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Autore: Gaia Bessie    08/11/2013    4 recensioni
Qualcuno dice che, per Annabeth Castellan, la guerra non è mai finita. Lo s'intuisce dal sorriso carico di malinconia che dedica ai sottomessi della gerarchia di Crono, o dalle parole troppo dure che rivolge al marito. Siamo come estranei, Luke, estranei con dei ricordi. Eppure si dice che la vita non ci lasci mai cicatrici che non siamo in grado di sopportare. Oppure ci lascia sulla terra per essere trafitti con aghi d'acqua.
[Luke/Annabeth/Percy; OC | Post fine quinto libro alternativo| Mini long| Angst]
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Nico di Angelo, Percy Jackson, Rachel Elizabeth Dare
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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No, non mi sono assolutamente scordata (di nuovo) che oggi è venerdì. O, meglio, l'ho fatto. Ma non lo ammetterò, quindi sto nuovamente aggiornando dopo cena perché sì. Comunque, sorvoliamo sulla mia latente idiozia: dopo sedici anni a conviverci, ci ho fatto il callo. Dicevamo. Questo capitolo, fondamentalmente, è strano. 
L'ho scritto, come un po' tutta la storia, pensando a qualcosa (o forse qualcuno) e quindi sono giunta a una conclusione un po' sbagliata che fa un po' male a tutte quante, prima o poi. La trovate nella dedica, perché questo capitolo non è per lui, ma per lei: se non ci fosse stata, probabilmente avrei meno calli sulle mani e un capitolo in meno per questa storia. E forsa sarei vagamente un po' più sana di mente, ma non c'è troppo da sperarci. E no, non la odio: come possiamo odiare chi si trova nella nostra stessa situazione? Di conseguenza, vi prego, non odiate la povera Summer. L'avrebbe fatto chiunque, forse anche io. In fondo, la protagonista del capitolo è lei.
Buona lettura, le citazioni le trovate in fondo al capitolo, come sempre. A venerdì prossimo.




 

 
 
 
Questo è per lei:
mia cara Summer, fosse per te,
non mi sarei fossilizzata su un dondolo e non avrei capito una cosa.
Arriverà sempre qualcuna più bella di te, pronta a toglierti tutto



Un giorno Rachel entra nella stanza da letto del Generale e trova Annabeth inginocchiata sul pavimento, davanti al caminetto, la gonna aperta in una ruota attorno alle gambe e dei fogli che ne formano i raggi. C'è scritto qualcosa, in una grafia così minuta che probabilmente perfino lei non riesce a leggerla, poche parole orientate in un angolo del foglio che poi seguono un metro invisibile, scivolando verso l'angolo opposto. Con gesti lenti, misurati, Annabeth afferra un foglio alla volta, scrutandolo con attenzione e scuotendo la testa con aria rassegnata. Il foglio viene accartocciato fra le sue dita troppo piccole. L'attimo dopo è nel camino, annerito e bruciato dalle fiamme.
«Cosa stai facendo?» mormora Rachel, portandosi una mano alla bocca. Le corre accanto, preoccupata, in un preoccupante dejà-vù che le ricorda di quando l'ha trovata nella vasca, ancora vestita, che tingeva di rosso sangue l'acqua. «Annabeth, vieni via di lì».
Annabeth ride, gli occhi liquidi come mercurio, la testa gettata all'indietro per mostrare i denti da lupo. «Lui è morto, Rachel» dice, la voce rotta. «Percy è morto».
La ragazza sospira, lasciandosi cadere accanto alla signora Castellan, in un mulinare di gonne. «Lo so» mormora, affranta. «Andrà tutto bene, vedrai».
Ma Annabeth non risponde, si limita a gettare un altro foglio nel focolare. Rachel trasalisce, in quell'attimo in cui riesce a scorgere quelle parole disperse come farlfalle d'inchiostro sul foglio. È solo un attimo, però, perchè il secondo dopo il foglio non c'è più. Ma lei ha fatto in tempo a leggere.

 

 

***

 

«Stava bruciando dei fogli» Rachel Dare appare agitata alla luce delle candele, gli occhi dilatati dall'angoscia. «Li accartocciava e li gettava nel fuoco».
Luke alza un sopracciglio, annoiato. Sembra ancora annebbiato dai postumi della serata precedente o, forse, è vero che il Generale sta diventando insensibile nei confronti di sua moglie, come dicono le malelingue: evidentemente l'ha trovata, in quell'assenza perpetua, in un'altra donna di più facili favori.
«Cosa c'era scritto?» domanda, sbadigliando. Ha gli occhi cerchiati e rossi, irritati, forse liquidi al pensiero della moglie a cui non chiede più niente.
«Hai smesso di amarmi1».

 

 

***

 

L'ha destabilizzato, come ogni volta: gli ha sbattuto in faccia una verità che cominciava a ignorare già da un po', col lento passare di quei giorni che si sono portati un briciolo di quella novità di una vita senza quel rivale. Così ha smesso di cercare di carpire sua moglie, sicuro di aver vinto la battaglia. E poi ha capito di essersi illuso, perché Percy è sempre lì. È in quei fogli bruciati nel caminetto, in quel sorriso che Annabeth sfoggia abitualmente per nascondere le lacrime che avanzano. E lui non sa come prenderla, quando si nasconde sotto le coperte e non parla, non a lui. La guarda singhiozzare col viso nascosto fra le mani, proprio lei che aveva promesso che non avrebbe più pianto. Ed è in quel momento che spesso si accorge che forse non ha mai smesso di cercarla.

 

 

***

 

Non ha mai smesso di cercarla: la cerca in quelle prostitute che girano per la città alzando le gonne per una manciata di monete, cercando di adescare un Tenente o un Generale per poter metter da parte un po' più di soldi, almeno per una sera. Luke Castellan ritrova sua moglie in quelle prostitute dai capelli biondi tinti di un rosso sgargiante che scompare nelle tempie, con l'oro che avanza. Hanno tutte gli occhi gonfi, cerchiati – e magari lui pensa che sia perché hanno pianto la morte di qualcuno, un ribelle senza ribellione – e le labbra screpolate, la pelle costellata da graffi e morsi stantii. A lui va bene così, forse perché di proposito lui cerca Annabeth dove sa di non poterla trovare: e ogni sera sceglie una bruna sorridente e dagli occhi scuri che sicuramente gli farà perdere il controllo. Va bene così. Gira al largo dalle bionde delicate e fragili, dal sorriso malinconico e gli occhi liquidi, quelle che quando lui passa tormentano con le dita una collana di plastica, dalle perline colorate.
E lui, qualche volta, quando vede una di loro ha la tentazione di allungare le mani e stringere il collo candido con quelle collane. Forse perché solo loro che ricordano troppo quella moglie abbandonata davanti al caminetto acceso, senza il velo leggero del suo abbraccio a scacciare via gli incubi. Non ha paura di uccidere davvero una prostituta minorenne e ubriaca, un giorno: d'altronde, lui è notoriamente senza spina dorsale, senza scuore, senza niente. Con tanto sangue sulle mani da rendere proibitivo lo stillare una lista delle vittime senza poter evitare di sorprendersi. Va bene così. A Luke non dispiace la sua vita, non dispiace aver perso di vista sua moglie.
Ma continua a cercarla: quando l'esigenza di vederla si fa quasi dolorosa e preferisce andare lontano da casa, avventurandosi nei vicoli malfamati per non trovarla o trovarne una che non sarà mai come lei. E poi c'è quella ragazza di cui conosce solo il nome – sempre che sia quello vero – che porta anche a casa per ricordarsi di una persona che non conta poi così tanto: per anni, era riuscito a convincersi che Annabeth era il mondo. E poi era crollato, notando l'impossibilità di venir corrisposto in un rapporto univoco come il loro, dove lui cedeva sempre e finiva per addossarsi tutte le colpe. Aveva vissuto per anni venerando solo lei, finché non ce l'aveva fatta più.
E poi è arrivata Summer: si è presentata come l'estate che viene a maggio, aprendo una porta senza chiedere il permesso. E lui l'ha lasciata spalancata, quella porta.
Ha permesso a una ragazza bionda e minuta, con occhi di un celeste un po' sbiadito – avrà mai il coraggio di trovarne una con gli occhi grigi? – d'insinuarsi nella sua vita. Gli sono sembrate infinite le notti in cui le si è premuto contro, con gli occhi socchiusi per pensare a un'altra cosa – persona che ancora un po' l'ossessiona. Ancora un po', ma va bene così, lui lo sa: è giusto anche così, quando se la scrolla di dosso e si alza e continua a camminare come se avesse un fantasma a inseguirlo. E si lamenta sempre perché, fondamentalmente, Summer non sa fare il suo lavoro – fargli dimenticare qualcosa o qualcuno – e lui proprio non ce la fa a non chiudere quella dannata porta.

(Del suo cuore. E magari non lo dice, ma a volte lei gli sembra di troppo in quel mondo popolato dall'unica persona che è riuscito a salvare).

Ma, forse, la semplice verità è che Luke non sa come andare avanti: la vita gli ha imposto di salvare l'unica persona che non riesce a comprendere, quella che l'ossessiona con riflessi che trova anche in posti dove lei non c'è, anche nella sua assenza che si fa sempre più pesante e duratura. La vede perfino in quei bambini un po' grassottelli che trotterellano dietro a madri dal sorriso triste, urlandogli in silenzio una frase che credeva di aver dimenticato. O forse non se ne ricorda solo perché è l'ennesima promessa non mantenuta da annotare sul suo conto, prima di presentargli il benservito. La verità è che probabilmente gli pesa sulla coscienza, quel rifiuto.

(Siamo una famiglia, Luke. L'hai promesso2).

Luke nasconde le orecchie nelle mani, ogni volta, per dimenticarsi di quel sussurro angosciato della moglie bambina.

Solo che non riesce a fuggire per sempre, prima o poi s'imbatte sempre nella cosa che teme di più: se stesso. L'immagine un po' vivida e un po' sbiadita che costella i suoi ricordi come un'entità lontanissima che lui non riesce a non temere. Teme, più di ogni altra cosa, di non essere all'altezza di quel primo Luke.
Ha ragione, si dice, ogni volta che allontana Summer con un gesto irritato della mano. Non lo è. Altrimenti non si troverebbe a cercare Annabeth nei capelli biondi di una ragazza senza famiglia, senza soldi, che si solleva le gonne per una manciata di monete. La cosa che gli da ampiamente sui nervi è che la trova, in quelle sottane.
E solitamente comprende che forse la cerca per non trovarla e che l'unica scelta giusta sarebbe tornare indietro, in quella stanza che puzza di lacrime e carta bruciata.
Ma non lo fa: si accontenta di un'altra serata a mandar via ricordi molesti, alimentando quella nebbia urticante che gli confonde i pensieri. Va bene così.
Vanno un po' meno bene quelle mani che risalgono sul suo petto, confondendolo, lasciandolo a cercare un paio di occhi grigi che non incontra mai.
«Non va bene» è il sussurro che si disperde nell'aria. Summer scuote la testa, i lineamenti elfici contratti in una smorfia di disapprovazione. «Lei ti sta distruggendo».
Luke si volta, un lampo che gli rischiara il viso, e fa sembrare la cicatrice sul volto una ferita aperta. «Non parlare di lei» sibila. «Non osare parlare di lei».
Si alza di scatto, irrequieto, pronto a balzare. Continua a tormentare l'angolo della camicia sbottonata, cercando di mandar via quel senso di colpa che gli urla di tornare da Annabeth, di salvarla e smetterla di cercare in quei posti dove non la troverà mai. Si ferma solo davanti alla sua scrivania, ingombra d'oggetti e fogli di carta, alle penne gettate alla rinfusa sulla superfice lignea. Si ferma, pietrificato dal riflesso di un qualcosa che gli suona particolarmente familiare.
«Vorrei riuscire a condizionarti come fa lei» ammette Summer, in un soffio. Luke non parla, nemmeno le impone di stare zitta e non dire certe cose, non le urla che lei è solo un dannato riflesso mandato lì per farlo impazzire. «Più credo di averti capito più lei riesce a farlo meglio di me, pietrificandoti dove io non posso arrivare».
Luke sfiora con la punta delle dita un foglio di carta appallottolato, bruciato in un angolo, spalanca gli occhi con aria colpevole. L'ha rubato lui da una massa informe di carta e inchiostro, farfalle di carta bruciate nel fuoco, ustionandosi le dita con le scintille del caminetto. Accartoccia il foglio, gettandolo sotto il tavolo.
«Lei non è qui, adesso» ringhia lui, ferito, stringendosi in quelle spalle piene di tagli. Già cominciano ad aprirsi, oggi è martedì. «Sei tu che continui a parlarne».
Summer sorride e, per un attimo, Luke si convice di vedere delle farfalle di carta che le volteggiano attorno. «Lei è sempre qui» risponde, semplicemente. «Ma solo perché sei tu a volerla qui, altrimenti se ne andrebbe». Lo guarda, dritto negli occhi, sfidandolo a contraddirla. Ma lui non lo fa.
Perché, in fondo, Annabeth è sempre lì: quando si volta e la vede riflessa nello specchio o in quelle farfalle di carta che continuano a passargli davanti agli occhi. Ma forse è lui che si ostina vederla in una ciocca bionda di una prostituta occasionale o in quei fogli bruciati con delle scritte sopra. Hai smesso di amarmi.
«Forse dovresti andare» osserva Luke, piatto, indicando la porta con un gesto della mano. «Oggi è martedì». Abbottona la camicia, incespicando sugli ultimi bottoni, raccoglie le forze per percorrere quei pochi passi che lo separano da sua moglie. È martedì e la ferita duole già, gonfia sotto le bende, i lividi spiccano nel pallore della pelle e fioriscono continamente in posti inviolati. La schiena. Perchè lui è veramente senza spina dorsale e senza cuore. Senza niente, ma va bene così.
«Oggi è lunedì» lo rimbecca Summer, scuotendo la testa. «Te ne sei già dimenticato, forse? Non è ancora martedì».
Luke sorride ma, controluce, appare più un ghigno o una ferita che gli divide in due il volto. «Lo so» risponde, aprendo la porta. «Ma non voglio aspettare3».
Summer sospira, le dita le tremano mentre allaccia il corpetto di un vestito troppo stretto, lega i capelli in una coda scompigliata che tiene i capelli lontani dal volto.
Mentre incerta si dirige verso la porta, probabilmente si convince che è troppo presto: lei è solo una sostituta, un riflesso. L'ha capito, che il Generale cerca sua moglie dove non può trovarla – ma ha trovato lei – perchè fondamentalmente non ha ancora ricevuto l'amore che merita.

(Se ne merita: è codardo, voltagabbana, infido e senza spina dorsale. Ma, oltre le cattive qualità, non ha altro se non l'ossessione che nutre per sua moglie. Va bene così).

Forse, si dice che è ancora presto, troppo presto: se lo ripete mentre compie le poche e semplici azioni – respirare, camminare, sorridere – che la porteranno fuori dalla porta del Generale. E dalla sua vita, se è mai davvero riuscita ad entrarci, solo per un po'. Vorrebbe entrarci, ammaliata da quel mondo di malinconia e dolore, anche solo per la curiosità di scorgere il riflesso di quella donna che ha distrutto l'uomo più potente di tutti. Chissà come ha fatto, si chiede.
Poi nota che Luke continua a stropicciare un foglietto e ha la sua risposta: ha smesso di amarlo. E il Generale Castellan, notoriamente senza cuore, è rimasto intrappolato in un circolo vizioso di una donna che possiede un cuore non commisurato alla reale portata delle sue emozioni. E non riesce a liberarsi. È troppo presto.
«Sarebbe meglio» dice Luke, prima di lasciarla uscire, trafiggendole da parte a parte con il suo sguardo freddo e indifferente. «Se tu la smettessi di tornare».
La stilettata la fa crollare all'indietro, costringendola a cercare un punto di appoggio nel tavolo. «Cosa?» balbetta, certa di aver capito male.
«Non ci vedremo più» ripete Luke, sereno. «Avrai il tuo compenso, ma ho finito di usufruire dei tuoi favori» sorride, letale come un serpente. «Basta così».
«Perché?» domanda lei, perplessa. Le mani tremano sulla stoffa del vestito, i denti affondano nel labbro fino a farlo sanguinare. «Se è qualcosa che ho fatto, io...».
«Non voglio ferirla di nuovo» sussurra lui, con aria colpevole. E lei si accorge che non ha mai smesso di guardare il foglio accartocciato. «Non... Noi siamo una famiglia».
Lei sospira, tenta un sorriso che comunque risulterebbe poco convincente, si rassetta i capelli. «Va bene» dice, semplicemente. «Va bene così».
Si allontana a passi veloci, sentendosi lo sguardo del Generale ancora addosso, che la brucia e la trafigge ricordandole che lei è solo un rimpiazzo di qualcosa di più mirabile, come il cuore della moglie che non gli appartiene già da un po'. Percy Jackson è morto e Luke Castellan si è rifuggiato sotto le sottane di Summer solo per sfuggire a quel dolore cieco di Annabeth Chase, a quelle lacrime che lo ferivano più di ogni altra cosa, per poi cercarla com'era prima in un altro tempo. In un altro luogo un po' inappropriato dove l'ha trovata, in altre vesti, e l'ha pugnalata proprio lui che aveva desiderato lasciarle un segno duraturo.
Summer scuote la testa, affranta, si da silenziosamente della stupida: ci è caduta di testa, in quella trappola, infatuandosi dell'uomo peggiore di tutti. Proprio lei, che di amore non avrebbe mai dovuto nemmeno sentirne parlare, proprio lei che di Annabeth Chase conosce solo il nome e il sorriso di quella malinconia che stordisce.
E ora è decisamente troppo tardi per chiedere favori, per cedere al rimpianto o anche solo per maledire la dedizione di Luke Castellan nei confronti di sua moglie.
Non avrebbe nemmeno senso protestare, farsi curare le ferite da qualcun altro: si allontana in punta di piedi, voltandosi solo per guardare il Generale che timidamente s'affaccia nella camera da letto della moglie, un sorriso sciocco in volto. Summer s'adombra leggermente, mentre passa oltre, eppure sapeva già che non sarebbe durata.
Il Generale Castellan è noto per la sua totale assenza di cuore, lei non avrebbe mai aspirato a qualcosa di così impossibile da cogliere. Finchè non ha scoperto che è qualcosa che in realtà esiste e viene continuamente rifiutato da una donna che non ha altro che quel cuore che manca al Generale. E lei lo vuole.
E se prima era troppo presto, adesso decisamente il tempo è scaduto: Summer l'ha capito, che è definitivamente troppo tardi per chiedergli quel bacio che non arriva mai quando lei lo guarda, speranzosa, ma senza esprimere quella richiesta che le viene sempre negata. Così adesso quella verità la colpisce con forza, togliendole il respiro.
È troppo tardi per quel bacio non dato, troppo tardi per non poter sparire nel nulla. Troppo tardi per tutto. Summer sparisce oltre il corridoio. Ma va bene così.

 

 

***

 

Annabeth non dorme più: passa le ore rannicchiata in un angolo del letto, le mani che torturano la coperta e il bambino che la stordisce a suon di calci. Ogni tanto si alza, come se sentisse l'esigenza di fare qualcosa, ma dopo pochi secondi ricade sul letto, disorientata. Sembra quasi che aspetti qualcuno, quando alza la testa e cerca qualcosa.
Rachel non sa più cosa fare, un giorno si alza e la trova di nuovo nella vasca, l'acqua che cola sul pavimento e la testa fra le mani. Si trova a controllarle i polsi, spaventata, per scoprire che sono illesi. Ma Annabeth non parla: sembra un'annegata, coi capelli bagnati e lo sguardo perso nel vuoto, la pelle che sembra assumere un vago colorito verdastro. Quando la guarda da vicino, nota che ha gli occhi pieni di lacrime pronte a uscire fuori dagli argini. Così scivola accanto a lei e le accarezza i capelli, incerta.
«Dov'è Luke, Rachel?» domanda Annabeth, in un sussurro. Dal viso colano gocce d'acqua, pioggia, e sale che ogni tanto fa la sua comparsa. «Dov'è finito?».
Rachel Dare non ce l'ha, il coraggio di risponderle che ha appena visto una donna bionda allontanarsi dalla camera del Generale, in punta di piedi, guardando la porta con aria torva. Così le sorride, incoraggiante, tentando di mandar fuori una risposta accettabile, che non sconfini nell'ennesima bugia arteffatta a cui lei non crede mai.
«Sono qui, Annabeth» è il sussurro che proviene dalla porta ancora aperta. Luke la guarda, affranto, irrigidendo i muscoli per non correre da lei. «Sono qui».
Le sorride, tende le braccia in un gesto di affetto che non arriva mai a destinazione, perché Annabeth non si muove. È crollata sul pavimento, la gonna allargata e le mani a stropicciarne l'orlo continuamente, gli occhi puntati sul bottone slacciato della camicia del Generale. Sui segni di denti che gli decorano il collo.
Luke si siede accanto a lei, sfiorandole il braccio pallido con la punta delle dita. Lei si ritrae, incerta, abbassando lo sguardo sul ventre ancora nascosto dal vestito.
Rachel si riconosce, in quei gesti che aveva assunto mesi prima, che ha smesso all'improvviso per un motivo innominabile. Si avvicina alla porta in silenzio, stringendo la stoffa in eccesso di un vestito stretto di parecchie settimane prima, quando la vita cresceva dentro di lei. Poi è morta. Per un momento ha temuto che la disperazione facesse da riflesso in Annabeth, obbligandole a seguire il fato del vecchio Oracolo – era colpa dello spirito? Aveva ucciso un bambino per poter continuare a profetizzare? – che aveva visto quel corpicino minuscolo, con mani e piedini perfetti, lasciarla all'improvviso. E il vuoto che avanzava silenziosamente dove prima batteva un altro cuore.
Sa come si sente, a provare quella costante sensazione di vuoto che caratterizza una solitudine forzata: l'ha dovuta superare, Annabeth non ci riesce. Lo vede nello sguardo distrutto del Generale, annebbiato da lacrime che non versa, affranto nel gesto continuo delle sue mani su ogni lembo di pelle di lei. Scuote la testa, in una vampa rossastra. Vorrebbe urlare a Luke di non lasciarli morire così, uno nel liquido che origina tutto e l'altra nella disperazione più totale. Non lo fa. E la porta si chiude con uno scatto.
«Perché non mi lasci andare?» mormora, esasperata. «Dovresti averlo capito, che ormai siamo a un punto morto. Davvero, Luke dovresti smetterla».
Luke sospira. Gliel'hanno detto, ripetuto fino alla nausea, esasperandolo: deve lasciarla andar via, allontanarsi da lei prima che quella malinconia gli entri dentro. Gli hanno dato del folle, del visionario, dell'idiota. Forse lo è. Gli hanno detto che farebbe meglio ad allontanarsi da lei, che è pericolosa, che può distruggerlo divorandolo dall'interno. L'hanno avvelenato con parole appena sussurrate, dicendogli che deve lasciarla andare una volta per tutte, prima che lei lo divori completamente. E lui, fondamentalmente, è un folle, un visionario e un idiota. E come tale si comporta, rifiutandosi di lasciare andare quel cancro che gli divora il cuore.
E qualcuno gli ha riferito che Annabeth Chase tenta di avvelenarlo ogni giorno con i suoi sorrisi, di ubriacarlo con parole appena sussurrate. Ma Luke non la lascia andare.
Sciocco. Qualcuno sostiene che, se si ama davvero una persona, la prima cosa da fare sarebbe provare a lasciarla andare e vedere se torna. Solo che, se lei avesse la possibilità di andar via, probabilmente non tornerebbe se non per le ormai celeberrime calende greche. E lui è un idiota che quando cerca la via per il cuore di una persona si perde per strada in un sentiero che porta sempre davanti alla porta sbagliata. Non ha nemmeno la tentazione di lasciarla andare per vedere se tornerà.

(Non lo farà: è la consapevolezza con cui convive già da un po', quella con cui si desta la mattina solo per ricordarsi che non può abbassare la guardia, altrimenti potrebbe perdere ogni cosa. Annabeth non tornerà mai all'inferno, lasciandolo solo a bruciare nella sua assenza prolungata, abbandonandolo sull'orlo del dirupo).

«Se ti lasciassi andare, tu proveresti a tornare da me?» domanda, affilando lo sguardo. «No, Annabeth, non lo faresti. E c'è qualcosa...» qualcuno. «Che ti tiene legata a me per sempre, te lo ricordi?» e gli occhi azzurri sembrano lame bellissime che le feriscono il ventre, attentando al cuore di suo – loro – figlio.
«Non tornerei» è la risposta veritiera di Annabeth. «Non potrei mai». Non dopo quello che ho visto, non dopo che ho visto un bambino morire prima ancora di respirare la prima aria. Non dopo che avete ucciso Percy davanti ai miei occhi, spezzandomi, proprio io che mi credevo la più forte di tutte quante.
«Lo so» risponde Luke, in un sussurro rassegnato. «Per questo non posso lasciarti andar via, Annabeth, perché so che altrimenti non torneresti mai».
«Tu non vuoi che io torni da te» è la risposta vagamente sarcastica di lei. «A te piacerebbe che io rimanessi qui per sempre» scuote la testa, in un turbine di capelli dorati. «Ma io non posso rimanere, sarei dovuta fuggire tempo fa» risponde. Sarei dovuta evaporare prima di vedere Percy morire per la seconda volta, prima di vederti impazzire per cercarmi in quelle sottane vermiglie che non sono le mie. Prima di affezionarmi a questo bambino che è solo mio, non tuo, non di Percy che ha fatto in tempo a trovarmi. Ho visto Rachel svuotarsi un po' e poi ridere al nulla, per non crollare, ma non riesco a fare lo stesso: non capisci, Luke? Devo andare via.
«Vorrei tanto che tu la smettessi di tentare di fuggire» esala lui, sconfitto. Si porta una mano sulla spalla per trovarla rossa del sangue che comincia già a fuoriuscire da quelle ferite che non guariranno mai. «Dove vorresti andare, poi? Lui è morto». E la guarda, implorante, aspettando che lei crolli ai suoi piedi in un mare di lacrime.
Ma non lo fa: Annabeth continua a muovere le mani in maniera continua, lacerando i punti deboli della gonna, continuando a osservare sottecchi i fogli bruciati nel camino.
E poi si alza di scatto, torna a letto, rannicchiandosi come una bambina: Percy è morto. E lei sta seriamente prendendo in considerazione l'idea di smetterla di scappare.

(Dove dovrebbe andare, poi, dato che tutti quelli di cui si fidava sono morti e rintanati nel ventre della madre suprema o dispersi nella corte di Crono?).

«Vorrei avere un motivo per non farlo» risponde lei, lapidaria. Si porta una mano al vetre, trasalendo di fronte a un contatto inaspettato. Il motivo è lui. «Qualcosa che mi costringa a rimanere qui» il bambino. «Ma non c'è nessun motivo, Luke, niente che mi tenga qui». Lo guarda, dritto negli occhi. «Non ho più niente, non ho un motivo».
Sì che ce l'hai, vorrebbe dirle – urlarle – lui. Il bambino, tuo – nostro – figlio, e Percy è morto e tu sei persa senza di lui. Ma non può dirglielo, così rimane in silezio.
Ricorda vagamente i tempi in cui lei gli riversava contro insulti sobilati e parole impossibili, per poi disorientarlo con il suo improvviso silenzio. Adesso Annabeth deve ben capire cosa si prova: si aspetta un rimprovero e l'ennesima richiesta intrisa di lacrime non versate, una supplica che lei avrebeb respinto, sentendosi crudele. Solo che non arriva nulla, se non il silenzio teso che Luke le rivolge, munito di uno sguardo apatico che la trapassa da parte a parte. E lei non dice nulla, cercando di contrastare quella corrente che mira a trascinarla via, a riempirla con quel rimorso che già le si agita dentro. Cerca una risposta alla domanda che lui le pone, in silenzio, come ogni martedì. E se prima era lapidaria e fredda, adesso si confonde in quella negazione che non arriva, in una risposta che sfiora le labbra e non esce mai.
«Tu ce l'hai, un motivo» le sussurra, scuotendo la testa con aria rassegnata. «Solo che ti ostini a non vederlo, per aggrapparti ai tuoi fantasmi» le sorride, un po' più pallido nel sangue che già comincia a uscire da una vecchia ferita. «Ma non si può vivere di fantasmi, Annabeth, dovresti saperlo. Rieschieresti di rimanerne uccisa».
«Non puoi vivere nell'oscurità» risponde lei, tagliente come i suoi occhi quando lui la guarda e le ricorda che Percy è morto e lei è viva.«O ne farai parte per sempre».
Luke la guarda e, per un attimo soltanto, sorride e sembra qualcun altro nella luce tenue, in cui i suoi occhi azzurri assumono le tonalità delle profondità marine. E probabilmente è solo un gioco di luci che fa sembrare i capelli color sabbia del Generale dello stesso colore dell'ala di un corvo. Perché Percy è morto.
«Qualcuno dice che luce e oscurità sono sepolti insieme» risponde Luke, dolcemente. «Nel ventre di una madre che è la madre di tutto, sono fusi insieme». Le sfiora la mano con quella dolcezza che la sorprende sempre. «Si tratta solo di saper scegliere» mormora, scrollando le spalle – e tremando per il dolore che si propaga lungo la schiena, ustionandola – e sorridendole, quasi a suggerirle che sarà sempre lui, la scelta migliore. E l'unica possibile, dato che non è rimasto nessun altro.
«Non puoi chiedermi di scegliere» mormora lei, affranta. «Come puoi chiedermi di scegliere fra te e il nulla?» una scelta difficile, in fin dei conti, dato che con tutta probabilità per lei la scelta migliore sarebbe il nulla. Senza contare che per qualche strano scherzo del destino, continua a pensare come se Percy fosse vivo. Solo che lui non c'è più e lei non riesce ad abituarsi all'idea di un mondo senza di lui, a quell'assenza che le dilaga attorno obbligandole a compiere una scelta fra la carne solida e reale di Luke e l'esistenza meno tangibile di Percy, un fantasma che la ossessiona fino allo sfinimento. E ogni scelta è quella sbagliata, dato che fondamentalmente non è stato concepito un lieto fine per nessuno dei due protagonisti: una vita fra fantasmi o nell'oscurità, una scelta obbligata che non lascia scampo.
«Lo sto facendo» le sussurra. «Non puoi continuare a oscillare fra due mondi, devi compiere una scelta». Sorride, ma solo per un attimo. «Devi scegliere me».
Annabeth scuote la testa, un sorriso dolce sul volto. «Non posso, Luke» risponde. «Come potrei scegliere te, se tu l'hai ucciso?». Scuote la testa. «Penso che sia tutto sbagliato, tutto quanto. Io dovrei essere morta» le dita corrono sulla tempia, girano in senso orario per donare alla testa un po' di sollievo da quel mal di capo martellante che l'ha assalita senza tregua da quando ha realizzato di non poter scegliere. Forse, l'ha sempre saputo, ma non è mai stata in grado di accettarlo.
«Ma non lo sei» risponde lui, freddo. «Tu sei viva e lui è morto, cenere dispersa nel vento, e tu non puoi farci nulla. Devi solo rassegnarti a essere ciò che sei4».

 

 

***

 

L'aria è fredda, tagliente sulla pelle appena scoperta delle spalle: questa sera Luke Castellan non ha bevuto o mangiato e nemmeno parlato, si è cullato in un silenzio un po' artificioso in cui ha abbandonato la moglie. D'altro canto, Annabeth Chase non si è nemmeno preoccupata del pallore della pelle di lui, o di quei lividi violacei che si diffondono con velocità impressionante, o delle bende zuppe di sangue che gli aderiscono al petto e alla schiena. Non ha detto nulla per tutta la sera, lasciandolo a contorcersi nel suo dolore silenzioso, osservandolo mentre lottava con sé stesso per non chiederle quell'aiuto che lei gli ha rifiutato. A metà della cena, Luke se n'è andato.
Lei se n'è andata solo quando ha visto Rachel Dare avvicinarsi col marito, un sorriso cortese e un abito un po' stretto sul ventre. Morte. Annabeth è fuggita via per non dover assistere allo spettacolo di un dolore così silenzioso da passare innosservato a tutti. Non a lei, che potrebbe patirne uno identico. E Luke se n'è già andato.
Annabeth non lo dice, ma l'ha visto accomodarsi in camera sua, vicino al caminetto con le mani disperse nei meandri di un foglio ancora bruciato. L'ha visto rannicchiarsi in un angolo, gli occhi puntati con ostinazione su quella scritta divorata dalle fiamme: hai smesso di amarmi. L'ha presa come un'accusa, una sentenza e una mezza verità.
Annabeth non glie'ha mai detto, ma probabilmente lo è davvero. Così è uscita fuori, in punta di piedi, arrancando fino al balcone ingombro di fiori rosati.
Respira a pieni polmoni l'aria che le carezza il viso, arrossandole gli zigomi, e le scompiglia i capelli. È l'ennesima situazione di stallo in cui si è trovata, dove lei può solo cedere per fare avanzare qualcun altro – Luke – il quale si allea sempre con una spiacevole controparte ideata solo per renderle più difficile quell'unica scelta da compiere.
Si affaccia verso la landa desolata di sabbia e acqua marina, dove le orme dei Tenenti di pattuglia sono ancora fresche sulla spiaggia umida. Con le dita sfiora un fiore nei toni del celeste – e qui si lascia sfuggire un sospiro: è stanca, rassegnata di fronte ai ricordi che scorrono troppo liberamente – e socchiude gli occhi alla luce della luna. Poi sobbalza e muove un passo indietro: per un attimo le è sembrato di scorgere la cenere che galleggia sul mare. Ma è stato solo un attimo, sufficente a ricordarle una situazione che lei ben conosce e non può cambiare. Lei è viva, Luke è vivo, suo – loro – figlio cresce dentro di lei. E Percy è morto.
L'ha visto bruciare davanti ai suoi occhi, l'ha visto dibattersi mentre le fiamme lo inghiottivano e non ha potuto fare nulla per salvarlo. Si è congedata da lui ricordandogli che è nel suo destino scegliere sempre l'uomo sbagliato e perdere irrimediabilmente l'altro. Sempre la solita scelta sbagliata, quella che la tormenta ogni notte.
È andata da Luke, uccidendo Percy prima della pira, per lavargli di dosso sangue e stanchezza che si era tirato addosso per non lasciarla morire. Sarebbe stato meglio.
Annabeth si trova a trattenere le lacrime, di fronte all'ovvia constatazione che le si è riversata di sopra. Sarebbe stato meglio, se fosse morta in battaglia. Solo che è bloccata alla corte di Crono fra traditori e voltagabbana, con un figlio che non avrebbe voluto e un marito che o la ama troppo o non l'ama più. E la cenere che galleggia sul mare, illuminata da una sottile lama di luce, ricordandole che ha anche perso l'unica persona per cui sarebbe valsa la pena essere stata salvata.
A volte non si sente nemmeno più lei, ma un pallido riflesso che compie solo le azioni basilari: dorme, mangia, cammina. Si guarda allo specchio e non vede nulla.
E allora capisce perché Luke ha cominciato a cercarla in persone che non sono lei, in un'onda dorata che rischiara le tempie di una ragazza troppo giovane.
Guardando giù, si accorge di una macchia rossastra che si muove vicino al mare, in punta di piedi. Acuendo la vista comincia a cogliere i dettagli: una chioma bionda, le sottane rosse, le mebra agili e snelle. E la riconosce, a distanza, come quella ragazzina in cui Luke ha scorto un briciolo di lei, quella di cui non conosce nemmeno il nome.
Ma l'ha vista, mentre cammina spedita sulla spiaggia e si ferma solo a pochi passi dall'acqua. La osserva mentre si volta verso una figura nascosta dall'ombra – e Annabeth, per un momento, teme che sia Luke – e mormora parole che si disperdono nel vento. Poi – ed è una mossa così stupida che non capisce – la ragazza muove una serie di passi fin dentro l'acqua. E poi è sparita in un turbine di bolle, senza nemmeno provare a nuotare quando la sabbia le si toglie da sotto i piedi. Annabeth soffoca un grido, sorpresa, mentre nota quella macchia rossa di stoffa che galleggia malamente nell'acqua marina. Insieme alla cenere, perchè anche lei ha fatto una scelta.
Fa appena in tempo a compiere un balzo indietro, quando si accorge che c'è qualcuno che sta scalando il palazzo, probabilmente la stessa persona con cui ha parlato la ragazza. Sente chiaramente le mani che cercano appiglio, il balzo che compie per raggiungerla sul balcone. Annabeth spalanca gli occhi, spaventata.
«Non urlare» le sussurra la voce calma di un ragazzo, una mano che per buona misura le copre la bocca. «Non ho alcuna intenzione di farmi catturare da tuo marito».
La lascia andare solo quando comprende che non urlerà né chiamerà in aiuto suo marito. Annabeth squadra il nuovo arrivato con un misto di curiosità e sfida, cercando d'intuirne i lineamenti nel buio, oltre i vestiti neri che lo confondono nell'oscurità. Distingue un sorriso sul suo volto, quando lui si china verso di lei, ridendo apertamente.
«Ma come, Annabeth, non mi riconosci?» mormora lo sconosciuto, scuotendo la testa. «E io che sono venuto qui solo per te!». Ed è in quel momento che Annabeth lo riconosce, finalmente, nonostante i capelli un po' più lunghi e gli accenni di disperazione che la guerra gli ha inciso sul volto. Muove un passo, confusa, come per accertarsi che sia davvero lui. E lo è, decisamente, quando la stringe in un abbraccio così inconsueto da sembrarle normale, anche da parte sua. Quando ritrova la forza per guardare in alto – è cresciuto: la guerra gli ha donato quei centimetri che erano di quella sua adolescenza recisa a metà; ha i capelli più lunghi e un sorriso diverso – incontra gli occhi neri e penetranti di Nico Di Angelo.








1"Come quei fogli bruciati, con su scritto 'hai smesso di amarmi'" Nesli - Un bacio a te
2Chiaro riferimento alla serie originale
3"Lo so, è che non volevo aspettare" - Allison Cameron, Dr House M.D.
4"Dobbiamo solo rassegnarci a essere ciò che siamo" - "Il re e il suo giullare", Margaret George
   
 
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