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Autore: past_zonk    29/09/2013    2 recensioni
E, anche se in questo momento non riesci a ricostruire il tutto, non riesci a ricordare come ti sei ritrovato lì, in quel bunker, con un corpo freddo e pesante sulle ginocchia e le tue nocche bianche dallo sforzo di stringere la collottola della sua camicia, anche se non ti sembra possibile, e ti sembra tutto surreale, c’è un perché.
E c’è una storia dietro. E sarebbe oltraggioso non ricordarla, non ripercorrerla passo dopo passo. Sarebbe dimenticare, e se c’è qualcosa che hai imparato, è che dimenticare vuol dire scostarsi da quella persona, eliminarne il ricordo. E tu non vuoi eliminare il ricordo di Jiyong, non vuoi dimenticare quanto sia stato coraggioso, non vuoi che questa guerra finisca, le ferite del paese si rimarginino, e nessuno sappia del coraggioso Jiyong, di come ora sia freddo e pesante sulle tue ginocchia.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: G-Dragon, T.O.P., Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Capitolo terzo.



 

Dal diario di Choi Seunghyun.

 

Ti dicono che la prima notte non riesci mai a dormire. Ti dicono che tremi dalla paura e piangi pensando a casa. Dicono anche che, una volta superata la prima notte, il resto viene da sé. E’ come un traguardo, rendersi veramente conto delle circostanze, piangere, e superare tutto.
Dicono tante cazzate, qui.
La verità è che nessuno tra noi ha mai vissuto una guerra.

E’ la terza notte, qui, e non ho ancora chiuso occhio. Guardo gli altri dormire, osservo i loro volti, penso, scrivo.
Ho barattato uno dei miei anelli per questo taccuino verde scuro.

Ieri ci hanno tagliato i capelli, ci hanno fatto strisciare nel fango, ci hanno messo per la prima volta un’arma in mano.Pesava più di quelle che usavo sul set.
Ci hanno detto che fra un mese partiremo per il confine. Io l’ho già visto, visitato, durante le riprese di 71:Into the fire.

Ogni tanto mi viene da ridere ripensando a quel film.
Il confine è filo spinato infinito, nient’altro. Non c’è niente di poetico nascosto da quelle parti, niente di filosofico. Un filo spinato e torrette di controllo che dividono un mondo da un altro. Non un punto di contatto, non una similitudine.Non mi stupisce questa guerra, mi stupisce farne parte. Mi stupisce che fra un mese partiremo verso un confine che non significa praticamente nulla, pronti a conquistare una parte di mondo che non ci appartiene, pronti a regalare sangue ad un nemico che non desidera altro.
Spero solo di non dover partecipare a degli assedi. Spero di dover combattere solo soldati, solo giovani disposti a scambiare la loro vita per la mia. Non potrei mai uccidere una donna o un bambino: le loro vite non valgono poco quanto ormai quella che mi appartiene.
La Luna si sta oscurando, non c’è luce sotto questo tetto di metallo freddo.

 

Alle sei e un quarto del secondo giorno  erano tutti pronti nel campo di addestramento, allineati sotto le sferzate di vento violente, tutti stretti alle loro divise pesanti.
Il cielo era ancora pallido, l’albero viola di cui aveva parlato Jiyong la notte precedente, prima di addormentarsi, si vedeva in lontananza.
Quando Youngbae aveva visto Seungri e Seunghyun, aveva quasi pianto di sollievo. Erano seduti insieme a Jiyong, con le schiene contro la corteccia di quell’albero strano. Daesung aveva urlato qualcosa e poi era corso; lui, invece aveva osservato la scena da lontano, prima che Seungri scuotesse la sua mano al vento facendogli cenno di avvicinarsi. Il cuore gli stava per scoppiare.

“Hyung”
Youngbae non sapeva perché...non voleva chiederselo...solo che…
“Hyung!” Daesung gli stava bisbigliando qualcosa, ritto accanto a lui nel campo d’addestramento.
“Hm?”
“Fai attenzione, hyung. Se qualcosa ci sfugge dovrai spiegarcelo”

Youngbae sbuffò. Sembrava di essere a scuola.
“Sarete divisi in diversi gruppi, detti divisioni. Faremo dei test fisici, mentali, e poi dei colloqui, per gruppi ovviamente. Non possiamo metterci qui e fare una chiacchierata davanti ad una tazza di tè, figuriamoci”
Il comandante, Shin Sunwoo, era un uomo basso, sulla cinquantina. Camminava avanti e indietro con aria annoiata e fredda; il suo volto ricordava quello di un carlino: il naso era schiacciato, gli occhi piccoli e stretti, le orecchie quasi attaccate al cranio, i capelli neri acconciati in un taglio ordinario. A Youngbae piacevano i carlini, ma quell’uomo non gli ispirava niente di cordiale. Pensò fosse positivo. Se fosse stato rassicurante li avrebbe illusi rispetto al mondo che li aspettava fuori.
Notando che nessuno aveva riso al suo tentativo di battuta, il comandante proseguì.
“Fanteria. Artiglieria. Genio. Trasporti. Trasmissioni. Aviazione. Sanità. Queste sono le divisioni del nostro esercito. Formeremo delle squadre; entro una settimana saprete precisamente a quale divisione appartenete. Naturalmente, per la divisione medica sono già state schedate fra voi le persone con professioni affini, come medici o infermieri”
“Hyung, ci sono anche delle ragazze nella divisione infermieristica?”

“Non lo so, Daesung”
“Oh, adoro le crocirossine”

Youngbae sbuffò.
“Coloro che fra voi proveranno di avere spiccate qualità fisiche e nel combattimento, saranno ovviamente smistati nella divisione di fanteria, i combattenti delle prime linee, l’esercito vero e proprio. Per i lavori materiali, come costruzione e demolizione istantanea di ponti, ci sarà  la divisione chiama Genio. Così via, ovviamente, per l’artiglieria e l’aviazione. Il nostro dovrà essere un esercito intelligente, come ha ricordato ieri nel suo discorso d’apertura alla guerra, il nostro presidente, l’eccellentissima Park Geun-hye. Un esercito che si basa sulle qualità del singolo, e non sul mero ammasso di vite umane”
L’espressione usata dal comandante Sunwoo diede la nausea a Youngbae. Non erano lo stesso un ammasso di vite umane, anche se divisi per esperienza e qualità? Non avevano forse tutti lo stesso - o quasi - destino?
Osservò i suoi compagni.
C’era Top, con il colletto della felpa militare tirato fino al mento, che guardava il terreno e pareva non star ascoltando neanche una parola di quel discorso di benvenuto tanto poco caldo.
Jiyong annuiva alle parole del comandante, invece, come se si illudesse di contare qualcosa. Aveva lo sguardo di chi voleva fortemente credere a qualcosa. Lo sguardo di chi crede all’acqua nel deserto, o al calore fra i ghiacciai.
Ma ciò che più di tutto ferì Youngbae, che prima d’allora non aveva posato neanche uno sguardo sul più piccolo, era proprio la sua espressione. Seungri...piangeva.
No, anzi, non piangeva. Aveva gli occhi tremendamente spalancati, come se cercasse di evitare che le lacrime scendessero.  Forse era il vento.

D’un tratto nella sua mente risuonò il motivetto di una malinconica Life on Mars, di David Bowie: mentre le note del pianoforte si rincorrevano, le lacrime negli occhi di Seungri facevano lo stesso.
Il ritornello era decisamente troppo speranzoso, un tripudio di scale rivolte fino al cielo, una speranza che Youngbae ormai odiava e disprezzava.
Aveva voglia di abbracciarlo. Aveva
sempre voglia di abbracciarlo, e rimpiangeva di non averlo fatto di più nel passato. Ora non poteva semplicemente staccare le file per stringerlo.
Era quello che feriva Youngbae più di ogni altra cosa.
Il comandante smise di camminare, d’un tratto. Osservò i volti di tutti quei ragazzi, chiuse gli occhi, concedendosi per pochi secondi un’espressione stanca, solo per riaprirli dopo poco, una maschera di serietà sul suo volto.
“Non vi chiedo di combattere per il vostro paese. E’ un concetto assurdo” disse, contro ogni pronostico, “Vi chiedo di combattere per qualcosa di più caro. Guardate dentro voi stessi e trovate un motivo per cui combattere. Anche solo uno. Tenetelo stretto a voi nei momenti in cui vi sentirete persi, perché ce ne saranno, di momenti del genere, e vi posso giurare che non vi sentirete mai così persi in tutta la vostra vita. Prendete l’immagine della vostra isola di pace, e scolpitela nella vostra mente” Il comandante scrutò le loro facce, leggendo mille sensazioni, paure. L’aria si fece più fredda, mentre quell’uomo dalla faccia di un carlino, si inchinò davanti alla schiera di quelli che ormai erano soldati.
“Grazie,” disse.

Poi sparì.

 

Erano in fila per una corsa ad ostacoli. La gente bisbigliava alle spalle di Jiyong. E’ lui, dicevano, è G-dragon.
Quel nome gli fece una strana impressione. Era davvero ancora il dragone di una volta? Con le ali tarpate, un dragone è ancora così magnificente?
Steso nel fango mentre striscia sotto un ostacolo, lo è ancora?
Jiyong ridacchiò mentalmente.
C’era chi ci avrebbe giurato, chi avrebbe scommesso tutta la sua vita, un tempo, su di lui; chi credeva davvero che fosse un dragone, e chi invece strizzava gli occhi e pensava che non avrebbe mai fatto strada. Invece ne aveva battuta, di strada, Jiyong, anche se ora gli sembrava tutto molto lontano e inutile. Ora l’unica strada che guardava era quella tempestata di tronchi da saltare e corde su cui arrampicarsi, e l’unico sottofondo a tutto questo era il suo respiro pesante, il rumore delle costole che si stringevano attorno ai polmoni, e i capelli castani che s’alzavano fieri al vento.
Le mani bruciavano mentre, senza arrendersi neanche per un istante, le sfregava contro la corda ruvida, issando tutto il suo peso inesistente verso il cielo grigio.

E’ lui?
Chissà.
E’ G-dragon?
Forse.
E c’era chi mormorava che non sarebbe durato un giorno, sul campo di battaglia, solo per sentirsi più forte; c’era chi calpestava la sua voglia di vivere, perché dopotutto lui non aveva lavorato un giorno della sua vita, e che ne sapevano, loro, degli inverni passati a Seoul a fumare in una strada buia, sognando di emergere, di volare, di diventare un dragone. Che ne sapevano, di quel freddo tanto simile a quello che sentiva ora.
Si continuava a ripetere di dover raggiungere il cielo, mentre le mani si facevano rosse e gli occhi pure.
Lo ripeté un’ultima volta, mentre un uomo grigio alla fine del percorso urlò Stop e fermò un cronometro.
Quando discese, il cielo era un pochino più lontano di quanto lo fosse prima.

 

Quella sera dissero loro di tagliare i capelli.  Mentre fuori la prima pioggia autunnale infuriava, mentre qualcuno ai limiti dello stanzone fumava una sigaretta, lo annunciarono con un megafono.
“Usate questi oggetti, ce ne sono per tutti.”

Choi Seunghyun prese la macchinetta tra le mani e fece una passata veloce, portandosi subito dopo una mano sul mento per osservarsi allo specchio.
Non gli importava più di tanto.

Si riconosceva ancora in quegli occhi scuri e taglienti che si ritrovava da sempre. Sua madre gli carezzava le tempie, da bambino, e gli diceva: ‘piccolo mio, tu hai gli occhi di un principe tigre, e un giorno questi occhi ti salveranno’, proprio come in una vecchia favola tradizionale. Seunghyun non sapeva se quegli occhi l’avrebbero salvato.
Più di una volta, in più di un’occasione, erano stati loro, però, a riportarlo verso se stesso. Fissarsi allo specchio era abbastanza per ricordare chi era.
Sono Seunghyun, non devo fare questo se non voglio.
Sono Seunghyun, non devo evitare di fare questo se mi dicono che non posso.
E si ripeteva questa nenia per ogni questione della sua vita. Lui era Seunghyun, ed ora aveva i capelli sulla punta delle scarpe lucide, i capelli neri del suo colore naturale, in quella stanza dal pavimento ormai corvino. Moquette naturale e fumo che turbinava fino al paradiso di alluminio che era il tetto.
Affianco a lui, nella luce bianca e asettica del neon, era seduto Jiyong, e guardava verso il basso.
“Non ho davvero voglia di tagliarli, sai” disse, come se si trattasse dell’ennesima scelta promozionale. Jiyong sapeva rendere tutto così normale, a confronto con se stesso.
“Non farlo, proviamo a vedere che succede” rispose lui, col tono basso delle sue corde vocali.
Jiyong sbuffò, per poi sedersi sulla sedia dalla quale s’era alzato lui. Lo guardò attraverso lo specchio sporco di polvere e ingiallito, e gli alzò un sopracciglio. “Mi taglieresti i capelli, cowboy?”
“Che tono gay...”

“Cercavo di essere pulp, sai. Non posso affrontare la guerra senza un po’ di stile, non avrei storie metropolitane da raccontare dopo. Vorrei...vorrei qualcosa sulla scia di Sergio Leone, sai, l’italiano. Quei film erano davvero virili.”
“Assurdo.” Seunghyun si morse la lingua, cercando di non fargli notare che probabilmente non ci sarebbe stato nessun ‘dopo’ in cui raccontare. Anche se, dopotutto, non era davvero così pessimista. Per come la vedeva, Jiyong era totalmente capace di sopravvivere a quella guerra; non c’era niente che non potesse affrontare, e, leggero com’era, se ne sarebbe tornato nell’atmosfera.

“Dovresti iniziare a fumare. Seriamente.” disse Seunghyun. “Quello fa molto pulp.”
Si avvicinò alle spalle minute del ragazzo e, mordendosi un labbro, portò la macchinetta vicino ai suoi lunghi capelli castani. Erano raccolti in una piccola coda. Jiyong li sciolse. Erano decisamente troppo lunghi.
Posò la macchinetta sullo specchio. Prese le forbici che un ragazzo lì affianco aveva usato pochi minuti prima.

Si avvicinò all’orecchio del ragazzo. “Sei pronto?”
Jiyong annuì, come se niente lo turbasse. Strano. Sempre più strano.
Eppure era così vanitoso. Forse era semplicemente cresciuto.

Un paio di tagli violenti fecero schiantare al suolo spesse ciocche di capelli. L’espressione di Kwon Jiyong era totalmente piatta.
Un momento prima poteva commuoversi parlando del suo albero di Jacaranda, uno dopo non muovere ciglio mentre veniva brutalmente ridimensionato al livello di tutti gli altri. Tagliarsi i capelli era stato umiliante persino per Seunghyun; mai prima d’ora s’era sentito così piccolo, un numero di una cifra in un esercito che ne contava molte di più, un esercito di uomini tutti identici.

Perché cazzo non gli faceva provare niente?
Seunghyun tagliò e tagliò, finché il volto di Jiyong non si fece un po’ più simile al suo. Capelli radi, castani, che rendevano, con la propria assenza, il suo pallore ancora più evidente. Eppure il suo volto era calmo come un cielo estivo. Come se avesse trovato, in qualche parte dentro di sé, un sollievo particolare, una pace che dava tutti i sentori di essere fragile seppur forte; Seunghyun sapeva non sarebbe durata molto.
Con la coda dell’occhio vide Seungri guardarsi allo specchio con aria stranita, come se non si trovasse; non sapeva se la questione degli occhi fosse valida anche per lui. Youngbae gli sorrideva, invece, facendo battute su se stesso, e indicando quella testa nera e rada che si ritrovava. I suoi occhi, mezzelune strizzate, erano ancora più stretti, quasi troppo, come se quelle risate non riuscissero ad arrivare completamente fino a quegli specchi scuri.

Sorridere con gli occhi è tutta un’altra faccenda.
Daesung non pareva sconvolto; forse semplicemente non valutava, come lui, tutta l’intera questione sociologica dietro quell’atto. O forse ancora non dava tutta quell’importanza a dei semplici capelli. Seunghyun pensò fosse il più saggio, perché - sul serio - dopotutto, erano solo capelli.
Capelli, e un po’ di se stessi.

 

Ti dicono che la prima notte non riesci mai a dormire.  Però poi dopo ti ci abitui, dicono, la smetti di rimuginare, dicono.
E’ la quarta notte, qui, e non ho ancora chiuso occhio.

Scrivere non è possibile, oggi hanno staccato le luci più presto del previsto, e la Luna non pare voler far capolino dalla mia finestra. Così me ne sto sulla mia brandina, e penso. Non capisco il senso di aver tagliato i capelli; ogni spiffero d’aria mi coglie impreparato, e in qualche modo sento più freddo.
Non è neanche tanto pratico, far dormire i propri soldati in un capannone col tetto di alluminio; il gelo qui dentro ti entra fin dentro i pensieri.

A pochi letti dal mio, giace Jiyong. Ha un braccio sullo stomaco e l’altro poggiato sul materasso. Guarda il soffitto. Mi chiedo a cosa stia pensando.
Nel buio illuminato da una candela alla fine del corridoio, il suo profilo spoglio lo rende quasi una persona come le altre, alla vista. Nessuno sospetterebbe del dragone che nasconde dentro, della belva pronta a svegliarsi su un palco, della sua voce e i suoi sguardi, del suo saperci fare in ogni situazione e con ogni genere di persona, del suo essere inevitabilmente giusto.

Ora Jiyong strizza forte gli occhi e fa un sospiro. Sa di non poter farsi sentire mentre si copre la testa con il lenzuolo e comincia a tremare.
E’ il momento che sto aspettando da ore.
Jiyong si raggomitola come un bambino in grembo alla madre e afferra il cuscino tra le mani, spingendo la testa contro il tessuto bianco sporco. Probabilmente mordendo la stoffa.
Ecco la scena che bramavo, che aspettavo fedelmente, ecco finalmente il bellissimo e drammatico crollo: il dragone atterra sul terreno scuro, ripiega le ali contro se stesso e le stringe al suo corpo di squame; non ha più fuoco nella gola, né le sue urla fanno tremare il mondo. Il dragone diventa improvvisamente un silenzioso serpente, la pelle viscida di lacrime, la gola secca di sospiri.
E’ ora che mi alzo e mi avvicino silenziosamente al suo giaciglio. Guardo prima verso destra e poi verso sinistra, come se stessi per attraversare la strada, e poi poggio le ginocchia contro il materasso di Jiyong.
In un secondo il dragone smette di tremare, si immobilizza, come morto, facendomi pensare a quanto possa essere utile sul campo di battaglia questa tattica. Poi muove un braccio per spostare il lenzuolo, e si volta a guardarmi. Gli occhi sono una pozza sporca. Le pupille affogano in un bianco macchiato di rosso, di piccole venuzze invisibili, capillari ribelli.

Lo sguardo è quello duro dell’uomo che non è; poi, quando si rende conto che sono io, sono Seunghyun, sono qui per lui, lascia trasparire di nuovo tutta la sua paura. Strizza gli occhi, respira pesantemente e mormora qualcosa come “non riesco a respirare.”
In un attimo sono con lui sotto il lenzuolo, lo stringo al mio petto, e gli mormoro di dormire. Gli carezzo la testa nuda, lo sento aggrapparsi al mio fianco con le unghie, sento l’odore del sangue e capisco che proviene dal labbro inferiore che si sta mordendo insistentemente. E mi chiedo, dov’è Jiyong? Dove sono io?
Perché?
Mi chiedo così tante cose che, quando il piccolo uomo tra le mie braccia è ormai assopito, non mi resta che poggiare il mento sulla sua nuca, e lasciarmi andare insieme a lui.












 

   
 
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