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Autore: tagliarsi_con_gli_origami    26/10/2013    5 recensioni
Harry Styles vive in una villetta a schiera di Richmond con sua sorella Gemma.
Louis Tomlinson è un ex calciatore dalla carriera stroncata da un infortunio, e si muove a malapena nel disordine cronico del suo attico in centro a Londra.
Harry e Louis si incontrano in un bagno a Covent Garden.
Potrebbe essere l'inizio di qualcosa, se Harry non fosse già legato all'unica donna della sua vita, Darcy, la sua bambina di sei mesi.
Harry e Louis si incontrano in un bagno. Forse finirà così, perchè Louis di bambini non vuole nemmeno sentir parlare.
Harry e Louis si incontrano in un bagno, in un vialetto, ad un barbecue, nel mezzo di due vite che forse non dovevano nemmeno scontrarsi.
Impronte di mani diverse sulla parete bianca di una cameretta per bambini.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ai CO su Twitter, di Harry, di Harry, di Harry,
e di Nick Grimshaw e le sue CAAAAKEEEEEEEEE.





 
Guardrail, bruciato e condensa.



And I'll be gone gone tonight
The ground beneath my feet is open wide
The way that I been holdin' on too tight
With nothing in between
(Story Of My Life, One Direction)


Harry si chiede quanto ancora riuscirà a resistere alla tentazione di buttarsi fuori strada. Seriamente, l'amore un po' naif che ancora prova per gli altri passeggeri di quella specie di regata velica del disagio emotivo, in quell'abitacolo soffocante che odora vagamente di tacos, è l'unico ronzio nella sua calotta cranica dolorante che gli abbia impedito di andare a sbattere contro il guardrail alla dodicesima strofa inventata da Niall di When The Saints Go Marching In. Gemma ha infilato a forza nelle orecchie un paio di tappi da carpentiere, di quelli che si indossano per usare il martello pneumatico, eppure l'altro non ha colto il sottile sottinteso della crisi isterica di sua sorella poco prima di biascicare scuse nervose e crollare addormentata sul sedile.
Ha trascorso le passate due ore senza smettere di parlare nell'orecchio sinistro di Harry, le mani aggrappate ai sedili e la sua parlata irlandese appesantita dalla stanchezza e l'adrenalina. 
Darcy, miracolosamente, mugugna qualche inintelligibile verso ogni tanto, ma non sembra minimamente provata dal casino folle e nevrotico di quel viaggio notturno.
Addormentarsi con i Rolling Stones in sottofondo ha probabilmente contribuito ad abituare la sua fase REM al delirio di onnipotenza musicale.
A discolpa di Niall va detto che Harry ha rischiato di addormentarsi tre volte. La prima mentre Jeff Buckley lasciava morire le ultime note di Hallelujah, la seconda all'ultima strofa di November Rain, e la terza cinque minuti prima, mentre Etta James gli scioglieva ogni muscolo sottocutaneo con l'addio definito al suo amore in At Last.
Ripete sempre a se stesso di preparare compilation che non istighino il prossimo al suicidio, ma Zayn, offrendosi di rimettere in ordine casa e preparare il divano letto in salotto per ospitare Melissa, ha proposto un rapper bosniaco crivellato di pallottole nella guerra del Kossovo per chissà quale ragione, e Gemma si è rifiutata categoricamente di intervenire, quindi Harry ha pescato un cd a caso nel cruscotto senza pensare alle conseguenze.
Niall ha solo cercato di tenerlo sveglio senza dover dire apertamente che stava cercando di tenerlo sveglio, e Harry prova davvero a sputare fuori il grumo di gratitudine aggrappato allo sterno, ma resta solo zitto, accostando alla prima stazione di servizio per recuperare almeno la lucidità.
Manca meno di un'ora di viaggio, il cielo è di quel verde gelido da alba imminente, e la necessità epidermica di ubriacarsi di caffeina gli sta rosicchiando via la volontà. 
“Hei...hei” scuote leggermente Gemma dal sonno artificiale prodotto dal spossatezza e ansia. Forse non gliel'ha detto, e si è limitata a salire al piano di sopra a preparare la borsa per Darcy, ma non le piace per niente il fratello che vede. 
D'altra parte è a causa di quella stessa irrefrenabile istintualità che si è trovato solo con una neonata su una metropolitana di Londra in pieno inverno.
Forse la spaventa quel Harry incapace di arginare le intenzioni.
Forse lo sente sfuggire al quotidiano, alla tranquilla routine famigliare che hanno creato.
Forse non ha paura solo per Darcy, ma anche per se stessa, per quella casa con la ringhiera rosa che sembrerebbe tremendamente grande e vuota, e che risuonerebbe di quell'eco al riverbero di fallimento nelle sue orecchie abituate a Barry White in sottofondo e X Factor in replica il sabato sera.
Dovrebbe davvero fare quel discorso a Niall, alla fine, se Harry, Darcy, il forno, la birra ghiacciata in freezer, la tv, una bella canzone alla radio, il telefono o l'avviso di chiamata di Skype non fossero più buone scuse da interporre fra lei e quel bacio del cavolo che lui aspetta da quando, in terza liceo, per poco non finivano Sette Secondi in Paradiso nel sottoscala.
E lei era all'università, ed era irraggiungibile, e nessuno l'avrebbe mai detto che sarebbero finiti a spartirsi una Corona davanti alle repliche di Catfish, con Darcy che strillava come una banshee in braccio ad Harry che tentava invano di calmarla cantando a squarciagola I Don't Wanna Miss a Thing.
E lui non vuole davvero metterla di fronte alla realtà, perché era uno che scappava come se avesse avuto spacciatori colombiano alle calcagna da ogni possibile “realtà”, ma sanno tutti e tre che quel viaggio assurdo immersi nella nebbia autunnale dello Yorkshire non è una visita di cortesia a Louis Tomlinson.
Forse è un sofferto ciao, forse uno spasmodico arrivederci fatto di gambe che si agitano e braccia che svettano in aria. Ma non esiste punteggiatura forte capace di chiudere quella frase definitivamente.
Non con Louis.
E la loro casa forse odorerà di vaniglia, cannella e borotalco ancora a lungo, o forse no.
Ma le persone che torneranno indietro non saranno le stesse parcheggiate in quella stazione di servizio sotto un cielo grigio-verde, nel freddo umido e bagnaticcio delle ore che precedono l'alba, a barcollare fino alla porta girevole per una tazza di caffè e un bagel. Harry non si sente a suo agio nella sua pelle da nove mesi cinque giorni e diciassette ore. I suoi tatuaggi sembrano più scuri, e allo stesso tempo meno definiti, come i perché. Eppure a volte prudono, come se volessero ricordargli qualcosa. 
Ha una figlia che dorme nel marsupio per neonati attentamente assicurato alle sue spalle, e l'odore di ammorbidente, omogeneizzato e crema per le irritazioni da pannolino crea una nube di profumi quasi alienante. 
La commessa della tavola calda lo fissa incerta, poi osserva Gemma e Niall per intuire il filo di parentela che li unisce. Forse vuole provare a raschiare al di sotto delle bretelle del marsupio, del giubbotto di jeans imbottito di lana. Della pelle, magari.
O forse è solo curiosa.
Non gli interessa, non finché Niall non avrà finito il suo caffè, e Gemma la sua ciambella. Non la colazione del campione, ma i carboidrati e gli zuccheri mantengono svegli quasi quanto la caffeina.
Tornano in macchina avvolti da un silenzio stiracchiato e un po' ombroso. Sua sorella resta testardamente zitta ancora per un quarto d'ora, prima che Niall si schiarisca la voce
“Ok, qui dentro abbiamo un problema serio. Sono finite le M&M's e tua sorella sta rovinando il mio viaggio con tutte quelle occhiatacce di traverso” si lamenta addentando il secondo toast farcito.
Lo stomaco di Harry si contorce ad ogni chilometro macinato verso Doncaster.
“Niall non è aria...” lo minaccia stancamente Gemma appoggiando il gomito al finestrino sollevato.
Harry inspira, controlla lo specchietto retrovisore, espira.
Gira il volante e accosta con una frenata brusca e una strombazzata di clacson incazzato dei pendolari delle sei di mattina.
Gemma si regge al cruscotto, Niall pianta il braccio contro la portiera per riparare Darcy dalla frenata, e Harry impreca.
“Cazzo. Cazzo. Cazzo” sua sorella lo fissa a occhi sgranati, mentre il pianto confuso di sua figlia si insinua fra la tensione e la stanchezza.
Gemma non si preoccupa nemmeno di fargli notare l'inutilità controproducente del suo linguaggio, e incrocia le braccia al petto
“E quindi?” 
“Quindi cosa?” Niall slaccia la cintura di Darcy e la fa scivolare sul sedile anteriore, incastrandola fra le braccia di Harry. Il battito del cuore la calma sempre.
Non smette di piangere, ma si lamenta a ritmo con il respiro di lui.
Harry riesce a divincolare il pensiero della figlia da quello della sorella, e per un secondo in quella nottata esasperante, riesce ad allontanare quello di Lou, a sempre meno chilometri di distanza, e a quello che non vorrebbe essere costretto a fare e dire. 
Non un minuto, uno solo, nell'abitacolo della sua monovolume, è riuscito a smettere di pensare alle briciole d'asfalto macinate sotto i suoi pneumatici, ai chilometri rosicchiati velocemente, al cielo sempre meno scuro e al freddo sempre più umido. Non un minuto il pensiero di quel viaggio ha lasciato arieggiare la sua mente. 
Perché? Che senso ha? Chi sei tu, e dove hai messo Harry Styles, padre di una bambina di nove mesi che ha bisogno di dormire nel suo letto, al caldo, otto ore filate, anziché sonnecchiare in un seggiolino sparata a cento all'ora sull'autostrada per Doncaster, South Yorkshire.
“Quindi dimmi se devo tornare indietro” Gemma, come sempre, col suo silenzio ferito e la sua muta ostilità, ha solo fatto da megafono a quei pensieri asfissianti incarcerati dietro le palpebre “Dimmi solo se devo uscire alla prossima e tornare indietro, a Londra, a fare finta di non aver nemmeno mai avuto lontanamente l'idea di salire in macchina” respira lentamente, gli occhi alla ricerca delle iridi in penombra di sua sorella, il silenzio quasi artificiale di Niall, e il pianto incredibilmente realistico di Darcy. La culla quasi meccanicamente, un orecchio sempre adagiato su di lei, nonostante tutto, ma tutti gli altri sensi intrecciati in qualche modo attorno a sua sorella.
Gemma usciva di nascosto a comprare i marshmallow perché lui non poteva mangiarli, e terrorizzava i tizi che volevano picchiarlo alle medie, e probabilmente aveva convinto Missy Conroy ad accettare di uscire con lui il secondo anno.
Gemma è sempre rimasta attorno a lui a vorticare in silenzio, una presenza rassicurante e quasi mai muta. Ha aperto la porta di casa, alle due di notte, alla sua faccia da schiaffi e alla sua bambina appena nata. Ha ridipinto la ringhiera di rosa, ha messo a scaldare bollitori, ha cucinato cene, ha ordinato pizze, ha chiamato amici, ha dormito raggomitolata sul divano aspettando che rincasasse. Anche se non vuole ammetterlo, e probabilmente dalla sua bocca non scivolerà mai fuori una confessione, ha anche cantato canzoni per far addormentare Darcy, ha rammendato tutine e ha imitato le voci stupide dei cartoni animati per farla ridere. Ha fatto smorfie e qualche pessima imitazione di “Cucù Settete” fra le sbarre di legno del suo lettino.
Harry non riuscirà mai a mettere insieme parole abbastanza sensate e credibili per poterle dire grazie. Tanto meno in quell'abitacolo, con il cielo verde che diventa rosa e le occhiaie fin sulle guance. Niente che sua sorella già non sappia.
Tornerebbe indietro, probabilmente, se Gemma glielo chiedesse. Se volesse far scivolare le dita su quel vetro rotto che riflette i precedenti nove mesi come una Casa degli Specchi difettosa e li risputa indietro frastagliati. 
Probabilmente smetterebbe di dimenarsi in quella situazione crudele, se solo Gemma dicesse basta. Se lo riportasse alla realtà.
Una realtà che non contempla le scapole leggermente asimmetriche di Louis Tomlinson, e le sue spalle esili, i suoi tatuaggi, la sua voce stridula e la sua risata atteggiata. Le ossa sporgenti delle caviglie e dei gomiti.
Una realtà comatosa e stantia, ma sicura.
Se Gemma glielo chiedesse, potrebbe davvero.
Lei sospira, di una frustrazione così pesante che quasi fa rumore cadendo sul tappetino dell'auto. Chiude gli occhi a lungo, cercando di riallacciare discorsi fatti a se stessa in mezzo a sinapsi addormentate e stressate. 
“Tu vuoi tornare indietro? Perché io ti conosco Harold Edward Styles, da quando te la facevi sotto per gli scherzi telefonici da una stanza all'altra, e collezionavi le figurine dei Pokémon. Ti conosco, e lo so cosa vuol dire quella faccia, e te che ti mangi di nuovo le unghie dopo chissà quanto tempo. E so che se prendi tua figlia di nove mesi e la metti a caso sul seggiolino della macchina per andare fino a Doncaster è perché quel tizio assurdo con la voce squillante ti aspetta lì. O magari nemmeno ti aspetta, io non lo so. E la cosa che più di ogni altra mi fa diventare isterica, a parte Niall che imita  Louis Armstrong in quel modo atroce, è che nemmeno tu lo sai, Harry, se lui ti aspetta davvero” prende il respiro, immobilizza le mani che gesticolavano un senso a corrente alternata davanti al viso “E non te ne frega niente. Perché in qualche modo lo obbligherai ad aspettarti, e aspetterai lui, e non lo lascerai andare come fai sempre con tutti perché è troppo complicato. E mi fai paura adesso, perché tutto questo è fottutamente enorme per tutti noi, eppure siamo qui, alle sei di mattina, in un'area di sosta d'emergenza, ad ascoltarti mentre chiedi a ME se devi tornare indietro”
Niall le accarezza una spalla. Fa finta di non accorgersene, e Gemma altrettanto, ma le sfiora il cotone del golfino, il collo e la spalla.
Harry resta immobile ad osservarli, un'impercettibile connessione tessuta silenziosamente. Nuovi ritmi e nuove abitudini. Intrecciare nuovi momenti su quelli vecchi, e guardarlo fare lo stesso. Senza rancore, pudore, dolore.
Capaci di costruire,  a partire da quel contatto infinitesimale di polpastrelli ed epidermide, qualsiasi cosa. Una vita intera di nuovi nodi.
Darcy si è addormentata contro il volante, la testa leggermente inclinata e i pugni chiusi attorno alla stoffa del suo maglione slabbrato e bucherellato sul collo da una bruciatura di sigaretta. Respira regolarmente, profondamente, e sospira di tanto in tanto, come se fosse impegnata in una snervante conversazione con i protagonisti dei suoi sogni.
Il battito cardiaco di Harry la culla con una lieve aritmia. Ma non è mai stato un cuore che seguisse il ritmo imposto dalla regolarità, il suo.
Slaccia la cintura e la poggia sul seggiolino, assicurandolo al sedile.
Gira la chiave nel quadro e riparte.
E io voglio tornare indietro?

***

Bruciato.
Prima flebile e appena accennato, poi prepotente, quasi asfissiante.
L'allarme antincendio che fischia come una sirena spiegata. L'acqua che spruzza dagli idranti di sicurezza fissati al soffitto.
Qualcuno bussa alla porta febbrilmente, chiamando, urlando, imprecando.
Louis si alza barcollando dal divano, Stan ha lasciato solo bottiglie di birra vuote e si è volatilizzato. Un cerchio alla testa, vago, di sonno e attesa più che uno strascico di Corona dietro le palpebre.
“Mi sente? Signor Tomlinson mi sente? Sono il capo dei pompieri di Doncaster, è cosciente?” si appoggia alla porta chiusa e toglie il blocco dalla serratura.
L'allarme che lo insordisce, s'insinua fra i neuroni e gli impedisce di pensare.
Harry.
Arriviamo.
E basta.
Socchiude la porta e i pompieri quasi lo spingono a terra per la furia di precipitarsi in casa. È surreale, comico e anche leggermente patetico. Lui, più che altro, che riesce solo ad osservarli a piedi nudi e calzoncini corti dimenarsi nella sua cucina e in salotto, disattivare l'allarme e rigirarsi fra le mani il bollitore d'acciaio quasi carbonizzato.
Uno di loro, un armadio biondo che ha fatto le scuole medie due anni avanti a lui, lo guarda pietosamente.
Lou ricorda vagamente di aver messo a bollire l'acqua per il the, e di essere crollato sul divano nemmeno dieci minuti dopo. Il bollitore ha fischiato, ha sbuffato, ha pianto e l'acqua ha continuato ad evaporare per ore.
Si morde il labbro, si stringe nelle spalle, se solo non fosse lui probabilmente abbasserebbe lo sguardo e chiederebbe scusa.
Ma resta zitto ad osservarli controllare la tossicità dell'aria, sciaguattando nel pantano che è casa sua, scalzo, la maglietta fradicia e i mobili high tech da buttare.
Sorride, di quelle risate un po' angosciate e un po' isteriche, che si trovano a metà fra la crisi e il crollo nervoso. Ed è accorgersi che non gli interessa davvero, non come dovrebbe, lo stato in cui versa il suo salotto, perché il suo cellulare squilla di nuovo sul tavolino accanto al divano, fra una bottiglia mezza piena di Corona e il telecomando della tv, è quasi come uno strano spasmo muscolare. Al viso, allo stomaco e al miocardio.
Harry.
Arriviamo.
Aspetto.
Quello che è presumibilmente il capo dei pompieri gli si avvicina con il bollitore in mano e l'espressione di un padre deluso
“E' fortunato che questo appartamento è nuovo e ha il sistema dall'allarme antincendio funzionante. Poteva morire intossicato” ha lo sguardo grave e i baffi brizzolati. Un accenno di cicatrice da ustione sul lobo dell'orecchio sinistro, forse una scintilla o una fiammata di ritorno che lo ha mancato per un soffio. 
Getta uno sguardo sulle birre vuote, la confezione da dodici quasi piena e le bottiglie di vetro lasciate accanto al divano da Stan. Tre Corona non sembrano giustificare una strage evitata per un soffio. Non dice niente, mordicchiandosi i baffi soprappensiero.
“Scusate per il casino ragazzi” sussurra Louis alla fine, il cellulare che lampeggia a pochi metri e una fretta dannata di rimandarli tutti a casa. “Vi offrirei una tazza di the, ma direi che per 'stavolta passo” ridacchia senza un vero motivo, gli altri tre che si rilassano un po' osservando il capo distendersi. 
Non è una tragedia in fondo, solo attesa.
Non è ingratitudine, è solo attesa.
L'uomo più anziano lascia cadere sul tavolo della cucina il bollitore bruciacchiato, e scrolla le spalle
“Direi che qui non serviamo più a niente” si volta verso i più giovani, un po' burbero “Ragazzi...” 
Uno di loro, il più alto e dinoccolato, con due occhi verdi quasi privi di ciglia, gli si avvicina timidamente
“Tu sei Louis Tomlinson dei Rovers? Il cannoniere?” lo guarda con un misto di ammirazione e sfida, perché in fondo lo ha appena beccato con le braghe calate, e anche se da ragazzino appendeva i suoi poster al muro, gli ha tecnicamente salvato la vita. Che la sua presenza non fosse assolutamente necessaria, non lo racconterà di sicuro, al pub, a fine turno, alla barista carina che lo ascolterà descrivere minuziosamente di come abbia sfondato con una spallata la porta di casa dell'ex capitano dei Doncaster Rovers per salvarlo dalle fiamme divampate nel suo appartamento dopo un festino sesso e droga.
Lou annuisce, ignorando l'invasione di immagini di sé dipinto come il solito ex sportivo fallito che torna alla carica con feste da coma etilico e postumi da rock star. 
Nemmeno di quello che scriveranno su di lui i giornali il giorno dopo gli frega davvero.
L'altro gli porge un fazzoletto di stoffa un po' annerito dal fumo e sorride timidamente
“Puoi farmi un autografo? Mio fratello ti adora...” è un diverso tipo di soddisfazione quella che striscia fra la gola e lo stomaco. Non l'automatismo di sempre, le aspettative, le nevrosi e le attese. Solo un ragazzino da sorprendere con una dedica inaspettata. Piccole soddisfazioni quotidiane da impilare e restare a guardare per un po' a fine giornata. Non l'eroico Louis Tomlinson che torna alla ribalta dopo un infortunio, e si riscatta come allenatore riportando la squadra alle antiche glorie. Non qualcuno che era famoso qualche anno fa, e cerca, strisciando sui gomiti, di catturare uno spiraglio di fama prima che passi del tutto.
Solo un ragazzo che è stato famoso, ammirato, adorato, invocato dagli spalti, che scarabocchia il suo nome su un fazzoletto annerito nel bel mezzo di una situazione imbarazzante, pensa solo che deve sbrigarsi, che è tardi, che deve arrangiare qualcosa per colazione, in attesa.
L'attesa.
Sorride, perché quel fantomatico fratello forse nemmeno esiste, ma non importa.
Sorride perché Harry riderebbe di quel gigantesco pompiere, un po' costretto dalla tuta ignifuga, che riesce a trovare un fazzoletto di stoffa con le sue iniziali ricamate dalla madre alle elementari sotto strati e strati di pesante armamentario.
Riderebbe della sua espressione e di quella di lui. Riderebbe di tutto, con la sua voce roca e umile, da amicone.
Recupera una penna fra i cuscini del divano, una di quelle che per stupida ripicca ha rubato a Simon alla cena con i finanziatori, e scarabocchia il suo nome con la solita calligrafia svolazzante da primadonna impegnata. Poi lascia al ragazzo anche quella, e scrolla le spalle
“Magari varrà qualcosa, fra dieci anni, su Ebay” sorridono entrambi, in modo diverso, asimmetrico e inconciliabile, ma sorridono.
I pompieri se ne vanno accompagnati alla porta dalle scuse di Lou e un vago odore di bruciato, le finestre spalancate a lasciar entrare il freddo umido delle sette e mezza di mattina a Doncaster, e lui che trema di freddo correndo ad infilarsi sotto la doccia incandescente.
Il cellulare vibra di nuovo, ma Louis può solo imprecare, insaponato, sotto la doccia.
Si sciacqua velocemente e corre per casa con i piedi fradici, acqua che si mescola ad altra acqua ormai stagnante sul pavimento in legno. La cucina è un disastro di frutta da buttare e mobili da asciugare, ma il cellulare sta vibrando, ed è questione di priorità.
Messaggi vuoti.
Due.
Schermate bianche che gli strappano via l'aria dallo stomaco come un principio di annegamento. 
Uno strano senso d'attesa e di perdita si rincorrono nel suo stomaco. Aspettare così tanto qualcuno gratta via dalla bilancia i pesi e le misure. Aspettare qualcuno la cui assenza ha il sapore della solitudine vuota e scheletrica contro il palato. Aspettare qualcuno così tanto è come salire sul tetto di un palazzo e sventolare una resa incondizionata senza sapere se il cielo sta cadendo o sono solamente tuoni.
Si asciuga distratto avvolto nell'accappatoio, i capelli umidi che odorano ancora vagamente di bruciato e fanno a pugni con il bagnoschiuma ai frutti tropicali. E vorrebbe davvero chiamarlo per sapere se è vero, se è salito in macchina alle tre di notte solo per raccontargli di Melissa, di Darcy, dei pannolini, dell'inflazione e la crisi economica. Se ha davvero lasciato che Richmond diventasse minuscola nello specchietto retrovisore della sua monovolume per mordere l'asfalto, sfogliare i guardrail e scartabellare chilometri fino allo Yorkshire. Se è davvero arrivato fin lì senza motivo, altro motivo che non sia Louis.
Perché centinaia di persone hanno preso aerei, treni, autobus e taxi per vederlo giocare, e segnare, e vincere, o perdere, anche.
Ma nessuno, mai, solo perché lui era lì. Senza nient'altro da dire e dare che una cucina allagata e la puzza di bruciato contro tutte le pareti.
Il citofono squilla di un rumore trillante e fastidioso fra quei pensieri, fra la rilassatezza e la tensione spasmodica, e la rassegnazione, che è comunque appoggiata alla sua pelle, sempre, anche quando si gratta fino a sanguinare per scacciarla.
Squilla di nuovo, due volte, e Louis si sente pizzicare le ossa al pensiero che siano altri giornalisti, Simon con il contratto per la pubblicità di uno shampoo antiforfora, o qualche pazzo invasato vestito di tritolo che vuole farsi saltare in aria con una celebrità. 
Spero sinceramente scelga di meglio.
Lascia squillare nel silenzio accartocciato dal fumo e l'umidità gelida che entra da fuori. Si lascia cadere sul divano fradicio e appoggia la testa allo schienale.
Il campanello.
Solo un secondo, mezzo secondo, e realizza che, cazzo, potrebbe essere lui.
Per davvero.
Ed è una sensazione ancora diversa. Un misto di sollievo, terrore, panico ed euforia.
Un vago senso di nausea e una fame insaziabile.
Saltare e piangere. Sdraiarsi a terra e ridere.
Socchiude la porta, a malapena, le aspettative che fanno a pugni con la razionalità e le insicurezze da ragazzino troppo basso che vuole fare il calciatore. Tutte le donne della sua famiglia e quei padri che si alternavano come i baristi dietro il bancone della tavola calda sotto casa.
Affetti mescolati, e solo battiti di ciglia per salutarli e passare oltre.
Inadeguato, sempre, perché a dire addio si deve essere allenati, e lui piangeva sempre troppo, e aveva sempre troppa nostalgia, di tutti.
“Se chiedo ancora a qualcuno dove abiti mi denunciano per stalking”
Harry. Un sorriso storto di occhi pesti e la gola raschiata dalla stanchezza e il freddo. Darcy che dorme con la testa penzoloni nel marsupio, sbavando leggermente sul suo maglione liso.
Harry.
Gemma incazzata come un pitone che si sta appisolando contro la parete del corridoio e sulla spalla dell'irlandese folle, un sorrisone da overdose di anfetamine e il suo strano senso dell'umorismo.
Harry.
Louis spalanca lo sguardo, un'incredulità che non riesce a mascherare, lo sguardo dell'altro che lo studia, lo prende in giro.
“Amico, a me piace il tuo corridoio eh, ma ho un sonno che dormirei in piedi...” Niall, se possibile, parla con un accento ancora più marcato quando è stanco.
Gemma nemmeno parla, perché ha sacrificato il dono della parola per tenere gli occhi aperti.
Si trascinano tutti nell'appartamento senza quasi staccare i piedi da terra.
Bruciato. 
Acqua a terra e sui mobili.
Le finestre spalancate e la nebbia fradicia che si spande in tutta la casa.
“Ma che caz-” Gemma ha ancora la determinazione di pizzicare il bracco di Niall per impedirgli di dire parolacce. È una titanica rompipalle, ma Lou è sospeso in un limbo di emozioni troppo rifrangenti per partorire pensieri sensati in proposito.
Riesce solo a seguire Harry che si muove per la casa perfettamente a suo agio, anche nelle pozzanghere sparse sul pavimento, anche nel gelo. Sempre, come se fosse nell'unico posto al mondo dove riesce a respirare.
Dove tutto ha senso.
E quelle quattro mura a mollo nell'acqua dei getti di sicurezza, i mobili comprati in stock e gli scatoloni ancora da svuotare, sono diventate casa sua.
“Mi sono addormentato con il bollitore sul fuoco” borbotta all'espressione sospettosa di Gemma. La risata energica di Niall sembra spazzare via ore di viaggio e sconcerto.
Louis indica loro una porta chiusa con la maniglia ancora avvolta nel rivestimento di sicurezza
“E' la stanza degli ospiti. Credo. Ci sono un letto e un divano, fate a pari e dispari” si stringe nelle spalle e si passa una mano fra i capelli che si sono asciugati a caso. 
Si è accorto di aver addosso solo un accappatoio e una sola ciabatta. Si trattiene dall'imprecare almeno fino a quando Gemma non sarà crollata nella più profonda fase REM.
Armeggia con l'impianto di riscaldamento accanto al camino, e il rumore dell'acqua calda che scorre nei termosifoni ha un suono incredibilmente incoraggiante.
Chiude tutte le finestre, affacciandosi sulla strada in una ricerca inconscia di un paparazzo appostato fra i cespugli di ibiscus dall'altra parte della strada, o assurdi tizi col giornale al contrario seduti sulle panchine. Di qualcuno capace di frantumare sotto i tacchi di un paio di scarpe ortopediche quella curiosa e barcollante felicità intrisa di nebbia e spossatezza.
“Hei” Harry lo squadra, quel sorriso obliquo che lo fa sempre sentire inadeguatamente giusto.
Non riesce a smozzicare altro che un saluto atono prima di guidarlo in camera da letto, lenzuola sfatte e vestiti disseminati ovunque. Lui sghignazza mentre sistema Darcy al centro del materasso matrimoniale.
Louis si infila in bagno per indossare almeno un paio di pantaloni della tuta dall'elastico cadente e una maglietta, mentre la temperatura si avvicina a valori adatti alla sopravvivenza dei mammiferi.
Si ferma sulla porta ad osservare Harry sistemare un cuscino contro la testiera per non farle sbattere la testa, ripiegare le coperte perché non rotoli giù mentre dorme, e riservarle una manciata di quelle accortezze silenziose che lo hanno ipnotizzato quella sera folle in cui è trascinato fino a Richmond con la stupida convinzione di aver rimorchiato il solito single disimpegnato con una villetta a schiera e la noia appesa alle ossa.
Silenziose gentilezze quasi automatiche per cui Harold Edward Styles di Holmes Chapel non si aspetta alcun ringraziamento, che non si accorge nemmeno di offrirle, che scivolano fra loro senza far rumore.
Resta a guardarli per un attimo, solo per assorbire il tintinnio dei braccialetti e gli anelli, le pieghe della t-shirt degli Who nascosta sotto il maglione abbandonato sul letto, i versi sconnessi e il frusciare distratto delle lenzuola. I ricci incasinati e le mezze risate roche di Harry strozzate all'ultimo per non svegliarla.
“Avete trovato traffico?” non ricorda nemmeno perché avesse così tanta paura, adesso.
Tutto fischia e trova un posto, anche se non era quello che aveva previsto.
Harry lo osserva per un attimo e sorride scrollando le spalle
“Il solito. C'era un pullman di imbecilli che veniva a vedere una partita di calcio” si sistema sul materasso accanto a Darcy.
Louis si appoggia al muro a braccia conserte e sbuffa sarcastico
“Che coglioni” 
“Che è successo con il bollitore?” Harry sbadiglia vistosamente.
Allunga una mano, di nuovo.
Solo una mano. Tonnellate di anelli di acciaio e le sue mani dalle dita lunghe e le unghie rosicchiate.
C'è un posto vuoto.
E quello spazio è molto più che metaforico.
Una sola mano per dirgli che manca, da qualche parte, a tutti loro.
Il muro si allontana dalla schiena di Louis, il pavimento dalle piante dei suoi piedi. L'aria manca per un attimo, ma è solo un nulla momentaneo, un rigurgito di terrore e responsabilità.
Un posto vuoto accanto a Darcy e le lenzuola ripiegate come un'imbragatura. Un momento paurosamente famigliare. Una fotografia di intenti.
Harry.
Un sorriso tremolante d'attesa.
Lasciarsi cadere nella vita di qualcun altro come su un letto da rifare.
“Mi sono addormentato mentre guardavo un porno sulla pay per view” e si sente un imbecille a parlare di porno con una bambina di nove mesi addormentata a pochi centimetri.
Ma può essere imbecille con Harry.
È qualcosa di spaventosamente vicino all'unica persona con cui può farlo.
Lui e la sua figlia neonata che gli sta sbavando sulla maglietta, la mano stretta a pugno sulla decalcomania sbiadita del simbolo della Nike. Lui, la sua bambina neonata, la sorella psicopatica e un carrozzone di amici da circo, Nick Grimshaw e madri scomparse che riappaiono, tutti nella stessa puntata.
“La pay per view? Come sei anni '90” ridacchia, con quella strana luce arancione nascosta dentro gli occhi che gli fa pizzicare la bocca dello stomaco.
Harry e quella vita così intricatamente complicata che nessuno sceglierebbe per la pubblicità dei biscotti, ma che a Lou ricorda il the delle tre di notte e le risate soffocate con le lenzuola per non svegliare nessuno.
Impronte di vernice rosa sulle pareti della vita patinata di Louis Tomlinson del Doncaster Rovers, fatta di muri tirati su con un cemento di sorrisi falsi e occhiali da sole al chiuso per nascondere le occhiaie.
Un prato sempre da falciare e una veranda sporca di fango a buttare giù tutto.
Si rilassa contro il cuscino, Darcy che appoggia la fronte al suo sterno, e resta lì.
E Harry che non si muove di un centimetro per spostarla, sistemarla, avvicinarla a sé.
È lei che ha deciso.
Boo.
Anche Louis sorride, sistemandosi meglio sul materasso per incunearsi fra lei e il bordo, i piedi sempre freddi di Harry intrecciati alla caviglia, e quella stupida nebbia che si condensa sugli specchi e i vetri.
Ma non fa più freddo, in nessuna parte di lui.
Non più.











Note: buonaseeeeeeeeeeeeeeera. Questo capitolo arriva con un giorno d'anticipo, non siete contenti??? Ahahahah
E' il penultimo, ve lo dico così, a bruciapelo :(
Sappiate che anche io sono in lutto, perchè sapere che il prossimo capitolo e poi l'epilogo concluderanno questa storia mi fa sentire davvero triste.
Molto triste.
Ma invece di pensare a questo, pensiamo che manca ancora un capitolo PIU' l'epilogo!!!! YAYXD
Sono riuscito finalmente a sentire Story of my life!!! E in onore di questa canzone finalmente meno pop, l'ho inserita nel capitolo!!!

 
   
 
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