione», replicò, «Non so quale sia l’utilità delle sue catene. Se gli prendessi in prestito i poteri, potrei scoprirlo».
Nakamura aggrottò la fronte.
«Stai attento. È possibile che abbia usato qualche trucco per impedire agli altri di danneggiare il suo Nen. Quel ragazzo è furbo…».
«Hai ragione», ammise, «Ma forse è dotato di altre condizioni che potrebbero nuocere a lui stesso. Mi sembra un tipo risoluto e disposto a tutto; voglio assolutamente giocare questa carta».
«Ora rimani qui: mi devi aiutare», gli ricordò il boss.
«Tranquillo. Ideerò un piano in seguito».
Si alzò dalla sua sedia e disse: «Questa guerra è già vinta da noi. Te lo posso assicurare!».
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
«Ci vediamo domani, Sato!».
«D’accordo».
 
L’uomo si era appena separato da alcuni suoi compagni mafiosi. Si erano riuniti per trascorrere un sereno pomeriggio al di fuori dei loro affari.
Dopo averli salutati, cominciò ad incamminarsi verso la sua abitazione vicina.
 
Circolava un elevato numero di automobili e di persone; era impossibile sentirsi soli in mezzo a tutta quella folla.
 
Provava la sensazione di essere osservato e seguito da più di un’ora. Cercava di non badarci, ma un brutto presentimento stava affiorando nella sua mente.
Non sapeva perché si sentisse così a disagio; forse era una sua fantasticheria.
 
Le paranoie gli avevano sempre giocato brutti scherzi, ma lui poteva udire in tutto quel fragore il rumore di passi spediti e particolarmente veloci.
Qualcuno si stava avvicinando a lui… sempre di più.
La sua passeggiata finì per trasformarsi quasi in una corsa.
 
Sato era la classica persona che si crucciava per ogni sorta di trepidazione che lo affliggeva; non aveva mai avuto tanti amici, poiché questi ultimi si erano allontanati dalla sua depressione.
Ma in quel momento le sue orecchie non mentivano: lui era l’oggetto dell’inseguimento.
 
Si precipitò a casa sua dopo essersi fatto strada fra la gente con spinte e strattoni.
Chiuse a chiave la porta d’ingresso e sospirò.
Era indeciso se si trattasse di un poliziotto o di un malevolo.
Le sue guardie del corpo lo accolsero, ma lui preferì dirigersi verso il suo ufficio e stare lontano da occhi indiscreti.
 
Si ricordò di prendere la pastiglia per l’ipertensione.
Gettò nel cestino molte scartoffie che si trovavano sopra la scrivania; essere disordinato era una sua caratteristica.
Trovò il farmaco, lo mandò giù con l’aiuto di un bicchiere d’acqua e subito dopo si accese una sigaretta.
Le questioni della Mafia lo stressavano oltre il limite. Era sempre agitato e si fidava raramente di qualcuno.
 
 
Il suo cellulare squillò.
Rispose svogliatamente alla chiamata.
«Pronto?».
«Sato, sei vivo!», eruppe una persona che lui riconobbe.
«Oh, Light! Quanto tempo…».
«Ma che dici? Ti ho telefonato una decina di volte».
«Perdonami, ero con i miei colleghi. È probabile che non abbia sentito il suono del telefono», si giustificò.
«Cosa avevi intenzione di fare?», cambiò argomento l’altro.
«… Io? Perché?».
«Se era uno scherzo, è stato davvero di pessimo gusto!».
«… Di cosa stai parlando?», domandò l’interessato stupito.
 
Non ricevette una replica. Era caduta di nuovo la linea.
Sollevò lo sguardo e notò che era anche andata via la luce.
Spalancò immediatamente la finestra della stanza; era l’unica fonte di illuminazione possibile.
«OCCUPATEVENE VOI!», urlò in modo che le sue guardie lo sentissero.
 
Restò in balcone ad ammirare il cielo.
Non aveva voglia di parlare con Light. C’era di sicuro un errore; non aveva commesso nient’altro di illegale.
 
L’uomo rimase assorto in mille pensieri.
Non si accorse della presenza che si stava avvicinando cautamente a lui.
Non si accorse di essere diventato immune a qualsiasi rumore per via degli immediati effetti collaterali di quelle medicine.
Non si accorse delle mani che si stavano minacciosamente allungando verso di lui.
 
Una spinta selvaggia gli fece perdere l’equilibrio.
Cominciò a vedere tutto sottosopra. Una ventata di aria gelida lo investì.
 
Le ultime cose che scorse in quell’attimo furono delle persone che urlavano disumanamente… e la dura superficie dell’asfalto venirgli incontro.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
«L’ha fatto apposta! Quel bastardo ha escogitato tutto! Ed io che lo consideravo una brava persona…», brontolò Light sbattendo il cellulare sullo scrittoio.
Prima che potesse sfogare ancora la sua ira, qualcuno bussò alla porta della sua camera.
«Chi diavolo è?», chiese irritato.
Si pentì della sua arroganza quando scorse il volto di Senritsu.
«Capo, devo parlarle. È urgente».
Vedendo la sua espressione timorosa, il signor Nostrade si scusò immediatamente.
«Mi dispiace… Puoi entrare».
La mora non se lo fece ripetere due volte.
Si avvicinò a lui e, appoggiando le mani sul tavolo che li separava, annunciò: «Forse so qualcosa riguardo al responsabile».
Le sopracciglia dell’uomo si sollevarono per un paio di secondi, poi i tratti del suo viso si rilassarono di nuovo.
«Sono certo che il mio collega sia l’unico a dovermi confessare tutto», smentì facendo uso della sua pertinacia.
«Mi ascolti!», si incaponì la ragazza, «Sono stata anch’io vittima dell’incantesimo che provoca un’improvvisa sonnolenza!».
«Ti riferisci a ieri? Eri solo stanca; non discolparti».
«Non le è sembrato strano che quel signore si sia sentito male proprio di fronte alla nostra abitazione? E come mai nessuno a parte lei si è accorto della sua presenza?», gli fece notare.
«Può anche darsi che sia stato un semplice caso. Dopotutto non mi è successo niente».
«Magari non se n’è accorto!», specificò la giovane.
 
I due rimasero ad osservarsi per un istante. Lo sguardo di Senritsu era così penetrante che Light dovette distogliere il suo.
«Beh… forse era un uomo mandato da Sato. Il punto è che non so spiegarmi come abbia potuto fare tutto questo», confessò.
«Sa cosa le dico?», domandò lei, «Secondo me non è stato il suo collega».
«Come fai ad esserne così sicura?».
A quel punto la bruna rivelò ciò che aveva celato con il suo amico.
«Ho discusso con Basho riguardo al boss che avete incontrato quella famosa sera. Mi ha detto che avete passato dei brutti momenti e…».
«Allora non ha tenuto la bocca chiusa!», sbottò il capo.
«Non importa! Prima o poi sarei dovuta venire a saperlo», gli ricordò, «Non lo rimproveri!».
«Però ti ha spaventata inutilmente e chissà quante altre cose ti avrà detto…».
«È possibile che sia stato lui a combinare questo torto», suppose.
«… Nakamura?».
«Se è il suo nome, sì».
 
 
 
Partì improvvisamente la suoneria del cellulare. Credendo che fosse il suo collega, il signor Nostrade rispose dopo neanche due squilli.
«Chi è?».
«È successa una cosa terribile…», cominciò a dire una voce differente.
«Akito!», esclamò Light riconoscendo una guardia del corpo che si trovava nella zona, «Dimmi tutto!».
«Mi dispiace… ma il suo collega è stato ritrovato senza vita sotto casa sua!», gli riferì.
Light si alzò di scatto dalla sedia.
«COSA?!».
«Alcune persone hanno visto la scena; pare che sia stato gettato dal balcone o che si sia suicidato. Anche la polizia è incerta! Quella famiglia mafiosa si troverà in guai seri…», aggiunse.
 
Non riuscì a proferire parola. Colui che sospettava era diventato una vittima.
I suoi ragionamenti svanirono. Doveva ricominciare a costruire le sue idee… o forse no?
 
«È in linea?», lo chiamò l’altro.
«Ti chiamerò in un altro momento: non voglio immischiarmi in queste faccende», concluse mettendo giù la telefonata.
Si risedette e sbuffò.
«Cosa le ha detto?», chiese la mora.
«Pare che il responsabile abbia fatto fuori Sato prima che di poterci chiarire», raccontò.
«Oddio!», proruppe impaurita.
«Almeno sappiamo che lui non rientrava nella questione».
 
Lei gli lanciò un’occhiata di spregio.
Era possibile che non fosse in grado di provare la minima compassione per un uomo?
Cercò di trattenere le lacrime: piangere di fronte ad un egocentrico era la peggiore umiliazione.
 
«Cosa farà adesso?», riuscì a chiedergli con voce roca.
«È semplice: seguirò il tuo consiglio», rispose, «Andrò a fare una visitina a Nakamura».
«Aspetti! Vorrei sapere com’è andato a finire il vostro incontro».
L’uomo le rivolse un’espressione glaciale.
«Sappi solo che ha tirato fuori dalla nostra bocca degli accenni riguardanti i nostri affari segreti e i poteri di Neon».
«Davvero?», scoppiò sbigottita.
«Sì. Sembrava avercela parecchio con Kurapika», confessò.
«Come mai?».
«Se lo sapessi, te lo direi», le fece constatare.
«Devo parlargli», decise cominciando a dirigersi verso la porta.
«Non puoi».
«Perché?».
«Gli ho concesso il permesso di uscire. Aspetta il suo rientro».
 
La ragazza sospirò: ogni volta che aveva bisogno di lui, non era in casa. Talvolta credeva che lo facesse apposta.
Non ebbe altra scelta e prese il suo telefono.
«A dopo, capo», lo salutò prima di dirigersi verso la sua camera con determinazione.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
Uccidere. Togliere la vita ad una persona.
Il sapore della soddisfazione non era mai stato così vivo nel suo palato.
Non esisteva una migliore liberazione.
 
Takahiro continuava ad osservare imperterrito la sua pistola lontano dalla gente irriguardosa.
Un prurito alle mani davvero ben compensato!
 
Dopo aver tagliato tutti i fili della corrente, era riuscito ad intrufolarsi facilmente nella villa di Sato.
Ammazzò tutte le guardie del corpo servendosi dell’ambiente poco illuminato. In seguito, per far nascere il sospetto che il boss si fosse suicidato, lo spinse in modo da farlo cadere dal balcone del secondo piano.
 
L’impatto non poteva risultare più appagante.
La testa dell’uomo fu la prima a colpire l’asfalto; Takahiro era in grado di udire persino ad occhi chiusi il rumore delle ossa del corpo che si erano spezzate e fracassate quando Sato aveva esalato l’ultimo respiro.
 
Una pozza di sangue circondava il cadavere.
Era così impegnato ad ammirare la sua opera che neanche si accorse delle grida degli altri.
Quella visione aveva qualcosa di artistico.
Le chiazze rosse disposte fino a formare delle allegre forme geometriche; la simmetria delle braccia, le quali avevano escoriazioni ed abrasioni sugli stessi punti…
Nessun dubbio: era venuto un capolavoro.
 
Aveva finalmente trovato una valvola di sfogo: la possibilità di massacrare.
Non importava se l’avrebbero cercato.
Perché tornare a casa? Poteva benissimo divertirsi per qualche altra ora.
 
I suoi genitori sarebbero stati sgozzati come dei capri espiatori.
Doveva ammettere che erano bravi a far diventare i figli irrequieti; per troppo tempo lui e i suoi fratelli avevano visto l’inferno.
Morire con l’onore di essere ricordato come un coraggioso criminale: una fine sublime.
 
 
Udì la vibrazione del suo cellulare.
Guardò lo schermo e identificò il numero di Nakamura.
«Ehilà!», urlò gioiosamente.
«Hai fatto fuori quel tipo?», chiese il boss.
«Ma certo! Ti ringrazio per avermi dato questo compito!».
Le labbra del signore si distesero in un malefico sorriso.
«Figurati, caro. Ottimo lavoro».
«Non torno adesso a casa. Voglio svagarmi un po’!», lo informò.
 
La risposta non fu immediata, ma alla fine glielo permise.
«Va bene, fai quello che vuoi. Te lo meriti».
«Posso?!», chiese per accertarsi di aver capito.
«Affermativo. Però stai molto attento, va bene?», gli raccomandò.
«Non so come ringraziarti! A stasera!».
 
Kagamine, il quale aveva ascoltato la breve conversazione, non tardò ad inveire.
«Perché l’hai lasciato andare?».
«Rilassati. Ormai non mi serve più», replicò sorseggiando del vino dal suo bicchiere.
«Come sarebbe a dire?».
«Tutto quello che volevo è stato eseguito da lui. Adesso ha coronato il suo sogno e possono fargli quello che vogliono», spiegò con la massima sicurezza.
«Allora verrà catturato!», esclamò il collega.
«Probabile».
«E se confesserà la tua identità?».
«Non si azzarderà: gli ho messo paura. Dopo un ricatto del genere, sarebbe inutile parlare».
«Quindi puoi assicurarmi che siamo al sicuro?».
«Al 100%».
 
«Sbrigatevi!», ordinò Satoshi, spuntando dal seminterrato, «Light potrebbe arrivare a momenti».
«Hai ragione», concordò Kagamine, «Velocizziamo i nostri lavori. Forza!».
 
Un detto particolarmente importante rimase impresso nella mente di Nakamura.
Oltretutto l’aveva inventato lui stesso e se ne serviva in queste occasioni.
“Mai lasciarsi ingannare dalle apparenze. A volte chi sceglie di aiutare una persona, lo fa solo per i suoi biechi scopi… e può rivelarsi un abile traditore”.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
«Pensavi davvero che avessi la smania di mentire al capo per i tuoi comodi?», chiese Kurapika con un certo tono di voce.
Si stava dirigendo velocemente verso la caffetteria Yuumei e stava discutendo al telefono con Senritsu, come era solito fare.
«Tu spiegami perché non mi doveva essere rivelato niente!», perseverò la giovane.
«Domandalo al signor Nostrade».
«Avrei potuto cercare di trovare una soluzione con voi…».
«Non ti struggere per faccende che non ti riguardano».
«Come fai ad esserne così sicuro?».
«Adesso devo andare», tentò di concludere il biondo.
«Non mi avete mai detto niente! Che razza di gruppo è il nostro?».
«È una questione di prevenzione e sicurezza. L’importante non è spettegolare con gli amici; mi dispiace che non riesca ad afferrare il concetto».
 
Ci fu una breve pausa di silenzio.
«Mi considerate debole, vero?».
«Sì», fu la risposta immediata del Kuruta. Girare intorno all’argomento era tempo sprecato.
«Questo è il motivo per cui voglio proteggerti… e farti sentire serena».
Senritsu non ebbe la capacità di ribattere di fronte a quell’affermazione.
Non sapeva se sentirsi un oggetto estremamente fragile nelle loro mani o una persona anche troppo preziosa.
«Ci sentiamo dopo», concluse Kurapika mettendo giù la chiamata.
 
Scorse in lontananza il bar. Per una volta Leorio non aveva sbagliato le indicazioni.
Dovrebbe provare un leggero imbarazzo nel vedere l’amico che aveva letteralmente liquidato la sera precedente, ma nessun’emozione scaturiva dal suo cuore.
Non sentiva né timore, né felicità.
Era certamente contento di vederlo, però non riusciva ad accennare un sorriso.
La morte si era impadronita del suo animo, il suo gelido cuore della speranza ardente.
 
 
 
Quando mise piede dentro il locale, vide che Leorio gli stava già venendo incontro.
Che patetico: si notava da lontano la sua volontà di fare finta che niente fosse accaduto.
Tutti lo riconoscevano come un mostro… e non riusciva più a tollerarlo.
 
«Ciao…», lo salutò il più grande timidamente.
«Ciao», ricambiò con la massima indifferenza.
«Beh… come stai?».
«Bene».
 
C’era qualcosa di diverso nel Kuruta; il bruno se ne accorse anche dal suo aspetto.
La camicia che indossava era completamente nera. La sua pelle particolarmente chiara si metteva in netto contrasto con i bracciali scuri in pelle che gli coprivano gli avambracci.
Borchie e catene pendevano dai suoi jeans aderenti.
Gli occhi erano quasi interamente coperti dalla frangia. I suoi capelli erano notevolmente cresciuti; non aveva neanche il tempo di tagliarli e curarseli.
Non c’era una parola adatta per descrivere la debilitazione del ragazzo.
 
«Sicuro che sia tutto a posto?», azzardò l’amico.
«Non giudicare una persona per come si veste», gli consigliò prontamente l’altro, mettendolo a tacere.
«Ci sediamo?», chiese poi.
«… Certo, va bene».
 
Dopo essersi accomodati, una cameriera corse subito a prendere le ordinazioni.
«Cosa vi porto?».
«Per me un caffè macchiato, grazie», rispose Leorio.
«Un tè freddo alla pesca», decise Kurapika.
Il moro lo osservò stupito.
«Perfetto. Arriveranno fra qualche minuto», li informò la signora prima di andarsene.
«Non posso crederci: hai scelto una bibita normale!», esclamò allibito.
«Assumere alcolici di fronte a te sarebbe un gesto maleducato», esplicò l’interessato.
«Oh, vedo che non hai perso il tuo charme!», affermò l’altro divertito.
«È una cosa che dovrebbero avere tutti, non credi? La tua meraviglia mi sorprende assai».
«Chiedo umilmente scusa a Sua Altezza!».
 
Tutto stava procedendo per il meglio. Il medico era riuscito a rompere il ghiaccio e pareva che il Kuruta si stesse rilassando.
Bastava che mantenesse la calma e sarebbe stato capace di trasmetterla a colui che ne aveva bisogno.
 
«Vorresti chiedermi il motivo per cui fossi fuori casa ieri sera?», domandò inaspettatamente Kurapika.
«Certo che no! Sono affari tuoi e non ho il diritto di intromettermi», lo rasserenò.
«Non è un problema se te lo racconto», reiterò schiettamente.
«… Allora spara».
Non poteva negare di essere curioso.
«In questo periodo la famiglia Nostrade è perseguitata da altri mafiosi gelosi della sua popolarità. Ci stanno tendendo molte trappole dalle quali siamo riusciti ad uscire con travagli», espose.
«Caspita, non lo sapevo…».
 
«Ci hanno anche derubati», aggiunse.
«DERUBATI?!».
«Abbassa la voce!», gli ordinò guardandosi intorno, «Sì, è così. Per fortuna nessuno è rimasto coinvolto».
«E… avete qualche idea su chi potrebbe essere l’ideatore del piano?».
«No, è meglio non fare congetture che potrebbero rivelarsi errate. È probabile che Basho e gli altri abbiano iniziato le indagini».
Piantò il suo sguardo sugli occhi dell’amico e concluse dicendo: «Per ora è tutto quello che devi sapere».
«Ok…».
 
 
 
Ad un certo punto Leorio fece la sua spiegazione.
«La ragione per cui ti ho invitato è: dimenticare i problemi. Siamo qui per divertirci e discutere su altre faccende… come facevamo un tempo».
«Mi sembra un’impresa leggermente difficile», commentò il più giovane ironicamente.
«Non lo è… perché sono molto contento di vederti».
 
Appena sentì quella frase, il Kuruta lo fissò incredulo.
Nonostante il suo strano temperamento, stava provando gioia per la sua presenza?
Che strano… Dopo tutti quei rimproveri, gli suonava come una presa in giro.
Di sicuro neanche Leorio lo sopportava.
 
Un momento…
Cosa accidenti stava pensando?
Non poteva provare rancore verso tutte le persone che incontrava.
 
Eppure… in qualche modo c’entravano con la sua rovina, nessuno escluso.
Forse il suo migliore amico era la causa principale: gli aveva insegnato a provare compassione di fronte al suo acerrimo nemico.
Sarebbe potuto essere libero. La sua vendetta avrebbe già avuto una fine.
 
Sì… in fondo al cuore lo detestava in maniera ripugnante.
“È strano, ma… perché ho voglia di ammazzarlo?”, si chiese improvvisamente.
Quel dolce sorriso, il suo fare così goffo ed imbarazzante, la sua capacità di deviare mentalmente chi gli stava intorno.
Tutto ciò gli urtava i nervi fino al culmine della sopportazione.
Era cosciente di non stare mostrando la sua indole razionale, ma poco gli importava.
 
«Kurapika, ti sei incantato?», lo chiamò il bruno.
Lui gli rivolse un sorriso irriverente.
«Perdonami, ma queste tue solite dichiarazioni d’amore fraterno mi tediano oltre il limite».
 
Leorio rimase paralizzato.
In altre parole gli aveva detto di essere ridicolo.
Si auto convinse che fosse solo uno scherzo da parte sua.
 
«Dunque…», continuò placidamente l’altro, «… parlami un po’ di Gon e Killua».
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
«È vicino a noi; riesco a sentirlo».
«Sto facendo la strada giusta?».
«Sì, procedi».
 
Era passata un’altra ora.
Dopo aver saputo della notizia di Sato, Basho e altre due guardie del corpo erano andati a fare una ricognizione nella casa della persona uccisa per trovare qualche indizio plausibile che avesse potuto ricondurli all’identità del nemico.
 
Uno dei due nuovi uomini, Mitsuo, possedeva la Specializzazione sul senso dell’olfatto.
Qualsiasi cosa che annusava, anche inodore, riusciva a farlo risalire all’interessato.
Memorizzava l’effluvio e localizzava il colpevole se era nelle vicinanze.
 
I tre avevano per buona sorte scovato un brandello della sua maglietta; ipotizzarono che avesse dovuto ricorrere alle armi prima di essersi gettato sul collega di Light.
 
Passato un quarto d’ora, scorsero l’uomo in un vicolo cieco mentre stava tentando di rubare la borsa ad una ragazza per puro divertimento.
Approfittarono della situazione per bloccare con l’auto l’unica possibile uscita e si precipitarono fuori da essa per acciuffarlo.
«Sei sicuro che sia lui?», chiese Basho.
«Certo», replicò Mitsuo, «Non vedi cosa sta facendo?».
«Hai ragione».
 
Takahiro si accorse all’ultimo momento degli avversari. Erano alcuni membri della famiglia Nostrade.
Fu costretto a lasciare la presa sulla giovane e a puntare loro la pistola.
 
Era una situazione inaspettata. Non si era mai scontrato fisicamente contro una persona senza utilizzare tattiche ed imbrogli.
Ma non si pentì di aver girovagato per tutto quel tempo: si era divertito a comportarsi come un incivile senza regole.
 
Sparò nella direzione di Basho.
Si intromise subito la terza guardia chiamata Taro.
Usò il suo corpo come uno scudo; la pallottola affondò nel suo stomaco, il quale aveva assunto una consistenza elastica; subito dopo la prese con una mano e la gettò via.
Takahiro rimase scioccato: erano maestri di Nen.
Taro apparteneva alla categoria della Trasformzione e aveva la capacità di rendere flessibile ogni fibra del suo organismo.
 
Tanta fu la meraviglia che non si accorse del calcio improvviso di Mitsuo sulle sue ginocchia per fargli perdere l’equilibrio.
Basho piombò immediatamente dietro di lui, immobilizzandolo e tappandogli la bocca con una mano.
L’uomo fu costretto a gettare l’arma: era in netto svantaggio contro tre persone.
 
Continuava a domandarsi come avessero fatto a rintracciarlo. Era accaduto tutto così velocemente.
 
I tre l’avevano già caricato in macchina per portarlo in un posto meno vicino al centro del quartiere.
L’avrebbero sicuramente riempito di domande, proprio come aveva previsto Nakamura, e poi era ignoto ciò che gli sarebbe capitato.
 
Nonostante la brutta situazione, il rischio di essere ucciso e il divieto di accennare le dispute del capo, aveva ormai realizzato il suo sogno e non gli interessava più niente.
 
Basho non perse tempo e telefonò a Kurapika.
 
 
 
 
Nella caffetteria il cellulare del biondo cominciò a squillare.
«Rispondi pure», gli disse Leorio prima di proseguire nella bevuta del suo secondo caffè.
 
«Pronto?».
«Raggiungici subito!», inveì il moro.
Il ragazzo rimase colpito dal suo atteggiamento.
«Che è successo?».
«Abbiamo catturato il bastardo. È necessaria la tua presenza!», svelò.
«Sul serio?!», sbottò allarmato.
«Sì, ma ora non ti racconto i dettagli. Fatti trovare nel luogo dove è stato arrestato quel signore che vendeva tarocchi».
«Ho capito. Sto arrivando».
 
Si alzò di scatto dalla sedia e cominciò a dirigersi verso l’uscita.
«Ehi, Kurapika?», lo chiamò l’amico.
«Devo andare», confessò nervosamente.
«E chi paga?».
«Tu, per favore. Ti darò i soldi in un altro momento».
«Aspetta!», urlò afferrandogli una spalla.
«Lasciami andare: ho fretta», sottolineò l’altro.
«Dimmi perché!».
«Non ti interessa».
Con uno strattone si liberò dalla presa.
«Rimani qui. Ci vediamo».
 
 
Leorio rimase ad osservarlo sbigottito mentre si allontanava dal locale.
 
E adesso? Cosa doveva fare?
Sembrava tranquillo, però bastava un piccolo problema per farlo diventare ansioso e acido.
 
Ripensò alle parole di Yuichi.
Fare finta di niente? Era umanamente impossibile, vedendolo in quello stato.
In che guaio si sarebbe cacciato stavolta?
 
“Mi dispiace, ma… non prendo ordini da nessuno”.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
Light non poteva credere ai suoi occhi.
Ciò che Nakamura gli stava mostrando andava contro ogni sua aspettativa.
La villa dell’altro boss era stata precedentemente messa a soqquadro.
Rimanevano soltanto alcuni mobili d’arredo; per il resto avevano rubato anche le tende e l’intonaco delle pareti era rovinato e macchiato da strane scritte.
 
«I miei servitori hanno appena iniziato a pulire i pavimenti sporchi. C’è ancora tanto da fare prima di sistemarla», spiegò addolorato.
«Capisco…».
Diede un rapido sguardo ad alcune persone che stavano sistemando delle carte.
«Chi sono?», chiese.
«Dei miei colleghi di lavoro. Anche loro mi stanno dando una mano».
 
Light era sempre più confuso.
Aveva intenzione di accusare l’uomo per la faccenda del misterioso ladro, però anche a lui era capitata quella tragedia.
 
«Come puoi constatare, siamo sulla stessa barca», gli ricordò il boss.
 
Doveva credergli?
Sembrava tutto così effettivo…
 
«Scusa se ti ho disturbato… È meglio che tolga il disturbo», ammise.
«Non se ne parla proprio! Mettiti comodo», dissentì Nakamura, «Non sarà questa sciagura ad impedirmi di vedere i miei conoscenti».
Fece sedere Light su una sedia e aggiunse: «Inoltre non hanno perlustrato altre zone della casa».
«Anche da noi è stato così!», affermò l’interlocutore stupefatto.
«Ma secondo te… cosa vuole farci capire?», lo interrogò l’uomo curioso.
«Beh, penso sia una persona che vuole primeggiare su tutti», fu il commento.
Nakamura nascose un sorriso malefico e chiese: «Non è che… stavi sospettando di me?».
Il signore lo osservò con un misto fra sbalordimento e soggezione.
«A dire la verità… sì».
«È normale che ti comporti così dopo la nostra discussione di quella sera. Devi comprendere però che io sto usando una maschera; se vuoi sopravvivere, ti tocca diventare un tipo tosto. Non lo faccio per cattivi scopi», raccontò.
«È davvero difficile fidarsi».
«Ed è altrettanto arduo andare d’accordo, ma dobbiamo provarci», concluse cercando di risultare spontaneo.
 
L’altro non trovò le parole giuste per ribattere e Nakamura ne approfittò.
«Oh, dimenticavo…», lo avvertì.
Prese da un cassetto della sua scrivania un pezzo di carta. Nella parte superiore era ancora attaccato dello scotch.
«L’ho trovato sopra uno specchio», illustrò prima che il collega glielo potesse domandare.
«Guarda cosa c’è scritto», intimò mostrandoglielo.
 
-Se non vi arrenderete, la prossima volta toccherà ad uno di voi-.
Erano le stesse parola che Kurapika aveva letto nel loro specchio.
Notò addirittura una firma non molto leggibile.
Presunse che ci fosse scritto “Associazione NSSK”.
 
Non riuscì a parlare. Sentiva che il panico si era impossessato del suo cuore come una pianta che metteva radici.
 
«Mi sembra una buona informazione», soggiunse Nakamura, «Condividi?».
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
«È inutile, non vi rivelerò mai niente. Uccidetemi, piuttosto!».
 
Benché Basho e gli altri stavano infliggendo minacce e maltrattamenti, Takahiro non accennava a nessuna questione importante che volessero sapere.
Era disposto a farsi ammazzare senza il minimo timore.
 
 
Dopo un po’ li raggiunse Kurapika. Aveva corso così tanto da essere arrivato con il fiatone.
Il moro gli venne incontro.
«Non sputa sentenze!», ammise.
L’altro scrutò in faccia il responsabile dell’omicidio con disprezzo.
«Non conosco quel pezzente», confessò.
«Devi dirci però cosa dobbiamo fare!», lo avvisò il collega.
«Perché proprio io?».
«Sei il braccio destro di Light, perciò dare gli ordini è compito tuo», spiegò.
 
Il Kuruta non replicò ulteriormente. Sentiva un’enorme responsabilità sulle spalle e i suoi battiti cardiaci si affaticavano ad essere meno agitati.
Cominciò a dirigersi verso l’uomo. Le altre due guardie non smettevano di prenderlo a pugni, ma la cosa stava risultando futile e quasi ridicola.
«Basta», ordinò con risolutezza.
Gli interessati si scansarono appena il giovane gli fu vicino.
 
Non poté fare a meno di riflettere sulla situazione.
Il temperamento di quell’individuo gli ricordava il giorno in cui aveva catturato Kuroro.
Non importava quanto l’avesse malmenato; quel sorriso spietato non si spegneva nel suo odioso viso ed era riuscito a farlo cadere nel torto dall’altro punto di vista.
 
«Ti consiglio di parlare, altrimenti te la dovrai vedere con il nostro capo», cominciò a dire.
Takahiro non osò incontrare il suo sguardo.
«Prima di tutto dimmi se sei veramente colui che ha architettato il furto».
Non ottenne una risposta.
«Qual è il tuo nome?», gli chiese dunque.
L’altro fece una breve risata.
«Sono tuo padre…», rispose senza abbandonare quel ghigno.
 
Le mani di Kurapika prudevano dalla rabbia.
Avrebbe voluto tanto adoperare la sua fedele catena del giudizio su di lui, ma correva il rischio di perire all’istante e non ne valeva la pena per uno sconsiderato.
 
Che senso aveva fargli domande? Suppose che gli altri ne avessero già formulate a sufficienza.
Si avvicinò all’uomo e gli confiscò la pistola.
«Questa la prendo io», concluse.
Poi si rivolse ai compagni.
«Lo porteremo vivo dal nostro capo; sarà lui a decidere tutto. Nella sala delle simulazioni sono presenti degli strumenti di tortura: dovremmo riuscire a farlo parlare con quelli», li informò.
«E dopo lo lasceremo andare?», domandò Taro.
«… Si è messo certamente nei guai», fu la replica del Kuruta.
 
Iniziarono ad incamminarsi verso l’auto di Basho.
Non c’era bisogno di tenere il nemico così saldamente, dato che pareva godersi la scena.
 
Riconobbe che il ragazzo biondo era il bersaglio principale di Nakamura e non indugiò a stuzzicarlo.
«Fai l’impavido quando in realtà te la fai sotto per una piccola illusione».
 
L’hunter spalancò gli occhi e si girò di scatto verso il più grande.
Vedendo quel viso così stupito, gli sfuggì un’altra risata liberatoria.
 
«Allora hai fatto parte del complotto!», esclamò cercando di trattenere le sue emozioni.
«Certo, lo confesso. Ho visto tutto quello che hai combinato».
 
Che piacere rinfacciare le cose!
Sarebbero state probabilmente le ultime frasi che avrebbe detto, perciò dovevano fare la loro bella figura.
 
«Le catene che usi sono bellissime», proseguì.
Kurapika rimase spiazzato.
«Chi hai seppellito a York Shin?», continuò ancora.
Non poteva essere.
«E perché sei così arrabbiato verso un certo Kuroro?».
No…
 
Come faceva ad essere entrato in possesso di quei segreti?
Ciò voleva dire che… anche altri mafiosi ne erano a conoscenza.
 
Era l’ennesima persona che gli aveva fatto una predica quel giorno.
E come mai riguardava sempre e solo quella maledetta illusione?
Non riusciva a togliersela dalla testa. Qualcosa lo stava perseguitando; poteva essere un malocchio.
La cosa certa era che non sarebbe riuscito a resistere mentalmente ancora per molto.
 
Un pensiero lo colse all’improvviso.
E se avesse rivelato quelle faccende al capo? Era l’ultima persona che doveva sapere delle questioni che lo avrebbero messo in cattiva luce.
Sarebbe stato sospettato, ricercato, cacciato…
Tutto per colpa di un dannato potere Nen.
 
La sua mano si mosse automaticamente: non aveva altra disperata scelta che puntargli l’arma.
«Dimmi immediatamente come hai ricavato questi ragguagli… o sarà peggio per te», lo intimidì.
«Kurapika, che stai facendo? Lascialo perdere!», sbottò Basho.
«SILENZIO!», urlò il biondo, «Avanti, parla!».
 
«È vero», iniziò a dire l’altro, «Tu sei debole e terribilmente psicolabile. Mi fai pena».
Piantò gli occhi sul viso del ragazzo.
«Non ti dirò assolutamente niente. Affoga nel tuo tormento e lascia che i tuoi amichetti festeggino sul mio cadavere. La tua vera natura sta per essere scoperta e correrai così tanti pericoli che sarà impossibile contarli sulle dita di una mano».
 
L’indice del Kuruta avvolse istintivamente il grilletto.
 
«Farai la stessa fine disonorevole di fronte a coloro che ti hanno voluto bene… TU MORIRAI!».
 
Partì un assordante colpo di pistola.
La pallottola lanciata penetrò il petto di Takahiro fino a colpire il cuore.
Dopo aver vomitato una grande quantità di sangue, l’uomo spirò.
 
Mitsuo e Taro lasciarono cadere a terra il suo corpo.
Tutti erano rimasti agghiacciati di fronte a ciò che aveva fatto il giovane, il quale stava osservando il cadavere con una fierezza che discordava con la gravità della circostanza.
 
«Perché? PERCHÉ?», gridò il bruno.
Avrebbero dovuto ricominciare le investigazioni.
 
 
«KURAPIKA!», urlò inaspettatamente una persona.
Dall’angolo della via era apparso un Leorio più morto che vivo.
Il suo pallore era ben definito nella penombra del luogo e faceva fatica a respirare.
 
«Che ci fai tu qui?!», scoppiò Basho.
Ebbe il sospetto che avesse spiato l’amico per tutto quel tempo.
Si era trasformato in un testimone dell’assassinio impiegato dal biondo.
 
Il Kuruta non parlò.
 
«Kurapika… sei stato tu?».
Non riusciva a crederci.
Il suo migliore amico aveva ucciso ancora una volta una persona, macchiandosi di quel peccato.
 
Il suo fare lunatico lo disgustava. Era talmente ottuso da non voler fare affidamento sui suoi colleghi.
Uccidere era la sua precedenza… proprio come era successo con Ubo.
 
Chi aveva davanti? Un ragazzo accecato dalla vendetta… o un criminale complessato?
 
«Sei sempre in mezzo», esplose il giovane mafioso.
Nella sua voce si poteva udire una punta di esasperazione.
«Ti avevo detto di restare dov’eri… Sei così idiota e ficcanaso da esserti  messo in questa disgrazia per causa mia».
Strinse la pistola fra le mani e le sue spalle cominciarono a tremare.
«Sono stanco di essere reputato un instabile, di essere calpestato da persone impiccione, di essere privato della mia autorevolezza».
Voltò la testa verso quella di Leorio.
«Non mi lasci altra decisione».
Puntò il dito verso il cadavere.
«Noi ce ne andremo… e tu non saprai niente di ciò che è stato compiuto», disse mentre Basho si stava caricando controvoglia sulle spalle il defunto.
 
«Ti avverto. Se oserai riferire alla polizia o a chiunque altro delle delucidazioni sulla mia persona e se io lo dovessi venire a sapere…».
 
Una goccia di sudore colò sul collo del moro.
 
«… la prossima volta che ti vedrò… ti ammazzerò senza pietà».
 
 
 
 
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Sakka no kakudo (angolo dell’autrice):
 
Cari amici telespettatori(?), eccomi qua! ^^
Ho faticato tanto per trovare uno straccio di tempo libero: sono arrivata a dover scrivere anche dopo le undici di sera.
Di questo passo morirò per overdose di caffè e Moment! O.O
Come al solito mi scuso con voi se questo capitolo vi è risultato banale… Ripeto però che ho controllato infinite volte la sua struttura sintattica e grammaticale!
Sono così logorroica perché c’erano degli errori anche la dodicesima volta che gli ho dato uno sguardo -.-‘’…
Comunque sono riuscita ad aggiornare due volte questo mese! Cercherò di mantenere il ritmo, ma potrei crollare o avere mille impegni. Non vi assicuro niente.
Sarete ovviamente informati se ciò dovesse accadere!
Ah, ricordate quando vi ho detto che codesto capitolo sarebbe risultato più corto?
Dimenticatelo! xD Non ricordo se ho superato le cinquanta pagine di Word… Più di così non potevo accorciarlo!
Procediamo con le precisazioni.
Diciamo che tutto ruota attorno al rapporto di amicizia fra Kurapika e Leorio e la sciagura che è capitata ai Nostrade.
Voi direte che i segreti del Kuruta sono ormai scontati, ma… per un’informazione errata si possono modificare molte cose (e qui chiudo la bocca xD)! Attenti a Shijo…
Mi sono divertita un sacco a disegnare la scena di Leorio che mi ha chiesto Hiroto! Sono morta dalle risate! :D
Ho pensato ad un momento buffo. Siccome è l’aiutante di un pediatra… perché non inserire delle situazioni imbarazzanti con un paziente?
Ho fatto un sacco di ricerche tipo: “malattie dei bambini” oppure “nome dell’oggetto che serve per auscultare”. Sono una frana in medicina! ^^’
Devo ammettere che il dialogo con Yuichi mi è servito molto per far ragionare Leorio. All’inizio volevo che vertesse sulla comicità, poi si è rivelato indispensabile per il proseguimento. Grazie mille, Hiroto!
Passiamo alla scena chiesta da Faith.
Alloooora… spero che ti sa piaciuta. Il flashback è stato cruento e ho cercato di utilizzare termini non molto volgari: ho avuto l’istinto di alzare il rating! xD
Non vi aspettavate un Kurapika capace di tanta violenza, vero? Guardate che l’alcol è una brutta bestia…
Per il resto non serve che aggiunga qualcosa: tutto è specificato nel capitolo e vedrò i vostri commenti.
C’è solo una cosa che vorrei chiarire.
I personaggi di HxH soffrono di una rara patologia(xD) chiamata “ooc dentro l’ic”.
Senritsu potrebbe sembrare una ragazza troppo emotiva ed opprimente, ma risente della situazione che sta vivendo.
Anch’io piangerei e mi scoraggerei per un amico che ha preso una cattiva strada; rimarrei turbata se mi succedessero questi fatti e non uscirei di casa se avessi quell’aspetto.
Ha già cominciato ad acquistare coraggio; infatti ha raccontato la sua esperienza al capo.
Fra qualche capitolo tornerete a riconoscerla! ;)
Adesso Kurapika…
Lui ha un carattere pesantemente influenzato dall’ambiente malvagio! Non è stravolto; ho cercato di immaginarmelo in relazione a quegli avvenimenti.
Sarebbe impossibile restare freddi ed indifferenti… Sfiderei il vero Kurapika a non impazzire! xD
Intanto, però, è un tipo che cambia idea molto facilmente e ha pure commesso un omicidio… Leorio ha visto tutto!
Cosa succederà?
Vorrei dirvi tante cose… ma passiamo ai ringraziamenti.
 
Dedico questo capitolo alla gentilissima Faith Yoite, la quale ha realizzato quel grandioso disegno di Shijo! ♥
Non dovevi disturbarti… Se non aiuti Togashi a disegnare, mi offendo! Sei bravissima!
Un grazie speciale va anche a:
Chichi Zaoldyeck
Crazyforever
FireFist23
Hiroto49
Kuraro
Lillochan
M_Kurachan
Queen of the Night
Raine93
I lettori anonimi ♥
 
Commentate in tanti e fatemi sapere! :3
Non siate timidi…
Kura:- Ha parlato quella che desiderava girare con un secchio in testa quand’era piccola -.
Dettagli! >.< *lo sbatte fuori dalla stanza*

 
 
 
 
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Nel prossimo capitolo:
 
«La prossima volta toccherà ad uno di voi».
 
«Il passo seguente consisterà… in un rapimento».
 
«Sei pronto a firmare il nostro contratto?».
 
«Si è venduto al nemico come uno stolto!».
«Come ti permetti?».
 
«Mi hanno offerto un secondo biglietto. Ti dispiacerebbe… accompagnarmi?».
 
«Grazie a quel campo di Nen, assopirò il suo Hatsu e mi risulterà più facile rubarglielo».
 
«Una deformazione corporale?».
 
«Colpito e affondato».
«KURAPIKA!».
 
 
 
 
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Al prossimo mese,
Scarlet Phantomhive.
 

 
  
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