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Autore: okioki    07/10/2013    1 recensioni
A San Pietroburgo, da dove vengo io, quando incomincia a nevicare la temperatura cala drasticamente a trenta gradi sotto zero, e a quella temperatura tutti i batteri muoiono: nemmeno i perfidi Psicrofili possono resistere..
Genere: Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Dal discorso di mia madre rimasi turbato per molto tempo, aveva risvegliato in me con le sue poche parole delle memorie che nemmeno credevo di possedere, e questa mia inquietudine si presentava sempre quando pensavo a Maša. Era come se della mia vita prima d'incontrarla non ricordassi molto o niente. Ogni momento passato con lei era prezioso, eppure a quel tempo io non me ne accorgevo: solo ora, guadando le bufere di neve, mi rendo conto di quanto io abbia dato per scontata la sua presenza. Con mio sommo dispiacere di lei compresi molto poco e in certe situazione le fui perfino avverso, con delle pretese che non avevo nessun diritto d'avanzare. In un certo senso, per non addossarla a mia madre, davo la colpa del mio malessere a lei, pensavo che se non si fosse comportata in quella strana maniera mi sarebbe stato più facile avvicinarla e esserlo amico. Ma sbagliavo, pretendevo più di quanto potesse darmi e per questo sbagliavo orribilmente. Non mi ero accorta delle sue debolezze: fino a quando non la persi vedevo in lei solo una ragazza solitaria e dal passato pieno di paradossi. Avrei dovuto considerare che il solo fatto che si muovesse tra noi era un miracolo, lei, che non s'appoggiava da nessuna parte se non aveva indosso i guanti in lattice e invece nell'ultimo periodo fui molto meno indulgente con Masa. La tensione tra di noi era al massimo in quei giorni, non c'era momento in cui non avrei desiderato scoprire la sua pelle al tatto, lei che mi sembrava una creatura così irraggiungibile, e il starle relativamente vicino senza averne il permesso provocava in me tremiti d'inquietudine. Sia mia madre che Pavel non potevano capire quanta attrattiva potesse avere per me un giorno passato con Maša. Nella sua stranezza, nel suo non essere “civile”, nelle sue fisime e i suoi comportamenti aveva il potere di affascinarmi come non mai. Era fredda, è vero, ma allo stesso tempo un essere molto delicato. La sua più grande paura, lo capii in seguito, era quello di sviluppare strane infezioni al seguito del contatto con altre persone; era questo che l'aveva costretta ad una vita solitaria con la sua vecchia madre adottiva Nadjeda e limitava le sue uscita da casa nei giorni di neve. Sono arrivato a questa conclusione dopo l'Occidente, ma se solo mi fossi curato un poco più di lei quando ci stavo insieme, l'avrei capito molto prima. Non sopportava di venire toccata, impazziva all'evenienza potesse accadere, e non poteva nemmeno concepire una relazione con un approccio fisico. Esserle amico era molto difficile, nevicava raramente in quel periodo, quindi ogni volta che scendevano queste rare nevicate passavo il mio tempo con Maša, eludendo le promesse fatte a mia madre e a Pavel. Un giorno mentre la neve cadeva soffice tra di noi, non so come, ma presi il coraggio e le chiesi di girare con me in città: forse come a lei, anche a me le giornate di neve davano forza. Lei mi guardò, lievemente perplessa, e allora fui certo che avrebbe rifiutato.
«Dopo la prossima volta» disse invece, una promessa.
Annuì felice e sollevato: fu l’unica volta in cui non mi sentii inadeguato stando con lei. Giocammo con la neve, come eravamo soliti fare da bambini e poi mi invitò a casa sua, e parlammo a lungo degli Psicrofili, i perfidi batteri. Eppure, quella volta in città non arrivò mai perché io rovinai tutto, riversando su di lei le mie insicurezze e fisime. Non la capivo, non la capivo per niente: quando mi si avvicinava più del dovuto leggevo nella sua faccia solo disgusto, mai paura. Eppure era la paura a fondo del suo essere, la paura e la freddezza della sua persona. Ma io non comprendevo. Nell’ultimo periodo ne parlai molto, le chiesi perché non volesse farsi toccare da nessuno, ma ogni mia insistenza era vana, si disinteressava a me e cominciava a strofinarsi i suoi guanti in lattice provocando uno stridio molto fastidioso. Quella volta però, insistetti più del dovuto perché ero veramente piccato, ero egocentrico e non mi curavo del fatto che il problema poteva essere dissociato da me. Lei non fece altro che dire che non era sicuro o appropriato o fattibile, fino a che la sua voce assunse incrinature isteriche e cominciò a strofinarsi le mani su qualunque superficie trovava. E allora non resistetti, il mio orgoglio aveva subito delle ferite che pensavo non rimarginabili. L'aggredii con le parole.


Non lo faccio apposta...


Chiuse gli occhi, cercando di non incontrare il mio sguardo. Le stavo sbandierando le sue più profonde paure. Le radici stesse di quelle paure.
«Sì invece! Sei solo cocciuta: hai deciso che non vuoi essere come tutti gli altri e niente di quel che faccio potrà farti cambiare idea».
Quando lo dissi, mi accorsi di aver cominciato a parlare come mia madre. Dalla sua espressione avrei dovuto capire che la stavo turbando profondamente, invece non lo feci – pensavo solo a me stesso – e me ne andai. Questa fu come una rivelazione per lei, forse capì che non poteva pretendere senza chiedere, senza dare qualcosa in cambio. Voleva che le stessi accanto, ma non voleva che la toccassi. La natura umana ci pone spesso simili dilemmi.


In quel periodo ci fu una grande migrazione dalle altre zone, e venne a trovarci a casa un vecchio amico di mio madre. Lo seppi da Pavel e perché appena fuori casa nostra c'era un prototipo di astronave davvero particolare. Non feci molto caso a questo amico di mia madre, se non per il fatto che si chiamasse come me e per tutto il tempo che rimase avesse dipinta in volto un’espressione dolorosa. Mi era difficile ricordare e in quel momento non pensavo a nessun altro che a Maša. Si sarebbe svolta la nevicata di mezzanotte quel giorno, in città tutto lo sapevano, e io pensavo al nostro incontro precedente. Avrebbe voluto essere ancora mia amica? Mi avrebbe perdonato? Avevo scordato le terribili accuse che le avevo rivolto, e desideravo soltanto rivederla. Non sapevo che per le mie parole era rimasta in una situazione di crisi d’irrompente per più di tre giorni. Mentre stavo per uscire mia madre mi chiamò per presentarmi il suo amico Aleksej. Le assomigliava molto, aveva i capelli dorati e le labbra rosse in contrasto alla carnagione pallida: era tutto ciò che mia madre avrebbe sempre sperato che diventassi io. Lo si poteva capire che era felicissima di averlo accanto dalla gioia che sprizzava, poche volte l’avevo vista così entusiasta.
«Ti piace guidare le astronavi?» mi domandò l’uomo.
«Sì» risposi. Senza sapere il perché, quel Aleksej mi faceva pensare a cose che non avrei voluto.
«Allora è deciso» disse mia madre. «Andrai ad Occidente con lui, nella Lega Intergalattica! Seguirai le orme di tuo padre!»
Rimasi senza parole, le viscere attorcigliate, prima di ringraziare mia madre e Aleksej per l’occasione. Non ebbi nemmeno il coraggio o la forza di replicare, non riuscii mai ad oppormi a mia madre con le parole, alla fine l’unico mio atto di ribellione nei suoi confronti fu essere amico di Maša e di questo non mi pento mai. Da allora non mi ripresi mai più: avevo finalmente cominciato a ricordare.


Quella notte nevicò, come era stato detto. La nevicata di mezzanotte. Mentre mia madre e Pavel intrattenevano il nostro ospite colsi l’occasione per uscire e andare di fronte a casa di Maša. Avevo avuto molte ore per riflettere e forse riusciva finalmente a passarmi per l’anticamera del cervello come si sentisse. Faceva freddo quella notte, la temperatura doveva aver raggiunto un picco simile a quello dell’Ultimo Inverno, tra i cinquanta e i sessanta gradi sottozero… E io stavo lì fuori, ad aspettare che quella ragazzina tutta in tinta bianca, con le sue fisime e ossessioni, uscisse a incontrarsi con me. La mia Maša, la mia cara amica. Aspettai un tempo indeterminato lì fuori al gelo, davvero non so come feci; non ero più debolino e gracile ma ciò non voleva dire che non fossi esposto più degli altri alle malattie. Ma aspettai, per poterla vedere di nuovo. Mentre stavo lì in piedi, tra la neve, mi ricordai dei tre uomini che nella sua particolare infanzia Mar’ja aveva incontrato: il cannibale, il cercatore, lo sciamano. Ognuno di questi aspettava qualcosa, ognuno di questi aveva atteso la sua venuta, e con la consapevolezza di adesso posso dire che ciò di cui in realtà Maša li rese partecipi di qualcosa di davvero stupefacente, anche a me fu riservato lo stesso onore. Poi mentre stavo per chiudere gli occhi, intorpidito, lei apparve abbagliante. Riluceva nella notte, bianca dalla testa ai piedi, i guanti di lattice sulle mani, mi guardò. Portava la mascherina, quindi non potevo vedere se sorrideva o meno, ma sembrava serena, protetta nella sua solita freddezza, come se le orribili parole che le avevo rivolto fossero ormai dimenticate.
«Maša… » cominciai io. Mi ero ripromesso di non accennare nemmeno una parola su quello che era accaduto l’ultima volta che ci eravamo visti, ma eccomi lì che stavo già cercando di scusarmi.
Per fortuna m’interruppe, avrei rischiato di rovinare tutto. «Sai» mi disse, «qui quando nevica la temperatura scende a trenta gradi sottozero, e a quella temperatura tutti i batteri muoiono. Perfino gli Psicrofili…»
Si sedette sulla scalinata di casa sua, mentre in piedi io ancora la guardavo.
«Mi chiedevo perché ci vedessimo solo i giorni di neve…» ribattei. Quella notte ancora me la ricordo, fu aliena, qualcosa di totalmente estraneo alla realtà.
«Oh» fece lei, negli occhi mi sembro di leggerle una sorpresa genuina. «Ma nei giorni di neve è tutto più bello. L'aria si risana, e attorno, la strada diventa ammantata di bianco... come prima della contaminazione» tacque poi, presa dai suoi pensieri.
Anch’io, dal canto mio, quel giorno avevo avuto molto di cui pensare. Finalmente ricordavo. Finalmente guardando quella creatura tutta bianca non mi sentivo inadeguato, pensavo solo al bene che le volevo.
«Maša, tu c’è l’hai un padre?» le chiesi. Non ricordavo che fosse una domanda tabù: lei era comparsa in una giornata di neve, e questo era l’unica cosa che mi era data sapere.
Mi parve di vedere le pupille dei suoi occhi ristringersi, come quelle dei pazzi. Ma poi corrugò soltanto la fronte continuando a guardarmi, non mi rispose, come spesso faceva quando gli si ponevano domande o gli si chiedevano cose a cui lei non voleva pensare.
«Fa freddo» disse invece. «Era da ormai molto tempo che non pativo il freddo.» Si guardò i guanti di lattice.
Prendendo tutto il coraggio che avevo in corpo mi avvicinai alla scalinata, sedendomi dalla parte opposta alla sua. Sentivo il bisogno di confessarlo, di dirle che forse ero vicino a una qualche comprensione. «Il mio è morto quando ero molto piccolo» mi tremava il labbro mentre dicevo queste cose. «E da allora non penso che mi siano accadute molte cose belle… tranne diventarti amico. Non riesco nemmeno a ricordarne il volto. Ricordo solo che c'era tanto sangue, e pezzetti di cervello in giro per la stanza. Mia madre avrebbe voluto evitare che io lo vedessi... era tutto così sporco. Ricordo che pensai che qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa… a mamma non piaceva che la casa fosse così sporca… qualcuno doveva pulire. Presi un secchio d’acqua e cominciai a buttarlo per la stanza» risi, era una risata carica di nervosismo la mia. La testa cominciò a girarmi e lo stomaco mi si contorse così tanto che temetti avrei vomitato. «Un po’ forse riesco a capirti…» le confessai in un soffio. Rimanemmo l’uno accanto all’altra quella notte fredda, a guardare la neve che cadeva. Non ci sfiorammo, nemmeno per sbaglio, ma la sua manina coperta dal guanto di lattice era così vicina alla mia che mi sembrò di stringerle la mano. Erano i nostri cuori che si erano finalmente, solo per un momento, toccati.
La luce del mattino seguente era piuttosto vacua, quasi malinconica, e disegnava nella città semi addormentata un lieve senso di commozione, come mai era successo a San Pietroburgo dopo l'Ultimo Inverno. Sembrava quasi che gli Psicrofili avessero finalmente deciso di andarsene dalla città, smettendo di tormentare l'esistenza della mia Maša. Ci eravamo scambiati una promessa, come al nostro primo incontro, sulle nostre esistenze. Non la salutai, non salutai nessuno quando partii per l'Occidente, fu qualcosa d’improvvisato. Il mio animo era finalmente calmo e avevo smesso di dibattermi in cerca di qualcosa che non avrei mai ottenuto. Andavo al nord con questa convinzione.


Ma ora, ogni tanto mi lascio assalire dal dolore e dall’inquietudine.
Tutto è mutato, Maša non è più qui. È scomparsa un giorno in una bufera di neve. E io ho questa abitudine di guardare dalla finestra durante le tempeste di neve perché ho la speranza che ricompaia e mi punti addosso una scheggia di vetro colorato. Mar'ja Ivanovna, dal braccio esile e le maniere gentili, tu che mi sei comparsa un giorno durante una tempesta di neve, tu che mi hai fieramente offerto le mele che avevi pulito, tu che non avrò mai più il piacere d’incontrare, tu che una volta mi dissi questa splendida bugia:


Se un giorno ti verrà voglia di vedermi, mi troverai in mezzo a qualche bufera di neve

 
Note




Per scrivere questa storia mi sono ispirata principalmente a Il piccolo principe ( soprattutto per il capitolo III), Il Grande Gatsby e i racconti, in particolare Viaggiatori nelle notte, di Banana Yoshimoto. Il nome della protagonista è preso dal racconto di Puškin La figlia del Capitano. Ma è soprattutto, come ripeto, a Il Piccolo Principe che devo la mia ispirazione. Ah, e non dimentichiamo Città delle Illusioni della Le Guin e Berserk. Ho trovato scrivere questa storia particolarmente pesante, e non so perché. Ora che la rileggo mi accorgo che non è poi così tanto angst, ma continuo a trovarla inquietante... In realtà avrei molto altro da dire, ma purtroppo non ne ho il tempo ç.ç, non potevo dare molto spazio ai personaggi secondari, e se dovessi riscriverla ci metterei in mezzo almeno una dozzina di eventi prima di giungere alla fine… Sul periodo finale de III volevo scrivere le note, perché li credo proprio che siano necessarie, ma non volevo interrompere con il mio intervento il ritmo della storia, quindi ciò che ho da dire lo dico qui: Aleksej Schoning dice che chiunque incontrerà Mar’ja Ivanovna riconoscerà il lei quelle caratteristiche, volevo aggiungerci un “...Ma questo non è possibile”, ma credo ( spero) si capisca lo smorzarsi della sua felicità.






Credo che non si possa descrivere lo stupore che provai, un giorno…
Non posso dirlo con certezza, ne mi ricordo molto bene se sia proprio in parole esatte, ma queste dovrebbero essere le parole che usa il pilota quando incontra il piccolo principe.


'Perché non vieni lì, con me, dagli altri? Si è molto soli stando come te…
Si è soli anche con gli altri.'
Prendo a riferimento ciò che si dicono il serpente e il piccolo principe, per quella frase:
"Dove sono gli uomini?" riprese dopo un po’ il piccolo principe. "Si è un po’ soli nel deserto…"
"Si è soli anche con gli uomini", disse il serpente.


Hai deciso che non vuoi essere come tutti gli altri e niente di quel che faccio potrà farti cambiare idea”* Dal racconto Il curioso caso di Benjamin Botton di Fiztgerald.


'Se un giorno ti verrà voglia di vedermi, mi troverai in mezzo a qualche bufera di neve.'*(cap. V)
«Oh, ma io vengo da molto vicino » era molto educata mentre mi rispondeva. «Solo che non esco mai. Solo se guardi attentamente, nelle giornate di neve, forse riusciresti a scorgermi!*» (cap. II)



 

 

  
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