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Autore: Broo    20/10/2013    0 recensioni
Confusione. C'era solo confusione nella mia testa. Sapevo che prima o poi avrei dovuto scegliere, ma come si faceva?
Come si faceva a scegliere tra il bianco e il nero?
Come si faceva a scegliere tra la primavera e l'autunno?
Come si faceva a scegliere tra due espressivi occhioni verdi, e due riflessivi occhi scuri persi nel vuoto?
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
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C
apitolo 1 
Mattina. L’inizio di un altro giorno. L’inizio di un’altra avventura. Momento in cui si cerca:
1) di pianificare la giornata;
2) di prepararsi il più in fretta possibile, perché si deve scappare subito di casa;
3) di non pensare a niente. Si decide di cogliere la giornata all’attimo, e di rilassarsi, nel senso più completo della parola.
Io, per quanto mi riguarda, appartengo alla prima categoria, ma oggi era diverso. Volevo riposarmi il più possibile, perché l’indomani… beh, l’indomani sarebbe cominciata una nuova vita. Già… nuova vita. Chissà quanto ci sarebbe stato di diverso in questa vita “nuova”. Non ne avevo la più pallida idea. Avrei lasciato senz’altro i miei amici, la mia famiglia, la mia casa, e tutto ciò che mi è più caro qui a Canterbury. Non potevo dire però di non aver avuto tempo per rifletterci. Insomma, stavo progettando questo viaggio da due anni: è da quando ero piccola che ho sempre sognato di vivere a Londra, la capitale. Capitale della mia regione, dell’Inghilterra, della Gran Bretagna, del Regno Unito. Una delle più importanti capitali a livello mondiale.
Mi piaceva tutto di quella città. Mi piacevano le strade, i negozi, le case, il castello, i parchi, i musei, le scuole, la gente che la abitava, la moda… tutto. Veramente tutto. E l’idea di andare a vivere lì mi elettrizzava.
Mi passai distrattamente una mano tra i capelli. Erano al massimo del disordine come al solito, e ogni mattina dovevo lottare per riordinarli. Tutto normale insomma.
Il mio telefono squillò: mi era arrivato un messaggio. Dapprima affondai la testa nel cuscino. Ero così stanca. Poi decisi di vedere chi mi aveva scritto. Con gli occhi ancora chiusi allungai una mano verso il comodino e lo tastai ben bene finchè non trovai l’oggetto del mio interesse.
 -Ciao amore, ben svegliata. Ti ho preparato la colazione. Il latte è nel frigo e, nel caso volessi qualcosa da mangiare… ti ho trovato un po’ di roba commestibile in dispensa, è tutto sul tavolo!!
Baci, baci, mamma.

Sorrisi. Mi dispiaceva per lei, ma purtroppo quella volta non avevo proprio voglia di fare colazione in casa. La mia ultima colazione a Canterbury si sarebbe svolta al baretto di fiducia in centro. Ci andavo da quando ero piccola, conoscevo tutto e tutti in quel posto, era come una seconda casa. Mi sentivo a mio agio lì.
Riuscii ad arrestare l’impulso dei miei occhi di chiudersi di nuovo e, un po’ esitando, mi alzai, mi infilai le pantofole e mi diressi verso il bagno per lavarmi. Quando tornai in camera aprii il mio armadio in cerca di qualcosa da mettermi. Optai per una maglietta e un paio di shorts, accompagnati da braccialetti colorati e un filo di gloss. Dopo essermi snodata i capelli, ero pronta per uscire.
Abitavo in un piccolo quartierino all’inglese, vicino al centro della città, ma distaccato al punto giusto dall’ambiente urbano. Uno di quelli che si vedono nei film inglesi o americani: quei quartieri col parchetto in comune, casette bianche tutte uguali e ognuna con un piccolo giardinetto davanti. Ed era nel mio giardinetto che si trovava la mia bici, il mezzo di trasporto che utilizzavo per muovermi in città. Avevo troppa paura di comprare una moto. Mi aveva sempre spaventato l’idea: un sacco di miei amici o comunque un sacco di persone che conosco si erano fatte male, alcune molto gravemente, per un incidente di moto. E non avevo voglia di fare la stessa fine, così mi  accontentavo della mia vecchia bicicletta, a cui ero molto affezionata.
Pedalai per circa dieci minuti e arrivai in centro. Ora ero anche più affamata di prima. Scesi dalla bici e la incatenai a un palo. Mi incamminai per le strade del corso. Mi piaceva andare lì. Mi piaceva respirare aria pulita, girare per i negozi, guardare le vetrine, guardare la gente. Era fantastico: erano tutti indaffarati con lo shopping, mi piaceva osservare i bambini impazienti di tornare a casa per aprire i giochi appena comprati dai genitori, e vedere questi soddisfatti di aver reso felici i propri figli. Ero anche molto entusiasmata dalle ragazze che parlavano dei loro vestiti, commentavano quelli in vetrina e lanciavano dei gridolini dopo aver sbirciato nella busta contenente i loro nuovi abiti, accertandosi che “l’abito perfetto” non fosse solo un’illusione. Ed è qui, nel centro di Canterbury, che ho capito che dovevo mirare a un lavoro che mi avesse tenuta a stretto contatto con la gente, con la città. Dovevo conoscere cose nuove, volevo sapere di più, raccogliere il succo di ogni vicenda. Frequentavo il quarto ginnasio quando capii che volevo fare la giornalista. Ed ecco un’altra delle ragioni per cui sarei andata a Londra, per studiare. Certo a Londra non mi sarei limitata a un normale liceo, no no. Mi volevo specializzare per bene nel giornalismo, perché sapevo che avrebbe rappresentato il mio lavoro futuro, me lo sentivo, e Canterbury non era il luogo adatto a farlo.
Mentre ero assorta in questi pensieri, mi accorsi di essere arrivata al bar dove avrei fatto colazione. Prima di entrarvi, mi fermai a dargli un’occhiata dall’esterno. Era tutto come piaceva a me, tutto come sempre. Niente era cambiato. La solita gente, il solito profumo di cornetti caldi e di caffè, gli stessi tavolini da quattro sedie ognuno all’esterno, all’ombra di quattro grandi ombrelloni color panna. Le enormi brioches  esposte in bella vista nelle vetrine e i sorrisi dei clienti che consumavano lì la loro colazione. Non c’era nient’altro da dire: quel posto metteva di buon umore tutti. Anche a me spuntò un sorriso a trentadue denti: lì mi sentivo a casa.
Il brontolio del mio stomaco mi fede capire che era ora di entrare e prendere qualcosa.
“Hey Ralph!”
“Brooke!” sorrise “come mai sei qui? Di solito il sabato fai colazione con i tuoi..”
“Sai…” esitai “ultimo giorno..” nella mia voce c’era una nota di malinconia, stessa malinconia che si poteva percepire nel suo sguardo. Eravamo amici dalle elementari. Lui, due anni più grande di me, era il figlio del proprietario del bar, e ogni tanto lo aiutava a gestirlo. La nostra amicizia veniva prima di tutto, prima di ogni cosa. Prima dei confini, prima dei litigi, prima dell’amore. E quando c’era amore era dura, perché dovevi tener testa anche all’amicizia. Non potevi dedicarti solo al ragazzo o alla ragazza, ma anche all’amico, che non andava ignorato. Ma nel momento in cui decidevo di trascorrere un po’ di tempo con Ralph scoppiavano rumors e pettegolezzi vari, e il rapporto col fidanzato finiva male. E io, la stupida di turno, ci stavo malissimo. Perché quando mi mettevo con un ragazzo era perché tenevo veramente a lui: mi fidanzavo solo quando ero innamorata sul serio. E quindi a ogni rottura soffrivo il doppio di una ragazza comune, che magari non teneva così tanto al fidanzato: ormai erano poche le ragazze che si innamoravano come me, erano tutte per lo più troiette. In conclusione… mi potete insultare come volete, ma una cosa è certa: con l’amore e l’amicizia non scherzo.
“Ah, vero, il viaggio.” Disse con tono seccato.
“Ne abbiamo già parlato…!”
“Oh, Brooke! Non puoi partire! Che ne sarà di noi..?” la rabbia che traspirava nella sua voce lasciò posto alla tristezza, sentimento che i suoi espressivi occhioni verdi non riuscivano a nascondere.
“Hei… sai perché hanno inventato internet?”
Scosse il capo, ma la risposta era ovvia.
Accennai un sorriso malinconico, e provai a cambiare argomento “allora… una brioche e uno yogurt bianco!” ordinai.
Lui mi guardò confuso, quasi come si fosse dimenticato che era a lavoro, ma poi si diede un colpetto sulla fronte, sorrise e mi porse ciò che avevo chiesto.
Risi. Mi faceva stare così bene. Era perfetto in tutto ciò che faceva. Sarebbe stata dura lasciarlo e trasferirmi, lontana da quello che era il mio migliore amico, la persona a cui tenevo di più sulla faccia della terra.
Feci per allontarmi dal bancone e andarmi a sedere, poi mi bloccai, gli rivolsi uno sguardo e gli chiesi “Hai mai preso un treno?”

 
   
 
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