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Autore: AxelKyo    01/11/2013    3 recensioni
Vi è mai capitato di immaginare i nostri forti e valorosi pirati in versione mocciosi buffi e adorabili? A me sì, eccome! Ecco il risultato delle mie strambe fantasticherie!
1- Rufy
2- Zoro
3- Ace
4- Nami
5- Kidd
Genere: Avventura, Comico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mugiwara, Portuguese D. Ace, Supernova, Trafalgar Law, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Terzo capitolo

Portuguese D. Ace

L’odore fresco e gradevole dell’erba lo circondava, e il vento intenso e freddo della notte lo scuoteva, scompigliandogli i capelli scuri come le tenebre e provocandogli brividi a fior di pelle, come per esortarlo ad alzarsi e tornare a casa. Guardava il cielo stellato, con gli occhi profondi e vividi colmi di malinconia, una malinconia che da tanto, troppo tempo era la sensazione che permeava costantemente il suo cuore. Insieme alla rabbia. All’insicurezza. Alla consapevolezza di non essere gradito in questo mondo. Un sospiro affranto uscì dalle sue labbra, senza che se ne rendesse conto. Più guardava la volta stellata, più il suo sconforto aumentava. Anche gli astri, che a rigor di logica non provavano sentimenti, in quel momento sembravano così vitali, brillanti. Felici. E il divario tra lui e quei sentimenti cresceva, come un abisso, come un’enorme e gigantesca fenditura che si apre nel terreno arido e secco di una landa desolata dopo un terremoto fortissimo. Arido come il suo cuore, forte e crudele come la sua vita. Serrò gli occhi, per impedire alle lacrime di uscire, e si addormentò, con un opprimente senso di vuoto nel petto, e con una domanda che martellava incessante nella sua mente: c’era anche un solo misero motivo per cui valesse la pena per lui d’esistere? Si addormentò senza una risposta, ma ancora non sapeva cosa il destino avesse in serbo per lui.

Era mattina. Intravedeva una forte luce attraverso le palpebre, i raggi tiepidi del sole appena sorto gli scaldavano gli indumenti, bagnati della rugiada notturna. Una cornacchia gli beccava il naso, gracchiandogli concitatamente nelle orecchie con la sua voce stridula e odiosa, tentando disperatamente di svegliarlo e risparmiargli una fine infausta e ingloriosa. Ma era troppo tardi, i meccanismi farraginosi del fato si erano ormai messi in moto, e al signor Destino non gli importava proprio nulla di quale fosse l’opinione del malcapitato in tal senso. Un urlo disumano si propagò nell’aria, inizialmente lontano, poi sempre più vicino ed inquietante. Il ragazzino spalancò gli occhi, perplesso e disorientato, mentre il grido era pericolosamente vicino. Scattò in piedi a gran velocità. Grosso errore. Un oggetto non identificato, dal quale proveniva l’urlo terrorizzato si avvicinò a velocità folle dal cielo, dritto in rotta di collisione con lui. Ormai l’impatto era prossimo. Il ragazzo fece giusto in tempo a rivivere per qualche secondo le scene della propria breve vita, che scorrevano rapide davanti ai suoi occhi come una serie di diapositive in bianco e nero. In un istante, vide tutto buio e sentì un gran dolore alla testa. E lui che credeva che fosse Dadan a detenere il record mondiale per la zucca umana più dura! Povero illuso! Questa si che era una capocciata dalle dimensioni cosmiche! Il suo ultimo pensiero fu: “Se la giornata è tutta così, voglio morire ora!”  poi l’oblio. Le sue aspettative furono disattese, e sopravvisse al botto. Rimase stordito per un tempo indeterminato, fin quando non si sentì scuotere bruscamente dalle spalle, mentre una voce infantile e acuta lo richiamava a suon di “ehi!”, “sveglia!”, “ma che è, sei morto o dormi??”. Imbufalito, si riprese tutto d’un colpo, e scattò a sedere, urlando a squarciagola un “che cavolo vuoi da me!” ad un ragazzino più piccolo di lui, basso e magrolino, con una zazzera scura e corta sulla testa e una lunga cicatrice sotto l’occhio sinistro. Questo bastò, tanto che il bambino, spaventatissimo, strillò e balzò indietro di alcuni metri, cadendo di fondoschiena e ammutolendosi sul colpo. Il ragazzo più grande si alzò borbottando e scuotendosi di malavoglia la polvere dai vestiti, lanciando di tanto in tanto occhiatacce al più piccolo, che lo fissava con gli occhi spalancati, sull’orlo di una crisi di pianto. Che, purtroppo per i due poveretti, già provati sul lato fisico e nervoso, non tardò ad arrivare. Il piccino scoppiò a piangere, disperato. Sia per quello che aveva passato, evento culminato con il volo che si era appena concluso, in modo piuttosto tragico tra l’altro, sia per il dolore fisico, al sedere e alla testa, materializzatosi in un bel bernoccolo, sia per il malo modo in cui il suo interessamento per lo stato dell’altro bambino era stato accolto. Insomma lui non era né un aereo, né tantomeno un falco, e non poteva certo decidere la traiettoria con cui cadere! Se fosse stato per lui, avrebbe optato per una gigantesca vasca colma di cibo appetitoso, non di certo quel prato! Mentre rifletteva sul suo destino poco incline alla gentilezza, le sue lacrime avevano formato un fiumiciattolo che, se l’altro non fosse intervenuto per porre fine alla sua enorme tristezza, si sarebbe presto trasformato in un fiume in piena, che avrebbe allagato prima il villaggio, poi l’isola ed infine l’intero globo terrestre, dando origine al Diluvio Universale 2.0     L’altro ragazzo, con i capelli lunghi sino alle spalle e le guance punteggiate di lentiggini, si avvicinò al mocciosetto, grattandosi la nuca, e con espressione raddolcita tentò di consolarlo. Il bambino smise di piangere, e con stampata in volto l’espressione più melodrammatica che riuscì a fare, cominciò a raccontargli le proprie sciagure, parlando a raffica e senza neanche lontanamente chiedersi se all’altro interessasse quello che gli era successo. Gli raccontò di come gli adulti avessero deciso che lui dovesse andare a vivere in un’altra casa, senza neanche interpellare lui, il diretto interessato, di come giunto lì si fosse perso e, invece che dolcezza e comprensione avesse trovato un gran calcione nel sedere, ricevuto da un burbero d’un bandito, e di come quindi loro due si fossero incontrati. Il ragazzo, con il cervello in fumo e le orecchie che gli imploravano di scappare lontano da quel moccioso davvero troppo chiacchierone, disse di chiamarsi Ace e si dichiarò disposto ad accompagnarlo alla sua nuova casa. Chiamasi istinto di sopravvivenza: prima l’avesse portato lì, prima si sarebbe liberato di lui e quindi dell’essere che in quel momento stava attentando pericolosamente alla sua salute psichica. Purtroppo, quella per il moretto era proprio una giornata no: il bambino, che dapprima si era vantato, gonfiando il petto, di sapere esattamente dove dovesse andare (e come avrebbe potuto, essendosi perso?), si era rivelato come la persona completamente priva di qualunque senso dell’orientamento quale effettivamente era. Avevano girato in tondo per due ore, camminando sotto il sole cocente. Se il bambino diceva di andare da una parte, potevi metterci la mano sul fuoco (e anche il braccio e l’intero corpo, già che ci siamo) che dopo mezz’ora di giro dell’oca saresti ritornato al punto di partenza. E questa volta il piccolo pestifero avrebbe indicato come direzione “che era sicuro al 1000% fosse quella giusta da percorrere” esattamente quella opposta a quella che pochi minuti prima aveva additato col dito appena tirato fuori dal naso. I due avventurieri erano allo stremo delle forze: si trascinavano, esausti, con la lingua a penzoloni, come se stessero attraversando da giorni un deserto insidiosissimo, e con la pancia vuota. Il rumore che i loro stomaci producevano, reclamando a gran voce del cibo (magari dei succulenti cosciotti di carne) era addirittura ancora più forte e selvaggio del ruggito di un leone che dichiara guerra ad una rivale. Se nel bosco in cui i due si trovavano ci fossero stati dei leoni, con tutta probabilità sarebbero scappati a zampe levate, miagolando come dei gattini impauriti. E insieme a loro sarebbero scappate tigri, pantere, orsi, lupi, coccodrilli, rinoceronti, elefanti, mammut, triceratopi, t-rex e l’intera fauna e flora reale ed immaginaria. Ma qui non siamo a Little Garden. Il ragazzino lentigginoso decise che era davvero troppo: va bene il destino avverso, la tristezza, un proiettile umano che centra la propria testa come se avessi disegnato sulla fronte un bersaglio, ma la fame no, tutto ma questo non lo poteva sopportare. Quindi propose all’altro di andare a casa sua, riposarsi, ma soprattutto mangiare, e poi ripartire alla ricerca, e l’altro, ormai accecato dalla fame, colse la proposta come un miraggio abbagliante e, svanita miracolosamente ogni stanchezza, accettò con foga. Con talmente tanta foga, che partì a razzo verso una direzione, e l’altro dovette urlargli dietro che la propria abitazione era dalla parte opposta. Il bambino tornò indietro con velocità ancor maggiore, e gli insulti le gentili richieste del padrone di casa non riuscirono a farlo rallentare. Il ragazzo, preoccupato che se fosse giunto in ritardo non avrebbe ritrovato neppure una briciola, si lanciò all’inseguimento. Straordinariamente (chissà, forse la fame fa veramente miracoli) giunsero a destinazione senza sbagliare strada neanche una volta. Sulla porta di casa trovarono una donnona alta, robusta, dall’aria scorbutica e i capelli arancioni, che appena vide il buffo bambinetto gli chiese come si chiamasse. Quando il bimbo rispose con tono di ovvietà di chiamarsi Rufy, la donna si schiaffeggiò la mano in faccia, intuendo che razza di calamità naturale stesse facendo entrare in casa propria, e annunciò con voce rotta dalla disperazione che da quel momento avrebbe vissuto lì. Gli occhi del bambino si accesero di felicità, mentre cominciò a saltellare attorno all’altro ragazzino come un cagnolino festoso. Quello era in uno stato catatonico, con la mandibola che si era schiantata a terra. Gli unici pensieri di senso logico furono esclamazioni d’incredulità, di depressione e drammatiche frasi di cordoglio per i propri nervi, che in breve tempo sarebbero andati all’altro mondo, seguiti a ruota dalla sua intera persona. Non condividendo per niente la gioia dell’altro, entrò in casa, preceduto dagli altri due, e si chiuse la porta alle spalle, con un tonfo sordo.
Erano passate alcune settimane dall’arrivo di Rufy nella sua vita, e le cose erano molto cambiate. Certo, non mancavano i litigi e i momenti in cui era giù di morale, ma questi erano molto più rari. Era troppo impegnato a tirar fuori dai guai quel piccolo scalmanato per avere altri pensieri per la testa. Una notte si ritrovò nello stesso prato nel quale aveva incontrato il bambino, e anche questa volta si mise ad osservare le stelle che ammiccavano, lucenti. Sentì dei passi che si avvicinavano, e vide che Rufy di era seduto accanto a lui. Senza pensarci, gli chiese:
“Secondo te, io merito di vivere?” 
Durante il breve momento in cui il bambino era rimasto in silenzio, Ace si pentì di aver posto così facilmente una domanda tanto avventata, ma la reazione dell’altro lo spiazzò. Rufy lo guardava serio, con i suoi grandi occhi neri che riflettevano i luccichii del cielo sopra di loro. Poteva sembrare un bambino sciocco e infantile, ma si era accorto da subito che c’era qualcosa nell’altro che non andava, che gli impediva di vivere serenamente, che poneva un limite invalicabile alla sua felicità.
“Certo che lo meriti” rispose sinceramente. “Non mi importa chi tu sia, ma di certo sei la persona più straordinaria che io conosca, e sono fortunato ad avere un amico come te. Se tu non ci fossi, io non potrei vivere così felice come sono ora. Se tu non esistessi, penso proprio che ti inventerei” concluse, con un gran sorriso smagliante dipinto in viso. Ace spalancò gli occhi, scosso dallo stupore. Assaporò quelle parole come se fossero un miele dolcissimo, e finalmente sorrise, come mai aveva fatto prima, perché aveva sentito distintamente la pesante coltre di tristezza che gli opprimeva il cuore infrangersi sotto i colpi della bontà di Rufy.
“Grazie, anch’io sono contento di avere te, birbante e mangione che non sei altro!” disse, scompigliandogli i capelli e scoppiando a ridere insieme all’altro. Poi entrambi tornarono a guardare le stelle, sorridendo silenziosi. Ed Ace capì, capì che Rufy era la risposta alla sua domanda, che era “piovuto dal cielo” perché le stelle, rispondendogli, volevano condividere con lui la loro felicità. E si addormentò, con le labbra distese in un sorriso, e il cuore che finalmente gli palpitava nel petto libero e gioioso.
 



Angolo dell’autrice
Ciao a tutti! Ecco a voi il terzo capitolo, che dedico ad Ace, con la fantastica collaborazione di Rufy! Lo so, non è esattamente comico, specialmente l’inizio, ma pensando all’infanzia di Pugno di Fuoco purtroppo le idee tristi vengono spontanee. Spero di essere riuscita a farvi sorridere almeno durante lo svolgimento! Per quanto riguarda l’incontro tra i due e l’assenza di Sabo, lo so, ho sconvolto le cose, ma ho seguito l’ispirazione, senza riflettere minimamente su quello che scrivevo (come sempre) e la storia è venuta così. Spero vi piaccia lo stesso!

A presto, ringrazio tutti i lettori silenziosi, e anche quelli che recensiscono, preferitano (?), seguono!

AxelKyo

Disclaimer: One Piece e i suoi personaggi appartengono ad Oda, non a me
                                                    

 
  
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