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Autore: MaidOfOrleans    29/10/2013    3 recensioni
2010, a dodici anni dalla Battaglia di Hogwarts.
Luna Lovegood è di ritorno in Inghilterra dopo una lunghissima assenza insieme ai due figli gemelli, con alle spalle un matrimonio fallito. Neville Paciock conduce una vita invidiabile: professore di Erbologia ad Hogwarts, è sposato con una donna che lo adora e padre di due bambine.
E' passato moltissimo tempo dall'ultima volta che i due si sono incontrati. Passerà molto tempo, forse, prima che riescano a ricostruire anche solo l'ombra della complicità che li ha legati da adolescenti e che pare essersi persa tra fraintendimenti e silenzi. Sarà una, alla fine, la domanda a cui entrambi saranno chiamati a rispondere: è o non è troppo tardi?
Dedicata ad una delle mie muse ispiratrici, june93. Lunga vita al fandom di Harry Potter e a te, amica mia!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Hermione Granger, Luna Lovegood, Neville Paciock, Un po' tutti | Coppie: Luna/Neville
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Nella luce fredda delle sei del mattino, Neville Paciock rifletteva, ancora steso sul letto.
Al piano di sotto, in cucina, Hannah doveva essere intenta ad allattare Alice: regnava una calma innaturale, e lui la stava assaporando con la disperata commozione che conoscono solo coloro che sono genitori da poco. Neville non era il tipo di padre che si volta dall’altra parte con i tappi nelle orecchie e lascia che la moglie abbia a che fare da sola con il neonato piangente, e quella notte si era svegliato tre volte. Se glielo avessero domandato, avrebbe risposto che sì, non vedeva l’ora che la sua figlia più piccola uscisse dall’età delle poppate notturne; una parte di lui, però –una parte importante- avrebbe voluto conservare per un tempo indefinito Alice così com’era, morbida, con un pulviscolo di ciglia castane e le dita dei piedi che sembravano piselli in un baccello. Il solo pensiero bastò a stringergli lo stomaco, e si disse che, ad appena trent’anni, si stava facendo vecchio.
E così, non c’era modo di fuggire. L’inquietudine che lo gravava da mesi era diventata certezza, e non avrebbe saputo stabilire se questo lo sollevasse o minacciasse di affossarlo ulteriormente. L’incertezza, lo aveva sempre sostenuto, era il più prostrante degli stati in cui potesse trovarsi un essere umano; d’altro canto, aveva il pregio di permettere la negazione, la scotomizzazione, un’illusione di riparo. Ora che sapeva –lo sapeva, sì, ne era certo, proprio come era sicuro che sua figlia Augusta stesse dormendo nella camera accanto con il lenzuolo imprigionato tra i denti- non avrebbe più potuto coprirsi gli occhi e, come un bambino, fingere che il pericolo non fosse in grado di individuarlo.
Pericolo. Sorrise tra sé alla scelta di un termine tanto categorico. Anche se nessuno avrebbe scommesso su di lui, almeno non all’inizio, aveva dimostrato più volte la propria capacità di restare saldo di fronte al pericolo. Ancora avvertiva il retrogusto che gli aveva invaso la bocca durante lo scontro all’Ufficio Misteri,  durante il suo intero settimo anno e, ultima ma mai ultima, la Battaglia di Hogwarts: amarognolo, quasi metallico, un incrocio tra il sapore del tabacco e quello del sangue. Ricordava le contrazioni dei muscoli, irrisorie ma continue, che gli tenevano in moto le gambe anche quando avrebbe voluto abbandonarsi a un sonno troppo spesso negato. Era in grado di rivivere, sia pur solo per qualche istante, la calma glaciale che gli ottundeva i sensi durante gli scontri, di risentire le voci a rallentatore, di vedere, ancora e ancora, i movimenti dei suoi assalitori, quasi comici, nemmeno fossero stati tutti immersi nell’acqua. Proprio in quella quiete quasi ipnotica che lo coglieva all’improvviso di fronte alle minacce aveva trovato una forma personale di coraggio. Il pericolo che gli incombeva addosso quel mattino, nel letto ancora caldo del corpo di Hannah, non era tuttavia simile a quelli che si era trovato costretto a fronteggiare anni prima. E non poteva negare a se stesso che a volte, nel riflettere sugli eventi della Seconda Guerra Magica, provava una sensazione straniante; quasi come se il Neville Paciock le cui gesta sarebbero finite a breve nei libri di storia, insignito dell’Ordine di Merlino, Prima Classe, e venerato dagli studenti e dai loro genitori fosse un parto dell’immaginazione di uno scribacchino troppo fantasioso. Spesso, si trovava a domandarsi quale fosse il legame tra il viso di celluloide che lo osservava dalle figurine delle Cioccorane e quello che lui radeva ogni mattina, scoprendo una nuova rughetta d’espressione all’angolo delle labbra, contemplando la profondità quasi ostentata delle occhiaie.
What is your guess, darling?
Have we lived too much, too fast?
Era tornata.
Non si sprecò nemmeno ad aggiungere nella mente un soggetto, o un punto di domanda. Era tornata in Inghilterra, a poche centinaia di miglia da dove si trovava lui, e, per un secondo, Neville si sentì furibondo. Come aveva potuto? Chi l’aveva autorizzata ad attraversare chissà quale oceano in quello che sembrava uno schiocco di dita, e a planare come polline di tiglio nel posto dal quale era sparita tanto tempo prima? Non doveva averci pensato neppure per un secondo, lei e la sua testa fluttuante, la sua intelligenza capace di scavalcare le onde senza nemmeno domandarsi il perché.
La vergogna lo afferrò in una presa soffocante, e represse il desiderio di nascondere la testa sotto il cuscino. Tutto, per non sentire il senso di colpa; a volte, sembrava che avesse un senso perfino scaricare l’angoscia sulla persona nei confronti della quale si sapeva di essere in torto. Ebbene, questo sollievo, per quanto effimero e agognato, non era qualcosa che potesse concedersi. Si sarebbe negato il lusso di perdere la poca dignità che ancora gli stava impigliata addosso.
Dieci anni sono un tempo del tutto relativo. D’altronde, non lo sono tutti i tempi, persino tutti i luoghi? Per il cervello seienne di Augusta, ancora fresco ed elastico, dieci anni rappresentavano un’enormità, un baratro, poco meno del doppio dell’estensione della sua vita. Un numero a due cifre! Neville si chiese se la mente di un bambino fosse davvero in grado di elaborare il concetto di stare lontano per dieci anni da qualcuno che si considerava importante.
E d’altronde lui, adulto sia sul piano anagrafico che, si supponeva, su quello emozionale, sapeva forse fare di meglio? Ogni qual volta gli si presentava il pensiero, e accadeva piuttosto spesso, quei dieci anni si dilatavano fino a diventare un baratro, una crepa invalicabile, un buco nero che inghiottiva tutto ciò che orbitava nelle loro immediate vicinanze. Quali erano stati i passaggi che li avevano spinti fino a quel punto? E, soprattutto, una volta che si erano trovati in una situazione del genere, come avevano potuto decidere di rimanervi?
Malfermo sulle gambe a causa del sonno che tardava ad abbandonarlo, Neville si accoccolò di fronte all’armadio e frugò per qualche istante nell’ultimo cassetto, tra graffette storte, batuffoli di polvere e resti di piume d’oca spezzate. Trovò quello che cercava come sempre si trovano gli oggetti nei vani bui ed angusti: ferendosi. Tagliarsi con la carta era un’arte che padroneggiava piuttosto bene. Quando riuscì ad estrarle, le fotografie, già macchiate da innumerevoli liquidi, erano tinte di rosso ruggine lungo il bordo inferiore.
La prima della pila era senza dubbio quella ridotta nello stato peggiore, e non era difficile risalire al perché: Neville l’aveva tenuta nella tasca interna della camicia della divisa giorno dopo giorno e notte dopo notte durante il settimo anno di scuola, incurante dei rischi che avrebbe corso se fosse finita nelle mani sbagliate. Nessuno era in posa. Camminavano con naturalezza, le mani che di quando in quando continuavano a sollevarsi per proteggere gli occhi dal sole. Colin Canon- pensare a lui gli provocava sempre un dolore breve ma acuto a livello della gabbia toracica- aveva scattato quasi alla cieca, più che altro per controllare se la macchina funzionasse ancora dopo chissà che piccolo incidente, chissà che caduta.
Si trattava dell’ultimo giorno del suo sesto anno di scuola, e anche, per quanto all’epoca forse solo un paio di loro potessero immaginarlo, dell’ultima volta che si sarebbero trovati a indossare le cravatte di Grifondoro tutti insieme. Harry era all’estrema sinistra, e l’immagine lo aveva intrappolato nell’atto di aggiustarsi gli occhiali sul naso, che ripeteva senza interruzione da dodici anni. Nel riguardare il suo viso, Neville si sorprese dell’evidente contrazione delle labbra, delle sopracciglia tese. Si chiese, forse per la prima volta, che cosa il Prescelto avesse già saputo o congetturato sul proprio destino quel giorno di giugno, nel mormorio incessante degli alberi accarezzati dal vento. Il suo dito accarezzò la fronte di Harry, come a voler lisciare la piega che la divideva in due senza pietà, come a voler sollevare dalle spalle dell’amico un peso la cui portata aveva, fino ad allora, solo intuito.
Accanto a Harry, Ginny era l’unica ad avere un’espressione serena, il collo disteso, e a camminare con apparente noncuranza. Chi non la conoscesse avrebbe potuto pensare che fosse totalmente ignara della tempesta che di lì a poco avrebbe travolto la loro vita, ma Neville sapeva quanto la realtà fosse diversa. Era proprio questo ciò che ammirava di più di Ginny: la sua sconfinata fiducia nella risoluzione degli eventi per il meglio. Non si trattava di ottimismo, né di fatalismo; era piuttosto una quiete interiore, che conviveva con la capacità di reagire a qualunque dramma con impressionante prontezza. Persone diverse, rifletté Neville, erano brave a fare cose diverse. Lui era bravo a far crescere l’aconito, ad esempio. Ginny era brava a restare in vita.
Ron ed Hermione erano leggermente fuori fuoco. Entrambi guardavano oltre l’obiettivo, lontano; forse speravano di urlare un ultimo “Ciao!” ad Hagrid, forse di far abbassare a Colin la macchina prima che catturasse occhiaie, ciuffi fuori posto, occhi rossi. Le loro espressioni erano quasi simili, concentrate, troppo adulte per i visi ancora stropicciati di sonno. Non si toccavano, ma d’altronde, ricordò Neville, ai tempi della scuola non si toccavano mai. Non si era mai soffermato a domandarsi il perché, e forse, si disse, avrebbe dovuto.
L’uomo degnò appena di un’occhiata il suo alter ego sedicenne, curvo, con un vaso stretto al petto. La pianta che quasi gli nascondeva la faccia gli strappò un sorriso: mimbulus mimbletonia. Ricordò l’eccitazione che aveva provato quando se l’era trovata sul comodino, il sorriso orgoglioso di nonna Augusta nel ricompensare il neonato coraggio guerriero del nipote. Ad ogni modo, il suo sguardo scivolò oltre, posandosi sulla vera ragione per cui lui era andato in cerca di vecchie fotografie.
Luna era in pieno sole, ma i suoi grandi occhi grigio-azzurro non parevano disturbati dalla luce. Neville la osservò per qualche secondo, sentendosi come se uno Schiopodo Sparacoda l’avesse punto in pieno petto. Una delle sue piccole mani di celluloide si sollevava di quando in quando per scostare una ciocca bionda dalla fronte; l’altra, pallida e dalle unghie affusolate, era poggiata sul braccio di Neville che, rivolto verso di lei, le sussurrava all’orecchio parole cancellate dagli anni. Ancora ricordava il profumo che sempre aleggiava dalle parti del collo di lei: un misto di camomilla e zenzero. A distanza di tanto tempo, restava bellissima.
Once upon a time you and I,
When we were green and easy,
Fresh as lime and happy as a Sunday sky.
Quando, il giorno prima, Hannah gli aveva raccontato in un misto di eccitazione e reticenza di aver incontrato la loro ex compagna di scuola a Hogsmeade, Neville aveva sentito riecheggiare nella testa la conversazione da poco avuta con Ginny. Ti ha chiesto di me? Trent’anni, e sentirsi fermo a quindici. Per qualche istante, si concesse di farsi leggermente pena.
Sua moglie aveva detto di aver invitato Luna a cena. E lui, ovvio, non aveva potuto spiegarle che la prospettiva la riempiva di un imprecisato orrore. D’altronde, si disse, avrebbe saputo spiegarglielo? Lui stesso, guardandosi alle spalle, trovava difficile comprendere. Perché sentiva che sarebbe stato così terribile rivederla?
E, ben più importante, come? Come aveva fatto a lasciarsela scivolare tra le dita tanto tempo prima?
La voce della sua primogenita lo riscosse dall’inebetimento in cui era piombato negli ultimi dieci minuti.
“Papà! Papà, ci sei?”
Sì, Neville c’era. E un incontro, per quanto sgradevole o imbarazzante, questo non l’avrebbe mai cambiato.
What is your guess, darling?
Have we missed our chance?
Have we changed our hopes for fears
And our dreams for plans?
 
Il pranzo della domenica si era sfaldato come sempre accade quando il cibo è particolarmente buono: i bambini più piccoli dormivano, quelli dai quattro anni in su correvano dietro una vecchia palla di cuoio con una sorta di languida lentezza, gli uomini sedevano in soggiorno con bicchierini di liquore in mano e le donne, anch’esse meno efficienti del solito, bighellonavano in cucina anziché riordinare. I riccioli scuri di Angelina sembravano tracciati col pennarello sulla schiena della proprietaria che, china sulla cognata, le massaggiava il collo. Ginny tentava di mantenere un’espressione stoica, ma aveva le labbra blu a furia di stringerle.
“Ahia!” esclamò dopo qualche minuto, sottraendosi alla presa delle mani color caramello. “Mi stai massacrando, Angie.”
“Ti avevo avvertito”, Angelina incrociò le braccia muscolose e fissò la giovane ex atleta con disapprovazione. “Dovresti davvero venire a farti dare un’occhiata più spesso. Sai che lasciare lo sport agonistico quasi all’improvviso non fa bene alla postura.”
“E nemmeno alla circonferenza coscia”, punzecchiò Hermione, in una convincente imitazione della voce di Pansy Parkinson. La loro ex compagna di scuola conduceva, ora, un programma di consigli “fitness e beauty” su Radio Strega Network: nell’ultima settimana, Luna aveva appreso che ascoltarlo sabato pomeriggio e sfotterlo con cattiveria dopo il pranzo del giorno successivo era un colpevole piacere cui le sue amiche detestavano rinunciare.
“Io ieri me lo sono perso!” si stava infatti lamentando Ginny. “Ho…ho avuto un po’ da fare. Riassunto rapido, vi prego.”
“A quanto pare, assumere porridge è più deleterio che importunare un Doxie” rise Angelina, rubando qualche briciola di crostata al rabarbaro.
“Che sciocchezza”, Molly sedeva a capotavola, circonfusa dall’autorità della matriarca. Alla sua destra, Andromeda Tonks, appena più giovane di lei ma con gli occhi quasi più vecchi, si godeva il benessere illusorio dato dallo stomaco pieno e dall’acciottolio delle voci femminili intorno a lei. “Vi ho tirati su a porridge e salsicce, e non mi sembra che siate usciti proprio male.”
“Oddio. Guarda Ron”, rise Ginny, ed Hermione le rivolse una poco convinta linguaccia. Luna sedeva in silenzio. Il calore dell’aria un po’ viziata di quella stanza era quanto di più rassicurante avesse incontrato negli ultimi mesi, e si sentiva grata in modo quasi patetico. Temeva che, se avesse aperto bocca, le si sarebbe spezzata la voce.
So, if you ever come and find me crying,
Now you know, now you know why.
“Allora, com’è andato il primo giorno di lavoro?” Le chiese tuttavia Andromeda, nonostante l’argomento fosse stato già ampiamente dibattuto a tavola. Lei aveva fatto un salto solo per una fetta di torta e quattro chiacchiere.
“Non male, direi” rispose lei, lottando nuovamente contro il desiderio di uscire dal suo corpo e guardare la scena dal di fuori, lasciando che il pilota automatico replicasse al suo posto. “Per il momento, ci sono un sacco di scartoffie, ma diciamo che un po’ di tranquillità è quello che ci vuole.”
“Certo che però dall’avventura alla scrivania è un bel salto”, ponderò Hermione, arricciandosi una ciocca castana intorno al dito. Per anni, Luna aveva sentito una certa estraneità nei confronti di Hermione: la distanza che la razionalità preponderante in una e assente nell’altra scavava tra di loro le era sempre parsa invalicabile. Da quando era tornata, però, si era resa conto che l’abisso tra loro si era notevolmente ridotto, se non annullato. E, siccome era improbabile che un membro rispettato del Ministero con due figli e una guerra magica alle spalle avesse fatto un passo verso l’affascinante regno dell’insensato, Luna aveva dedotto che doveva essere stata lei a scoprire la sicurezza della logica. Non avrebbe saputo spiegare come mai il pensiero la intristisse tanto.
“Anche dalla scopa ai pannolini, se è per questo”, fece notare Ginny. “Non è che stiamo invecchiando?”
“Oh, per favore!” Rise Andromeda. La sua somiglianza con la sorella Bellatrix non sembrava turbare le altre, che dovevano esserci abituate, ma Luna si sorprendeva di quando in quando a fissare il suo viso scavato con un brivido che le accarezzava la schiena. “Vecchie, voi? Un po’ di rispetto per noialtre cariatidi!”
“Smettila, Andy” sbuffò Angelina, fingendosi scocciata. “Piuttosto, come sta Teddy? Ti ha scritto?”
“Ieri”, annuì la donna, e  un sorriso le ammorbidì i tratti tesi. Come c’era da attendersi, poiché aveva perso marito, figlia e genero nello spazio di pochi mesi, il nipote ormai dodicenne era diventato la sua ragione di vita. “Dice che va tutto benissimo, e che Neville resta il suo insegnante preferito.”
“Che ruffiano!” ridacchiò Molly “Solo perché Hannah ci porta sempre litri di Burrobirra.”
Il nodo che strizzava le viscere di Luna da due giorni parve all’improvviso così stretto da mozzarle il fiato. Nel secondo di silenzio che seguì, Ginny la guardò fissa, dandole la spiacevole sensazione di essere trasparente e che i suoi pensieri fossero stampati in fiammanti lettere rosse nell’intercapedine traslucida della testa.
“A proposito di Hannah”, esclamò Hermione, apparentemente ignara del gioco di occhiate che si stava svolgendo. “Che stupida, me lo stavo dimenticando! L’ho incrociata ieri mattina a Diagon Alley. Mi ha chiesto se siete libere la prossima settimana: vuole organizzare una cena di bentornato per Luna ai Tre Manici di Scopa, e invitare noi e consorti.”
“Che pensiero carino”, approvò Angelina con vigore. Luna annuì, sentendosi come la statuetta del gattino portafortuna che Rolf le aveva comprato a Shangai. Cena. Bentornato. Consorti. Neville. Sobbalzò: da anni non si concedeva di articolare quel nome neppure nella mente, ed ora…
“Venerdì andrebbe bene a tutti?” domandava intanto Ginny con il consueto pragmatismo. Continuare ad annuire le sembrò la scelta meno traumatica.
“Devo vedere a che ora George può staccare dal negozio…”
“E bisognerà sentire Fleur”, ricordò Hermione “L’invito sarebbe esteso a lei e Bill.”
“Figuriamoci”, borbottò Molly “Quelli là chi li vede? Il viaggio da Villa Conchiglia non è così breve, non con i bambini, che non possono Smaterializzarsi.”
“Percy e Audrey?”
“Tanto devo chiamarla in ogni caso, per sapere se sta meglio.”
“Ma alla fine era proprio varicella di drago?”
“Pare di sì, purtroppo. Sai, capita, a lavorare tutto il giorno in mezzo ai bambini…”
Gradualmente, le voci delle altre donne sfumarono in un brusio di sottofondo, e Luna si trovò, come spesso accadeva, sola, all’entrata del labirinto della sua mente. Neville. Impressionante come una diga, psichica o in mattoni, possa reggere per anni e poi sgretolarsi di colpo all’apparire della minima crepa. Neville. Neville. Neville. Sussurrò quelle sette lettere in silenzio, l’affermazione secca della N, la v scivolosa, il salto da vuoto allo stomaco della doppia l. Neville. L’anello d’oro di Hannah, ho partorito da poco, gli Scarafaggi al Grappolo e dieci anni. Dieci incredibili anni.
Quando Lorcan cadde e si sbucciò un ginocchio, richiamando la sua attenzione, Luna avvertì un sollievo che la fece sentire la madre peggiore che avesse mai messo piede in Inghilterra.
Have you, have you felt the melancholy, darling,
Wishing the time hadn’t passed?
Can you tell me how it used to be,
When we really cared?
And when love was on our side,
On our side.



 
Uei belle gggioie!
Come promesso alla mia june93, aggiorno prima di partire per il Lucca Comics (*___*); mi scuso se il capitolo e un po' corto, ma il tempo é tiranno. Mi scuso altresì per aver tirato avanti pagine e pagine di seghe mentali, però, diciamo, è un po' un #sosorryI'mnotsorry: purtroppo, l'esperienza mi ha insegnato che il novanta per cento di una relazione consiste in masturbazioni intellettuali ininterrotte. Dunque, siccome il mio obiettivo è quello di rendere ciò che scrivo il più realistico possibile, ho dato un certo spazio alle paranoie xD in ogni caso, fatemi sapere che cosa ne pensate, e siate cattivi/e! Prima di eclissarmi, ringrazio, nell'ordine: june93 di esistere e della carinissima recensione; Speir, che mi ha regalato un momendo di felicità recensendo il capitolo precedente; Larrys_Bravery e I get a little bit bigger per avermi inserito tra gli autori preferiti; tagliarsi_con_gli_origami, perché le sue OS mi hanno fatto recuperare le speranze riguardo al futuro artistico dell'umanità.
Questo capitolo è dedicato a Imp, la mia sorellina, senza la quale non avrei mai capito il funzionamento del codice HTML. Sei una rottura di balle infinita, ma non so che cosa farei senza di te. 


 
  
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