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Autore: Rodelinda    07/04/2008    10 recensioni
"Le storie che voglio raccontare riguardano quelle ragazze che io, proprio perché “normale”, potevo solo osservare.
Carezzare un po’ con gli occhi. Guardare con la fiducia incondizionata di chi affida a qualcosa la propria attenzione.
Perché erano troppo belle, troppo intelligenti, troppo colte, troppo folli. Troppo."
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Mundus intra Mundo - Liceo Scientifico Torquato Tasso' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Sachiko - la geisha
Sachiko - la geisha

Sachiko Castelli altri non era che un connubio bellissimo di oriente e occidente.
Quando varcò per la prima volta l’entrata del Torquato Tasso, alle otto di mattina di quel fatidico quattro febbraio, su tutti i presenti calò un silenzio assordante.
Ricordo che ero lì per puro caso: le medie del Tasso erano nell’edificio vicino e mio fratello mi aveva accompagnato a scuola in motorino.

Sachiko sfilò per la prima volta sotto i nostri sguardi indagatori con una nonchalance impressionante (come se essere giudicata e osservata da seicento persone e rotti per lei fosse all’ordine del giorno); indossava un kimono, sul cui sfondo giallo si rincorrevano farfalle e un dragone verde dagli occhi d’oro, le cui maniche lunghissime le giungevano poco prima delle caviglie, nascondendo le mani e dando l’impressione che il suo corpo esile fosse dotato di due grandi ali.
Le forme erano racchiuse e insieme occultate da un’altissima cintura di pesante raso rosso e blu, detta obi1, che la copriva dall’inguine fino sopra il seno; esso terminava, sul dietro, in una specie di fiocco dalle ampie estremità pendenti, lunghe fino a sfiorare il suolo, che la sbilanciavano all’indietro.
Nonostante il tutto dovesse pesare parecchi chili, ondeggiava in equilibrio precario su di sandali in legno (il cui nome, come scoprii in seguito, era okobo) con una suola di oltre quindici centimetri.
La sua capigliatura nera era un ammasso complicato di onde e volute, perfettamente immobili, dentro cui erano infilati o intrecciati spilloni, pettinini di madreperla e ciondoli carichi di fiori e campanelle.
Ma la cosa più impressionante era il suo viso: volto, collo e spalle erano ricoperti da una sorta di fondotinta bianco che faceva rassomigliare la sua pelle a una maschera di cera, atarattica come la faccia di un morto, mentre le sopracciglia erano accuratamente disegnate col carboncino e le labbra ripassate con una mano di rosso di cartamo a formare un cuore molto più piccolo della bocca.
Unica nota stonata era l’amplissima borsa che portava in mano, che evidentemente conteneva i suoi libri.

Mentre si guardava intorno, ferma sulla soglia, pensai che era lei a valutare noi, più che il contrario.
Ne ebbi conferma quando proseguì, straordinariamente sicura su quei suoi sandali altissimi, a testa alta e senza degnare la folla che le faceva ala del minimo sguardo.
Ondeggiava aggraziata, abituata alle lunghe maniche che la intralciavano, perfettamente in equilibrio sugli okobo, senza che le code del suo obi paressero in alcun modo renderle più difficile l’impresa (perché eravamo certi di impresa si trattasse) non solo di stare in piedi, ma persino di muoversi vestita in quel modo.
In un silenzio carico di elettricità, tirò indietro con un gesto del tutto naturale lo strascico della veste per poggiare un piede sul primo gradino della scalinata che portava al piano superiore.

Arrivata a metà del pianerottolo (con noialtri seicento che la fissavamo, intervallando risatine e bisbiglii), si accorse di qualcosa.
Un elemento di disturbo nella sua entrata altrimenti perfetta.
Infatti, all’inizio della seconda rampa, c’era Cassandra.
Quello fu il loro primo incontro.
Cassa era seduta, tranquillissima, su un gradino, le gambe magre allungate attraverso lo stesso.
Con una calma del tutto innaturale se ne stava lì, alternando un tiro di sigaretta a un sorso di Jameson dalla bottiglia che aveva in mano, dimostrando come suo solito di fregarsi bellamente delle regole scolastiche. Non diede segno di essersi accorta di Sachiko, né si mosse nonostante l’altra stazionasse, senza minimamente scomporsi, aspettando che le cedessero il passaggio.
Infine, Sachiko chiese:
« Potresti spostare le gambe, per favore? »
Parlava un italiano perfetto, con una vaga musicalità nelle consonanti e una durezza nelle L; nel sentire la sua voce chiara e fredda tutti sobbalzammo. Non ci aspettavamo conoscesse la nostra lingua.
Cassa volse la testa verso di lei, un’azione che parve costarle molta fatica.
« Hum… piacere di fare la tua conoscenza. » disse, la voce impastata di sonno e chissà cos’altro.
La giapponese alzò un sopracciglio, rimanendo ostinatamente immobile
« Sono lieta di questo scambio di convenevoli. Ora, potrei passare? »
Faticosamente, Cassandra spostò le gambe. Senza dire un’altra parola, Sachiko passò oltre, camminando con straordinaria rapidità sui piedini racchiusi nei sandali; aveva appena superato la schiena magra di Cassa che questa le parlò.
« Mi piacciono i tuoi kanzashi2 con le campanelle. »
Come fulminata, Sachiko si girò a fissarla, con quei suoi eccezionali occhi neri.
Le porse due dita e l’aiutò ad alzarsi.

Ricordo come Cassandra fissò quelle dita. In seguito Sachi mi disse che erano anni che tutti i suoi compagni evitavano volutamente di sfiorarla. Come se Cassa, come se il corpo stesso di Cassandra fosse repellente.

Da quel giorno, Sachiko iniziò la sua grande operazione “sfondiamo le barriere dell’animo di Cassa”, che riuscì anche troppo bene.
Il che era strano, perché la mente stessa di Sachiko era piena di fosse, avvallamenti, meandri tortuosi che era meglio non esplorare.
Lo stesso attaccamento che nutriva per il Giappone, sua patria d’elezione, era morboso.
Sachiko aveva madre nipponica e padre italiano; aveva vissuto a Kyoto fino alla prima liceo, cioè sin quando suo padre, Giovanni Castelli, era stato trasferito nella sede italiana della ditta per cui lavorava, dopo un avanzamento di carriera.
Sachi era bilingue, ed era stata allevata in un binomio culturale oriente-occidente. Cionondimeno, era cresciuta nel Paese del Sol Levante, e rimaneva ancorata al mondo che aveva lasciato.
Agli amici, agli usi, alle festività, all’universo di tranquilla diversità cui il suo cuore era rimasto attaccato.
Quanto era giunto in Italia era il guscio di quel cuore spezzato. Forse aveva visto in Cassa tracce di quello stesso vuoto. Sicuramente era per questo che Sachiko (che in Giappone si vestiva all’occidentale) ora sembrava una maiko3 in carriera.
Forse voleva mantenere un legame con quella terra che aveva lasciato controvoglia, o magari sentiva di doverlo fare per non cadere in  una sorta di tunnel fatto di ricordi. Un tunnel simile a
quello che aveva inghiottito l’anima di Cassandra.

Sachiko era una ragazza estremamente attraente. Non solo per quell’aura di mistero e di stranezza che la circondava, ma perché era oggettivamente molto bella.
Sotto il trucco, aveva enormi occhi neri a mandorla: gli occhi più grandi, profondi, ammalianti che avessi mai visto, circondati dalle lunghe sopracciglia disegnate col carboncino che proseguivano fin quasi alle tempie.
Il naso era piccolo e ben proporzionato e la bocca un minuscolo bocciolo (sembrava ancora più minuscola per via del rossetto con cui la dipingeva a cuore).
Ad accentuare la sua aura di bellezza erano anche i suoi capelli. Per chiunque avesse avuto il privilegio di vederli sciolti, costituivano una specie di miracolo. Le arrivavano molto sotto la linea inferiore delle natiche, quasi fino alle ginocchia: una cascata nera come la notte, liscissima e profumata di olio d’orchidee.
Solitamente li acconciava in fogge e nodi complicati, che, seppi in seguito, le faceva l’anziana cameriera di sua madre.
Sachiko era ossessionata dalla cura della propria chioma: la lavava ogni giorno e la pettinava per quasi un’ora tutte le mattine. A volte dormiva seduta per non sciuparsi le acconciature.
Tuttavia, pur essendo così bella, Sachiko non permetteva a nessuno di avvicinarla.
Vagava per i corridoi scortando Cassandra, ammantata di una freddezza altera, regale; rivolgeva i propri saluti con noncuranza, quasi indifferenza, e appariva inumana nella sua perfezione.

Molti ragazzi, ricordo, si erano infatuati di lei, ma Sachiko li teneva a distanza con una decisione che rasentava l’intolleranza.
Diverse volte mi sono chiesto perché elesse me quale suo confidente, e in qualche occasione gliel’ho anche domandato: lei si limitava a ridacchiare e a dirmi che avevo il grande dono di saper ascoltare e parlare solo al momento opportuno.
In realtà, credo che la relazione con Cassa assorbisse tutte le sue energie, e che non avesse molto tempo per altro. E Sachi non era mai stata tanto lieta di farsi assorbire da qualcosa.

Quasi subito, a qualcuno venne l’idea di darle un soprannome. Probabilmente era perché ci si ricordava poco il suo nome (nel 1994 non eravamo ancora abituati alla multiculturalità, così capitava che Mae-fong diventasse Mattia e che Françoise si trasformasse in Francy) e perché qualcuno si era spinto più in la di Goldrake nell’approfondimento della cultura nipponica.
Fatto sta che Federica Massifreddi cominciò a chiamarla “geisha”  e, da allora, geisha rimase.

 ***

Quando si seppe del sentimento che la legava a Cassandra, ricordo che la reputazione di quest’ultima ricevette il colpo finale, ma che, nonostante il perbenismo che permeava gli adolescenti allora più di oggi, non si smise di trovare attraente Sachiko.
Semmai la relazione saffica che aveva con Cassa le aggiungeva quel fascino peculiare che solo i peccati esibiti sanno dare. Un po’ come il rossetto e il fard per David Bowie o l’eroina per Kurt Cobain.

Tuttavia, molta gente stentò a capire che quello che le legava era vero amore.

L’omofobia, di tutti pregiudizi e le intolleranze, è quella col comportamento più strano: non solo perché anche le categorie solitamente discriminate (ad esempio extracomunitari o neri) la praticano, ma perché le persone di un medesimo sesso tendono a essere indulgenti nei confronti degli omosessuali di sesso opposto, mentre con quelli del medesimo si rivelano sovente spietati.
Così come molti ragazzi picchiano maschi gay e poi si masturbano di fronte a foto di playmate in atteggiamenti saffici, anche le ragazze praticano una simile forma di discernimento, ma più velata e, come spesso accade, più micidiale.
Infatti, spesso queste fanciulle intrattengono rapporti d’amicizia con ragazzi omosessuali (purché non commettano atti osceni – che personalmente definirei atti d’affetto – in loro presenza, sia chiaro), salvo creare il vuoto pubblico intorno a qualche altra componente della loro cerchia perché commette lo stesso nefando peccato sociale.
Similmente ad Hester, l’adultera protagonista de “La lettera scarlatta” di Hawthorne4, anche queste ragazze vanno incontro al più totale isolamento, al disprezzo delle loro stesse amiche o confidenti.
Così successe anche a Cassandra e Sachi; ma a tutte e due bastava unicamente la compagnia dell’altra.

Perché quello tra le due era vero amore; solo il vero amore avrebbe potuto resistere alle tremende botte che i comportamenti autodistruttivi e la depressione di Cassandra sapevano dare a qualsiasi tentativo, seppur labile, di relazionarsi col suo mondo.
Cassa che non era mai sobria, Cassa con le braccia bucate, Cassa sigaretta nella mano e pipetta da crack nell’altra.
Sachiko perfettamente padrona di sé, Sachiko che chiama il 113, Sachiko che scatta con la bravura di un’infermiera professionista a rianimare l’amata in overdose.
Ma anche Cassandra e Sachiko che fanno il bagno insieme, Cassandra che prepara il brodo a Sachiko con la febbre, Sachiko e Cassandra abbracciate a coccolarsi sul tappeto di quella stessa stanza in cui Cassandra, poco prima, si è scolata un’intera bottiglia di rhum.

La morte di Cassa fu un colpo mortale, e nulla in Sachiko rimase che potesse farle sopportare il peso del ricordo; dopo, di Sachiko rimase ancor meno di quello che eravamo abituati a conoscere, la sua mente ancora concentrata sul Paese del Sol Levante e su quella cultura e quelle persone a lei care e tanto lontane dall’Italia.
Se la sua freddezza prima era dignità, dopo divenne indifferenza e nient’altro che questo.
Non parlava più nemmeno con me e, quando qualche professore veniva a chiedermi sue notizie oppure quando un compagno mi chiedeva se si fosse ripresa, non sapevo cosa rispondere. Per quanto potei percepire, posso dire solo che solo la morte di Cassa riuscì ad appannare il fuoco dell’orgoglio che ardeva nel fondo dei suoi occhi neri.
Diede esami da privatista, uscì col massimo dei voti, alzò i tacchi e se ne tornò quanto prima in Giappone.
Capii che solo Cassandra l’aveva trattenuta in Italia da quando era diventata maggiorenne in quarta (Sachi era nata a gennaio), e che i suoi antichi legami col paese in cui era nata erano l’unica cosa che le impedisse di raggiungerla.
Ma Sachi aveva un alto senso della propria dignità e valutava di più la propria vita di quanto non avesse mai fatto Cassa.
Quindi tornò a Kyoto.

 ***

Ieri l’ho rivista.    
Stavo armeggiando con un PC sballato sul mio posto di lavoro, quando Giacomo, il mio capo, mi ha chiamato con voce concitata dicendo che una signora giapponese voleva parlare con me.
Ha aggiunto anche alcuni apprezzamenti piuttosto volgari sull’aspetto della signora in questione, che io non ho raccolto.
Tutto potevo immaginare, tranne che fosse proprio lei.
Quando ha lasciato lo Stivale, non mi aveva nemmeno salutato e, anche se a volte pensavo a cosa stesse facendo, non ho più considerato di mettermi in contatto con lei.
Eppure eccola lì, elegantissima e vestita all’orientale (come al solito), anche se qualcosa mi suggeriva che (come al solito) in Giappone si vestisse ancora all’occidentale.
Sarà stato il trucco più sobrio e l’acconciatura (un comune carré), o il kimono scuro ed elegante che indossava, del tutto diverso dalle pirotecniche mise che amava esibire da giovane; forse era una certa indifferenza di fondo che aleggiava ancora nei suoi occhi neri, solo leggermente segnati agli angoli.

Era venuta appositamente per l’anniversario della morte di Cassa, e, mi ha confidato, lo fa tutti gli anni a partire da quello dopo la sua morte.
Non è mai riuscita a venire a trovarmi, anche solo per scusarsi del suo comportamento increscioso – parole sue – di quando se n’è andata. Aveva come una specie di blocco e voleva evitare di ricordare.
La capisco – è lo stesso atteggiamento che abbiamo noi nei riguardi della fu Maria Eva.

E non è mai riuscita a dimenticare quell’amore nervoso, autodistruttivo che ha segnato la sua adolescenza.
Quel sentimento che si è portata via Cassandra più di dieci anni fa.
Nonostante ora sia sposata e madre di due figli, Cassandra no, non la si può dimenticare.

Portava ancora il bracciale d’argento.

 ***

Obi= cintura e, spesso, emblema di un kimono. Il nodo dell’obi è considerato vera e propria arte nella cultura tradizionale giapponese, ed esistono trecento e più modi di creare il caratteristico fiocco decorativo.
Kanzashi= spilloni decorativi che si portano tra i capelli, elemento importante delle acconciature tradizionali nel Paese del Sol Levante.
Maiko= geisha apprendista.
“La lettera scarlatta”, di Nathaniel Hawthorne= libro stupendo, che personalmente consiglio a tutti, ne riporto qui di seguito la trama (attenzione, spoiler!).

Il romanzo si apre con Hester mostrata al popolo di Salem, sul patibolo. È il risultato del processo che è stato intentato contro di lei per adulterio. Hester infatti ha dato alla luce una bambina, Pearl, nonostante il marito sia assente da anni dalla città. Oltre al pubblico ludibrio, Hester deve sottostare a un'altra pena per la sua colpa: deve portare sul petto una A scarlatta (che sta per "Adultera"), diventando così la pecora nera della comunità puritana, assai poco incline al perdono e alla comprensione.
Hester non vuole rivelare chi sia il padre della bambina. Ma dopo qualche capitolo Hawthorne ci svela che il suo amante è il giovane reverendo Dimmesdale, colto teologo, eccellente predicatore, uno degli uomini più rispettati e venerati della città. Si capisce allora che se Hester tace, lo fa per amore, cioè per proteggere Dimmesdale. Il quale però si tormenta per la propria vigliaccheria e la propria falsità: predica ripetutamente contro il peccato, ma il primo a peccare è stato proprio lui; ed è un'altra, cioè Hester, a scontare la pena per entrambi.
La situazione si complica quando il marito di Hester, che in città nessuno conosce, torna dalla sua lunga assenza, che si spiega con la sua cattura da parte degli indiani e la successiva prigionia. Il marito di Hester impone alla moglie di non rivelare la sua identità: questo perché vuole indagare in incognito sull'identità dell'amante, il cui nome Hester si rifiuta categoricamente di rivelare anche al marito. Quest'ultimo assume così il nome di Roger Chillingworth, e prende a esercitare l'attività di medico in città, forte dei suoi studi in Inghilterra, ma anche delle cognizioni di medicina indiana che ha appreso durante la prigionia.
La vicenda si snoda quindi nel patologico triangolo che si viene a formare tra Hester, Roger e Dimmesdale, con un crescendo di tensione, sofferenza e angoscia che porta alla rivelazione finale.
(Informazioni copincollate da Wikipedia – perdonatemi, ma non ho molto tempo per raccontare tutta la storia)

Nike87= mi fa piacere che Cassa ti sia piaciuta. Mi è sempre sembrata tremendamente carica, e non mi ha mai soddisfatto fino in fondo, ma se qualcuno la trova gradevole forse varrà qualcosa. Purtroppo ultimamente ho ancora meno tempo di quanto disponessi in  precedenza, ma spero di riuscire a portare avanti tutto con relativamente pochi sacrifici!
Ilychan= il ricevere tanti commenti significa certamente che la storia piace, ma non significa precisamente che essa sia di qualità. Il primo commentatore e critico di uno scrittore è l’autore stesso; conosco molti recensori spietati, ma la prima a essere spietata con le mie opere sono soprattutto io!
In ogni caso, adoro ricevere complimenti, come credo chiunque, e mi fa piacere che molte persone degne di fiducia trovino gradevole la storia. Voglio dire, se un’ amiketta tra quelle fanciulle che leggono e commentano entusiaste quegli aborti di fic che vengono pubblicati nella sezione “Cantanti” (quelle sui Tokio Hotel soprattutto) trovasse bella la mia storia, personalmente inizierei ad avere qualche dubbio sul suo valore. Ma, dato che generalmente ritengono la mia fissazione per la grammatica eccessiva e il mio stile verboso e prolisso, credo di essere sulla buona strada.
Una sola piccola segnalazione: un po’ si scrive con l’apostrofo!
HinataYuuga= accidenti! Che sfilza di complimenti! Va’ che ad andare avanti così diventerò una montata assurda e nessuno riuscirà più a leggere le mie ciance agiografiche (un po’ come non riesco più a leggere le interviste a Giovanni Allevi, che oltre a essere un pianista non geniale come sostiene di essere è il più grandioso apologeta di se stesso)!
In ogni caso ho un piccolissimo appunto da fare alla tua recensione: io non credo che Cassandra sia coraggiosa. Anzi. Morire, nel suo caso, è stato un atto di spossatezza e assoluta codardia. Secondo me vivere è la cosa più coraggiosa che chiunque possa scegliere di fare.
Hikari= no, non è il fatto che tu ti sia espressa male, sono semplicemente io che vedo ogni più piccola parte dei vostri commenti in luce del mio assoluto perfezionismo. Sono un grosso problema per la mia stessa autostima…
In ogni caso mi fa immensamente piacere che tu, a dispetto di tutto, non pensi che Cassa sia stereotipata; e spero che questo capitolo, tutto su Sachi, ti piaccia.
Lidiuz93= Grazie per i complimenti, e per la considerazione. Non ho mai considerato l’ipotesi che la vita di Cassa apparisse come una caduta finché non me l’hai fatto notare: l’idea non è male, ma io ho sempre pensato a lei come a un personaggio che “ha già toccato il fondo” e che è gnoseologicamente impossibilitata a risalire. In ogni caso le tue lodi sperticate mi hanno inorgoglito parecchio! Grazie mille!

Ecco, con questo vi lascio alla lettura! Tanti saluti alla prossima recensione!
   
 
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