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Autore: EffieSamadhi    09/11/2013    9 recensioni
{Su YouTube è disponibile il trailer della storia: http://www.youtube.com/watch?v=diyTY0QZwSA}
Contrariamente a quanto pensa la gente, la vita di un rocker non è tutta 'sesso, droga & rock'n'roll': ci sono momenti in cui, come ogni persona normale, ci sentiamo stanchi e solitari e stufi del mondo, e se a volte ci capita di sembrare scostanti e scontrosi è solo perché vogliamo andare a casa, perché vogliamo infilarci sotto una doccia bollente o perché vogliamo spalmarci sul divano a guardare un programma trash in tv. [...] Mi chiamo Shannon Leto, ho quarantatré anni e mezzo e non vedo l'ora di andarmene a letto.
Tutti hanno bisogno di tempo per se stessi, e nessuno lo sa meglio di Shannon, che così preso dalla ricerca di un attimo di respiro si trova coinvolto in qualcosa che di privato e personale ha ben poco. Ma alla fine di tutto, Shannon si accorgerà che a volte la pace non si trova soltanto nella solitudine e nel buio, ma anche nella luce degli occhi di chi ci sta accanto.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Direzioni ostinate e contrarie.'
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Portagioie di tristezza | 1 Avvertenze | Se odiate a priori ogni fanfiction in cui il tizio famoso si innamora di una ragazza appena conosciuta che ha alcuni tratti in comune con l'autrice, chiudete subito la pagina e andate a leggere qualcosa di serio. Se invece, in fondo, siete persone a cui sognare non dispiace, potete continuare a leggere. Probabilmente la storia non vi piacerà per altri motivi, e quindi la lascerete perdere comunque. Per quei pochi coraggiosi che la seguiranno per intero (e mi sento di porre DadaOttantotto in cima a quella che immagino sarà una lista molto magra)... grazie, e buona fortuna.
Disclaimer | Non possiedo nulla dei 30 Seconds to Mars – né i membri, né l'inventiva, né il talento... ho solo i loro CD – e tutto ciò che leggerete è frutto della mia immaginazione e della mia inguaribile anima romantica.
Note dell'autrice | Gli eventi reali sono stati leggermente modificati; in particolare, invece di far partire subito la band per un'altra data, ho deciso di trattenerli per un po' a Milano.





Portagioie di tristezza1





Capitolo primo
Ho pensato a tutto ciò che volevo essere,
ho pensato a tutto, a me,
a te e a me.2

Mediolanum Forum (Assago), 02 novembre 2013

    Contrariamente a quanto pensa la gente, la vita di un rocker non è tutta 'sesso, droga & rock'n'roll': ci sono momenti in cui, come ogni persona normale, ci sentiamo stanchi e solitari e stufi del mondo, e se a volte ci capita di sembrare scostanti e scontrosi è solo perché vogliamo andare a casa, perché vogliamo infilarci sotto una doccia bollente o perché vogliamo spalmarci sul divano a guardare un programma trash in tv. E questo è esattamente quello che vorrei fare in questo momento, invece di starmene seduto a sorridere a persone che non conosco e che non mi conoscono, ma che hanno pagato per vederci qui stasera e che ci stanno spiegando, in un inglese maccheronico peggiorato dall'emozione di trovarsi di fronte a noi, che hanno viaggiato anche per ventiquattro ore pur di sentirci, vederci e poterci parlare. «You know, your music saved my life» è quello che sentiamo dire più spesso, e ogni volta vorrei alzarmi in piedi, rovesciare questo tavolo e dir loro che non è la nostra musica ad aver salvato la loro vita, ma l'idea stessa di musica, la musica in generale, la musica in sé: sarebbe potuto essere qualsiasi gruppo a risvegliare in loro la gioia, non è merito nostro. E invece taccio, e continuo ad ascoltare complimenti e firmare copie del nostro ultimo cd.
    Mi chiamo Shannon Leto, ho quarantatré anni e mezzo e non vedo l'ora di andarmene a letto. Alla mia destra, mio fratello continua a dispensare sorrisi e a ringraziare tutti, mentre Tomo, poco più in là, tenta in ogni modo di non cedere alla stanchezza e di continuare mostrarsi gentile e accomodante. Un po' mi sento in colpa, a dire il vero: è stato Jared a reggere la scena ininterrottamente per due ore e mezza, eppure quello sfinito sono io. Non so come spiegarlo: non è stanchezza fisica, siamo abituati a provare anche per sei o sette ore al giorno... è più un senso di stanchezza mentale, come se la tensione accumulata prima dell'evento si dissolvesse all'improvviso, scivolando via come acqua su una superficie liscia. Alla fine di ogni concerto mi sento come esaurito, come... come una pila scarica. Ecco la definizione giusta: mi chiamo Shannon Leto, ho quarantatré anni e mezzo e sono una pila esaurita. Tuttavia, decido di resistere: in fondo, questa piccola folla merita di vedere premiata la propria costanza, perciò merita tutta la mia attenzione.
    Alzo gli occhi sulla fila che si va via via riducendo, e un istante dopo vorrei non averlo fatto, o comunque vorrei essere stato adeguatamente preparato: lo sguardo che incontro alzando la testa mi inchioda al pavimento, totalmente privo di timidezza o soggezione, come se non fossimo altro che un gruppo di vecchi amici. La cosa che più mi affascina, però – e che al contempo mi terrorizza –, è che quegli occhi azzurri non solo non hanno paura di fissare i miei, ma sembra che mi stiano leggendo dentro. Improvvisamente mi sento in imbarazzo, come se mi fossi appena svegliato da un lungo sonno e mi fossi scoperto nudo al centro di Times Square all'ora di punta – non dovrei sentirmi in imbarazzo, io sono uno che si esibisce davanti a migliaia di persone e convive con la fama da dieci anni, eppure... eppure quello sguardo sa spogliarmi di ogni sicurezza, sa privarmi di ogni difesa. Perciò sorrido, abbasso di nuovo la testa e lentamente scrivo il mio nome sul cd che Jared mi ha appena fatto scivolare sotto il naso. Sto cercando di raccogliere le energie per alzare di nuovo gli occhi, quando una voce rompe quel pesante silenzio: «Dà uno strano senso di pace, vero? Realizzare i propri sogni, intendo».
    Jared sta per rispondere, ma io, come se sentissi che quella frase è stata detta apposta per me, lo precedo: «Non sono mai in pace. C'è sempre un sogno più grande dietro il prossimo angolo.»
    La ragazza allunga la mano per prendere il suo cd, piegando un angolo della bocca in un sorriso enigmatico. «Forse è questo che ci mantiene vivi» sussurra. «Grazie a tutti» aggiunge, voltandosi per andarsene. Solo in quel momento noto la maglietta che indossa, bianca e decorata manualmente con i glyphics, la triad e la data di questo concerto – e solo quando è qualche passo più in là mi accorgo del sangue finto e del trucco rosso che le coprivano faccia, collo, braccia e vestiti. Ed è allora che sorrido, sentendomi un vero idiota, perché quella ragazza sembra aver capito della vita molto più di quanto abbia capito io.

    Concluso l'incontro con i fans, tutti e tre ci alziamo, e con sommo disprezzo noto che Jared continua a sembrare fresco come una rosa, come se fosse appena uscito da una Spa – saremo pure fratelli, ma vorrei proprio sapere da chi ha ereditato le incredibili quantità di energia di cui dispone. «Signori, anche questa è andata» annuncia in tono solenne, strappando un sorriso sia a Tomo sia a me. «Andiamo a prendere le nostre cose e torniamo in hotel?»
    «Se non vi dispiace, io prima vado a cercarmi un posto per fumare» ribatto, tastandomi le tasche. Riconosco subito la famigliare forma quadrangolare del pacchetto di sigarette. «Non guardarmi così, lo so che disapprovi» aggiungo subito, cercando di evitare che mio fratello parta con la solita filippica sui danni del fumo. «Dieci minuti e vi raggiungo.» Mi infilo il giubbotto e me ne vado senza aspettare risposta.
    Inizio a percorrere a ritroso i corridoi attraverso i quali gli addetti del Forum ci hanno accompagnati alla sala predisposta all'incontro con i fans, e appena trovo un'uscita di sicurezza spingo la porta, ritrovandomi di fronte ad uno spiazzo vuoto. Infilo un piede tra lo stipite e il battente per tenermi libero il passaggio, prendo una sigaretta dal pacchetto stropicciato e me la caccio in bocca di fretta, iniziando subito a tastarmi le tasche in cerca di un accendino. «Merda» sussurro. Sapevo di aver dimenticato qualcosa.
    All'improvviso, da un angolo buio arriva una voce già sentita, facendomi capire di non essere solo. «Bisogno di fuoco?» mi chiede, avvicinandosi con un accendino stretto tra le dita. Fa schioccare il meccanismo, ma non ho bisogno della luce della fiamma per riconoscere gli occhi azzurri che poco fa mi hanno sconvolto così tanto.
    Mi avvicino e mi chino in avanti, chiudendo le mani a coppa intorno alla fiammella per riuscire ad accendere nonostante il filo di vento che tira in quel punto. «Grazie» mormoro dopo essermi allontanato. Poi ricordo le regole del bon ton, e tendo verso di lei il pacchetto sdrucito. «Vuoi una?»
    «No, grazie.»
    «Non fumi?» le domando, rimettendo in tasca il pacchetto.
    «Sono una fumatrice occasionale. A volte quando sono con amici me ne faccio una.»
    «Però sei previdente» ribatto. «Vai sempre in giro armata» aggiungo, alludendo all'accendino che ancora tiene in mano.
    «Amici smemorati» risponde, come se questo bastasse a spiegare tutto. Aspiro un'altra boccata e faccio girare il fumo all'interno della bocca, cercando un modo per continuare la conversazione: nonostante la stanchezza, so che non sarebbe carino stare qui senza dire una parola. Per fortuna, lei mi precede. «Grande spettacolo stasera, complimenti.»
    «Grazie. Complimenti anche a voi. Insomma, il pubblico è importante.» Annuisce, grattandosi distrattamente la nuca. Noto che porta i capelli corti e spettinati, come andavano di moda l'estate scorsa – di solito preferisco i tagli lunghi, ma a questa ragazza il taglio corto dona particolarmente. «Che fai ancora qui?» le domando. «La serata è finita, non torni a casa?»
    «E voi?» ribatte lei, che come prima sembra non sapere che cosa significhino timidezza e soggezione. «Credevo che vi stessero già scortando in albergo.»
    «Mi sono preso una libera uscita» rispondo, mostrando la sigaretta. «Dovrei dar retta a mio fratello e smettere, ma non ho ancora trovato un buon motivo per farlo.»
    «Forse non lo vuoi veramente. In tal caso, un motivo lo avresti già trovato.» Subito dopo la vedo distogliere lo sguardo. «Scusa, non volevo essere invadente. In fondo, sono affari tuoi.»
    «Non sei stata invadente» la rassicuro. «Anzi, credo che tu abbia ragione. Probabilmente è così, non ho voglia di smettere.» Mi gratto la punta del naso con il dorso della mano, riflettendo sulla situazione: sto davvero parlando con una ragazza sconosciuta del mio problema con il fumo? «Sul serio, come mai sei ancora qui? Se stai orchestrando un agguato alla nostra macchina, sappi che usciremo dalla parte opposta dell'edificio.»
    Mentre mi sto chiedendo se capisca l'inglese tanto da cogliere la sfumatura ironica di quanto ho appena detto, lei ride. «Mi piacete, ma non al punto di diventare una stalker. Sto aspettando un'amica» spiega.
    «Ah» rispondo, terrorizzato all'idea che un'ammiratrice esaltata mi salti addosso pretendendo foto e autografi. Non so se riuscirei a sopportare un assalto del genere. «E dov'è la tua amica?»
    «Nella mia macchina.» Non sicuro di aver capito correttamente, sto per domandarle di ripetere, quando lei aggiunge: «Con il suo ragazzo. Lui abita a Milano, quindi possono vedersi soltanto una o due volte al mese. Hanno colto l'occasione del concerto per vedersi, solo che non c'erano molti posti dove... sai, no?»
    Annuisco, ma quello che vorrei dire in realtà è No, non lo so. Non ho mai avuto relazioni a distanza, in realtà. Già fatico a gestire una storia con una donna che posso vedere tutti i giorni. «Dove abitate tu e la tua amica?»
    «Torino. È abbastanza vicino a Milano, in realtà, ma tra gli impegni, la scuola... alla fine è tutto molto complicato.»
    «Andate ancora a scuola?» mi informo. Stento a crederlo, mi sembra troppo grande per essere una studentessa liceale.
    «La mia amica va all'università. Ha ventitré anni. Abbiamo ventitré anni» si corregge. «Studia Filosofia.»
    «E tu, invece? Studi?»
    Scuote la testa. «No, io no. Mi sarebbe piaciuto studiare Lingue, ma non avevo... non ero abbastanza brava per continuare gli studi. Lavoro in una libreria, faccio la commessa.»
    Dopo una breve riflessione, decido che posso arrischiarmi a fare una confessione privata. «Credo che a mia madre sarebbe piaciuto che almeno uno dei due andasse all'università, che diventasse... un pezzo grosso, o qualcosa del genere. Sai, avvocati, o medici. Credo che un po' le sia dispiaciuto che tutti e due abbiamo lasciato perdere quella strada.»
    «Credo sia comunque fiera di voi. Fate qualcosa di altrettanto grande, anche senza la laurea.»
    «Sì, alla fine è contenta di come sono andate le cose. Anche perché in un certo senso, è stata lei a spingerci sulla strada dell'arte.» Aspiro un'ultima boccata, schiaccio il mozzicone sotto la scarpa e soffio via il fumo attraverso il naso. «Credi che la tua amica ne avrà ancora per molto? Non mi sembra un posto molto raccomandabile per una ragazza sola» dico, guardandomi intorno per individuare eventuali malintenzionati.
    Proprio in quel momento, lei guarda il cellulare. «Mi ha appena mandato un sms. Hanno finito, quindi adesso me ne posso andare.» Fa per allontanarsi, ma uno strano istinto mi dice di non lasciarla andare via così.
    «Aspetta, dove devi andare?»
    «Devo raggiungere il parcheggio» mi spiega, stendendo un braccio nella giusta direzione.
    «Allora ti accompagno.» Mi ci vuole un attimo per realizzare quanto ho appena detto. «Non conosco bene queste zone, ma non credo che una ragazza dovrebbe girare da sola di notte, da nessuna parte.»
    «Ma non è necessario, sono pochi passi...»
    «Io ti accompagno comunque.»
    «Ma...» inizia, lasciando perdere subito dopo. Deve aver capito che non sono il tipo che negozia accordi. Con me, quasi sempre si fa come dico io. Gli unici ad avere qualche chance di farmi cambiare idea sono Jared e Tomo. E mia madre, ma quello è un discorso a parte. «A proposito, mi chiamo Daria» aggiunge, tendendomi la mano.
    «Shannon» rispondo, restituendo la stretta. «Bel nome» aggiungo, sfilando il piede dalla porta.
    «Grazie. Sicuro di potertene andare così?»
    «Certo. E poi sono solo pochi minuti, non si accorgeranno neanche che sono sparito.»
    Mi osserva per qualche secondo, come se stesse decidendo il da farsi. Vorrei farle presente che mi sono ormai chiuso fuori, e quindi dovrei comunque fare con lei un pezzo di strada, almeno il necessario per raggiungere l'ingresso principale. «Allora va bene. Per di qua» dice, cominciando a camminare. Si è messa addosso un giubbotto di pelle marrone e si è stretta attorno al collo una sciarpa rossa a motivi indiani, ma riesco comunque a intravedere la maglietta bianca. Alla luce biancastra di un lampione, noto che si è pulita il viso, che non reca più alcuna traccia del trucco rosso.
    «Era molto carino il tuo... outfit. Abbiamo letto dell'iniziativa su internet, ma avevamo già deciso il programma della serata, quindi... mi è spiaciuto, però. Ho visto che in molti hanno aderito.»
    «Non festeggio Halloween, non è una festa che rientra nelle mie tradizioni» mi spiega. «Siccome non mi sono travestita per l'altra sera, mi è sembrata una buona idea approfittarne ora. E poi è stato divertente. Insomma, è stata una cosa impulsiva... io di solito non faccio cose impulsive.»
    «Sei una di quelle ragazze a cui piace avere tutto sotto controllo?»
    Scuote la testa, in silenzio. «Non lo faccio per piacere» risponde dopo quasi un minuto. «Non mi sono mai potuta permettere di perdere il controllo.» Mi guarda, e probabilmente sul mio volto appare un enorme punto interrogativo, perché subito aggiunge: «Mia madre se n'è andata quando avevo otto anni, e da allora è sempre stato tutto difficile. Con 'se n'è andata' intendo dire che è andata via, non che è... morta, ecco.»
    Non conosco questa ragazza, ma quello che ha appena condiviso con me mi fa sentire davvero male, mi provoca un enorme groppo in gola. So cosa significa essere abbandonato da un genitore: ero piccolo quando mio padre è andato via, ma ho sentito la sua mancanza per tutta la vita. Forse è anche per questo che non ho ancora avuto figli: forse inconsciamente temo che le continue assenze non farebbero di me un buon padre. «Capisco cosa vuoi dire. Certo, forse quando è una madre ad andarsene è diverso, ma... capisco cosa vuoi dire. Sei figlia unica o hai fratelli?»
    «Ho una sorella e un fratello, diciannove e sedici anni.»
    «Come si chiamano?»
    Volta rapidamente la testa verso di me, probabilmente domandandosi il motivo di tanta curiosità. Tuttavia non esita a rispondermi, mentre continuiamo a camminare senza fretta verso il parcheggio. «Emanuele e Francesca. Loro praticamente non se la ricordano. Francesca aveva soltanto un anno quando lei è andata via. Mi dispiace per loro, vorrei che avessero qualche ricordo di lei. Però poi ci penso su, e mi dico che forse è meglio così. Soffrirebbero troppo.» Poi alza lo sguardo verso il cielo buio, come per riflettere, e aggiunge: «Non che non soffrano, certo. È pur sempre un abbandono.» Sto per ribattere, quando si volta di nuovo verso di me: «Quella sigaretta è ancora valida?» Prendo il pacchetto dalla tasca e lo tendo verso di lei. Mi servo anch'io, e mentre lei accende la sua ci fermiamo. Nel prendere l'accendino dalla sua mano, le nostre dita si sfiorano, provocandomi una strana sensazione: sento una strana intesa con questa ragazza, una persona di cui non conosco nulla tranne il nome e la provenienza. È la prima volta che raggiungo un simile grado di intimità in così poco tempo, e se devo essere sincero questo rapido precipitare degli eventi mi fa paura. Ebbene sì: Shannon Leto, batterista di fama mondiale, ha paura di restare solo con una ragazza.

    Riprendiamo a camminare, senza dire una parola. Il parcheggio è quasi completamente vuoto, e la poca gente rimasta non fa caso a noi – Meno male, mi viene da pensare: un bagno di folla non è proprio quello che mi serve, non in questo particolare momento. «Non preoccuparti, ci siamo quasi» mi dice, indicando un punto poco lontano, dove si intravede una sola auto, «ho parcheggiato... oh, merda» conclude in un sussurro.
    «Cosa c'è?» le chiedo, preoccupato da quel repentino cambiamento. «Cos'è successo?»
    «Hanno ricominciato» sussurra, voltandosi con aria scocciata verso la direzione da cui siamo appena arrivati. «La mia amica e il suo ragazzo» specifica, invitandomi a guardare verso l'auto. In effetti, socchiudendo gli occhi e tenendo fisso lo sguardo, nonostante il buio si nota chiaramente uno strano movimento oscillatorio del veicolo – che, si capisce, può derivare soltanto da una cosa.
    «Oh» è l'unico commento che riesco a fare.
    «Già, oh. Dovevo aspettarmelo, in fondo. Per entrambi il sesso è una parte fondamentale in un rapporto, e quelle poche volte che si vedono devono... sfogare ogni istinto.»
Da quest'ultima affermazione mi pare di capire che Daria abbia opinioni diverse da quelle dell'amica, e la mia innata curiosità mi impone di indagare. «Beh, credo che il sesso in una relazione sia importante per chiunque. Forse per qualcuno lo è di più.»
    «Per Alice lo è sicuramente» taglia corto lei, aspirando nervosamente dalla sigaretta.
    «E per te non lo è?»
    «Mi stai chiedendo se mi piace fare sesso?» In condizioni normali, probabilmente una ragazza qualunque si sarebbe risentita alla mia domanda – e probabilmente una fan esagitata l'avrebbe interpretata come un'avance, ma nel tono di Daria non c'è né sconcerto né libidine: è soltanto sorpresa della mia curiosità. E in fondo lo sono anch'io: non è da me fare discorsi così intimi con una persona appena conosciuta – a meno, forse, di non essere entrambi ubriachi e già mezzi nudi.
    «Ti sto solo chiedendo se lo consideri importante in una relazione o no.» Nonostante la penombra, sento che il suo sguardo mi sta studiando con diffidenza, come se fosse difficile decidere se valga la pena di concedermi una risposta sincera. «Io lo considero mediamente importante, ad esempio. Il sesso è una forma di comunicazione. Se non c'è intesa sessuale, è molto probabile che la relazione non sfoci in qualcosa di più importante. Insomma, non sposerei una donna con la quale faccio del sesso mediocre.»
    «Allora direi che lo consideri molto importante, non mediamente importante. Io penso che si possa stare bene con una persona anche senza fare del sesso stellare.»
    «Forse parli così perché non hai mai trovato qualcuno con cui farlo, del sesso stellare.» Appena finito di parlare, vorrei poter tornare indietro e strapparmi la lingua a morsi: stiamo scivolando su un genere di discorsi che affronto di rado, certamente mai con una ragazza appena incontrata. Eppure, invece di ritrarsi, darmi del maniaco o cose del genere, Daria alza lo sguardo e mi sfida apertamente.
    «Perché, tu hai mai trovato qualcuno con cui farlo?»
    Rifletto accuratamente sulla risposta. «Beh, sì. Sono uscito con parecchie ragazze con cui avevo un'ottima intesa sessuale.»
    «E allora com'è che sei ancora scapolo?»
    Forse non ho riflettuto così accuratamente. Questa ragazza sa essere più pungente di un calabrone. «Beh, immagino che non ci fossero le condizioni ottimali per pensare ad una relazione seria.»
    «Questo dimostra che il sesso è sopravvalutato.»
    «Ma non che non sia importante.»
    «Lasciamo perdere, ti va? Sento che potremmo andare avanti per ore, e nessuno dei due si smuoverebbe di un millimetro dalla sua posizione.» Si sposta di qualche passo e si siede su uno dei cordoli di cemento che delimitano le corsie di parcheggio. «Comunque adesso puoi andare, se vuoi. Posso aspettare qui, non ne avranno per molto.»
    Ignorando la sua considerazione, mi siedo accanto a lei. «Se tu aspetti qui, io aspetto con te. Non ti lascio sola.» I fari di un'auto che passa poco più in là ci illuminano per qualche istante, e negli occhi azzurri che mi stanno scrutando leggo qualcosa di incredibilmente simile alla felicità. Devo ammettere che mi sembra assurdo, ma ho come l'impressione che sia felice di avermi accanto, a prescindere da chi sono. «Dicevi che lavori in una libreria, giusto?» dico, cercando di stemperare questo attimo di tensione e di far deviare il discorso dal binario che aveva preso.
    «Sì, lavoro in una libreria. Sono solo una commessa, non è un impiego di grande responsabilità, ma mi piace molto. Mi è sempre piaciuto un sacco leggere, e nel mio caso avere uno sconto dipendenti è piuttosto utile. Trattiamo anche libri in lingua straniera, quindi spesso ho a che fare con clienti esteri.» Finalmente riesco a spiegarmi la sua incredibile padronanza dell'inglese. «Non guadagno molto, ma l'anno prossimo spero di riuscire a prendere in affitto una casa tutta mia. Mi sto già guardando intorno, anche se non so ancora di preciso se riuscirò a realizzare la mia idea.»
    «Prendere casa è una progetto piuttosto serio» ribatto, lasciando cadere il mozzicone per terra per spegnerlo con la punta della scarpa. «Che tipo di casa cerchi?»
    «Nulla di pretenzioso, in fondo sono da sola. Mi basterebbe un bilocale, o una mansarda. Qualcosa del genere. Alice, la mia amica, mi ha proposto di trasferirmi da lei. Condivide l'appartamento con altri studenti, e sarebbe felice di avermi con lei.»
    «Ma tu non hai intenzione di accettare.»
    «No, infatti. Sono felice che me l'abbia proposto, ma io ho voglia di un posto mio, di un posto in cui rifugiarmi e stare sola quando ne ho voglia. Ti è mai capitato di volere uno spazio tutto tuo, dove nessuno può dirti cosa fare o come farlo?»
    Più spesso di quanto tu possa immaginare, vorrei risponderle. «Sì, è capitato. Credo sia una cosa molto comune.»
    «E poi ho così tanti libri che mi servirebbe una stanza soltanto per quelli.»
    «Ti capisco. Con la mia collezione di dischi è la stessa cosa.» Senza preavviso, Daria si lascia andare ad una breve risata, mentre anche la sua sigaretta cade a terra e viene spenta. «Perché ridi?» le domando, curioso. Non mi sembra di aver detto qualcosa di particolarmente ironico.
    «Niente, è che stavo pensando... non mi sembra di parlare con uno che riempie gli stadi. Mi sembra di starmene seduta con mio fratello, o con un mio amico. È strano.»
    «Beh, se ti può consolare è strano anche per me. Non è una cosa che faccio di solito...»
    «Cosa, ascoltare gli sfoghi di una ragazza sconosciuta?»
    «Passare del tempo con una persona che non conosco e scoprire di avere un sacco di cose in comune con lei dopo soli dieci minuti» la correggo. I nostri visi sono fermi uno di fronte all'altra, i nostri occhi giocano a rincorrersi come due gocce di pioggia che scivolano lungo un vetro, e tutto quello che riesco a pensare è che sarebbe meglio mettere fine ad ogni conversazione, perché più andiamo avanti più mi fa paura l'intimità con lei, e subito dopo ho in mente un'immagine di me che la prendo tra le braccia e la bacio, e non posso fare a meno di pensare che sarebbe davvero fantastico farlo davvero, sporgermi verso di lei e sfiorarle le labbra, togliendole ogni possibilità di replica, e... e subito dopo il cellulare vibra nella mia tasca, impedendomi di indulgere ancora in una fantasia che, me ne rendo conto, è troppo assurda e decisamente inopportuna. «Scusami, devo rispondere.» Devo rispondere sul serio: è mio fratello. Accetto la chiamata, ma non ho nemmeno il tempo di pensare a cosa dire.
    «Dove-diavolo-sei?» La voce di Jared è a metà tra un sibilo e uno strillo, e nessuno meglio di me sa che quel tono porta solo guai: probabilmente non mi parlerà per i prossimi quattro giorni, ma al momento non è che la cosa mi importi tanto.
    «Lo sai, sono uscito a fumare» rispondo con la maggior naturalezza possibile.
    «Venti minuti fa?»
    «Senti, è un po' complicato da spiegare. Sto... facendo una cosa importante.»
    «Shan, avevamo detto 'Niente cazzate', ricordi?»
    «Ehi, non è quello che pensi. Senti, Jay, è davvero una cosa importante. Ce la fate ad aspettarmi ancora per...» Guardo verso Daria, che alza le spalle come per dire che non sa per quanto i suoi amici ne avranno ancora. «Facciamo altri venti minuti, va bene? Ti spiego tutto dopo, prometto.» Chiudo la comunicazione prima che a mio fratello venga in mente un numero sufficiente di insulti, e torno a sedermi vicino a Daria – ma questa volta, lo ammetto, più vicino di prima.
    «Scusa, non volevo farti litigare con tuo fratello. Ma puoi andare, davvero. È già il secondo round, non dovrebbero metterci tanto. Posso stare da sola.»
    «Jared può aspettare. Noi stasera abbiamo aspettato per dieci minuti che finisse di farsi le trecce... non gli farà male stare dall'altra parte, per una volta.» Getto un'occhiata all'auto, all'interno della quale sembra ci sia ancora parecchio movimento. «Da quanto tempo stanno insieme?»
    «Alice e Federico? Otto anni» risponde lei. «Lui viveva a Torino, poi suo padre si è dovuto trasferire per lavoro, e tutta la famiglia lo ha seguito. Si sono conosciuti al liceo, lui era un paio di classi avanti a noi. È stato il primo ragazzo di Alice. È sempre stata innamorata persa di lui.»
    «Una cosa romantica.»
    «Dì pure melensa. Viene da pensare che dopo tanti anni si dovrebbero abbandonare certi comportamenti, invece... a volte mi sembra di avere a che fare con due adolescenti: telefonate infinite, nomignoli zuccherosi... mi fanno venire il voltastomaco.»
    «E tu, invece? Hai un ragazzo?»
    «Non al momento. Al momento sono troppo impegnata.» Passa qualche secondo, durante il quale si passa nervosamente la mano tra i capelli scompigliati. «Non che non abbia mai avuto un ragazzo. Anch'io ho avuto delle relazioni. Solo, non... mai una cosa così seria, ecco. Se vivessero nella stessa città, loro vivrebbero praticamente come una coppia sposata» aggiunge, facendo un cenno verso l'auto. «Non ho mai creduto in quel genere di relazione.»
    «Insomma, non credi che il sesso sia importante in una storia e non credi che si possa amare una sola persona per tutta la vita?» Il punto di vista di questa ragazza, così giovane eppure già così matura, mi intriga come non mai.
    «Non credo che si possa essere felici a trent'anni con una persona con cui sei stato felice a quindici» risponde un po' scocciata. Forse non avrei dovuto rivangare quella storia del sesso. «I miei si sono conosciuti a quattordici anni, si sono messi insieme a diciassette e si sono sposati a ventiquattro. Hanno comprato casa, hanno avuto tre figli, e a trentaquattro erano divorziati. Dì pure che sono di parte, ma non credo che si possa restare aggrappati per sempre all'idea di amore che si ha nell'adolescenza.»
    «Insomma, non credi che Alice e Federico staranno insieme per sempre.»
    «No, infatti. Appena avranno la possibilità di passare più tempo insieme, inizieranno a notare ognuno i difetti dell'altro, tutti quei piccoli dettagli che la lontananza offusca. Federico scoprirà che Alice di secondo nome fa Disordine, e Alice non riuscirà a reggere la disciplina di Federico. Forse non subito, ma prima o poi uno dei due crollerà, e io sarò la stronza che dirà 'Io l'avevo detto!'. Federico non mi parlerà mai più, e Alice mi terrà il muso per un paio di settimane. Poi le porterò una vaschetta di gelato e saremo di nuovo amiche come prima.»
    «Funziona?»
    «Cosa?»
    «Il gelato. Come offerta di pace.»
    «Con Alice funziona alla grande. Cioccolato e nocciola sono gli ambasciatori migliori del mondo. Perché me lo chiedi?»
    «Curiosità. Quando litigo con mio fratello non so mai cosa fare per farmi perdonare. Magari il gelato funziona anche con lui.»
    «Qualsiasi essere umano, anche l'uomo più cattivo del mondo, si ammansirebbe davanti al gelato.» Il suo sorriso è contagioso come il morbillo, e torna a farsi sentire prepotente in me quella voglia di starle accanto per il maggior tempo possibile – la conosco da poco, ma con lei sto incredibilmente bene, sono a mio agio, posso fare battute e ridere in libertà. Con lei mi sento libero di essere me stesso, libero da quella tensione che non riesce mai a farmi decidere in quali occasioni posso essere sincero e in quali invece no. E così, senza quasi rendermene conto, inizio ad avvicinare il mio volto al suo, pronto ad alzare un braccio per circondarle le spalle. Al contrario di me, lei deve aver capito che cosa sta per accadere, perché l'espressione dei suoi occhi cambia, si affila, come se si stesse preparando a bloccarmi e a chiedermi che cazzo sto facendo.
    Ma non c'è bisogno che sia lei a bloccarmi: ci pensa il suo cellulare. Mi fermo, scuoto la testa e chiedo a me stesso di rinsavire – non posso andare in giro a baciare sconosciute senza pensare alle conseguenze! - , mentre lei sposta lo sguardo dal display all'auto, dalla quale scende una bionda spettinata che sta finendo di aggiustarsi addosso un maglioncino nero. «Scusa, Daria» la sento dire, «è tanto che aspetti?» Rimane piuttosto vicina alla macchina, mentre dall'altro lato sbuca un ragazzo alto e allampanato. Dubito che da quella distanza Alice mi abbia riconosciuto, forse sta solo cercando di non disturbare la nostra intimità – Troppo tardi!, vorrei urlare. «Se tu sei pronta per andare, io sono pronta.»
    Daria si alza, e così faccio io. Tutte le parole che ci siamo scambiati sembrano essersi perse nell'aria frizzante della sera, come se improvvisamente fossimo incapaci di trovare un linguaggio comune. «Grazie per la compagnia» sussurra, senza osare alzare lo sguardo – peccato, la fierezza dei suoi occhi è una delle cose che più mi piacciono di lei. «Spero che tuo fratello non se la prenda troppo con te. Dà pure la colpa a me, se necessario, tanto non...»
    Non ci vedremo mai più. Anche se si è interrotta, so che è questo che stava per dire. Lo ripeto un paio di volte nella mia mente, e suona così male che devo scuotere la testa per liberarmene. Ci sono miliardi di cose che potrei rispondere, e invece tutto quello che riesco ad articolare è: «Hai una penna?» Eppure, non è tanto la mia domanda a sconvolgermi, quanto la sua risposta.
    «Sì, certo. Certo che ho una penna.» E senza che le chieda altro, la tira fuori dalla borsa sdrucita che porta a tracolla. Senza dire niente, la prendo tra le dita, e mentre lei inizia a dire che non è necessario, convinta forse che voglia regalarle uno stupido autografo, io stringo la sua mano e me la porto vicino al petto, scrivendo con cura una precisa sequenza di lettere e numeri.
    Quando finisco, richiudo la penna e gliela restituisco, lasciandole piano anche la mano. «Scrivimi, se ti va. Mi farebbe molto piacere parlare ancora con te.» Mi allontano così, senza un'altra parola, senza un abbraccio, senza una stretta di mano e senza nemmeno un bacio. Mi allontano senza presentarmi all'amica, senza badare allo sguardo di Federico, che mi scruta torvo finché non riesce più a distinguere la mia figura, e soprattutto mi allontano senza vedere che Daria si sta guardando il palmo della mano senza nemmeno osare sfiorarlo, come se avesse paura di cancellare anche un singolo carattere.
    Forse Jared ha ragione, quando dice che non riesco a pensare proprio quando ce n'è più bisogno. Forse è vero, ma almeno mi sono regalato una mezz'ora di stupenda felicità.





***





1Portagioie di tristezza | Il titolo della storia è ispirato dalla canzone Jewel Box di Jeff Buckley, contenuta nel disco Sketches For My Sweetheart The Drunk (1998).
2Ho pensato a tutto ciò che volevo essere, ho pensato a tutto, a me, a te e a me | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone The Story dei 30 Seconds To Mars, contenuta nel disco A Beautiful Lie (2005).
   
 
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