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Autore: Entreri    10/11/2013    6 recensioni
Le canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor fredde altezze oltre la lama affilata che stava per piombare su di lui che Adikan si rese conto di stare per morire.
Le campagne militari contro i barbari sono la norma nel Sirenmat, ma quella del 1074 dopo la fondazione di Naska è diventata famosa per la seconda battaglia della Valle Chiusa. Verso questo evento, ignari dell'importanza che avrà per la storia e per le loro vite, si muovono i protagonisti del racconto, ciascuno con il proprio bagaglio di preoccupazioni, problemi, speranze e rancori: Agorwal con i suoi silenzi, Herrat con la propria lunga eperienza, Galoth con i demoni che cerca di placare e Adikan con i difetti che lo porteranno alla rovina.
Terza classificata al Contest "Quadri e Picche - Il contest delle sorprese" nella squadra difettosa.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Agorwal

La schiena di Agorwal doleva per la lunga cavalcata e il gelo della notte si insinuava sotto le vesti di lana senza che le sue pesanti pellicce potessero fare alcunché per impedirlo.

La sua tenda era stata montata da tempo ma, per quanto non bramasse nulla più ardentemente del proprio giaciglio, non avrebbe potuto esimersi dal coordinare l'acquartieramento senza venir meno al proprio dovere. Era un onere stancante, ma gli apparteneva: era nella sua carne e nelle sue ossa, nella lunga catena di sangue e antenati che risaliva fino ad Hannekin, primo Duca di Bongarten.

Nelle faticose settimane di marce dopo il tramonto gli uomini si erano lentamente abituati a montare il campo nell'oscurità, imparando a portare avanti quel compito difficile e fastidioso con l'efficienza rapida e scontrosa della stanchezza.

Quella notte, tuttavia, vi era una tensione diversa nell'aria, una vibrante aspettativa che saturava persino il cielo terso fino a inghiottire la pallida lama di luna calante; non era stato diramato l'ordine di marcia per il giorno successivo e gli uomini si riportavano a vicenda che il comandante Adikan aveva convocato un consiglio di guerra con sussurri che sembravano salire fino alle stelle.

Agorwal levò gli occhi agli astri e non poté che trovare appropriato il modo in cui la luna rendeva difficile scorgere il Pozzo, domandosi, nel contempo, cosa l'Arpista bisbigliasse al Re Folle per attirarlo verso la sua morte da affogato, cosa offrissero i suoi cantilenanti mormorii, se amore, gloria o la corona dei re della terra. Era stata la sua storia preferita da bambino: ora ricordava solamente come, dopo averla raccontata, sua madre lo ammonisse che ogni uomo è Re Folle, Arpista e Pozzo di se stesso.

La voce di Adikan lo raggiunse, trasportata da un refolo freddo di vento montano e, per un istante, non poté fare a meno di chiedersi che cosa scorgesse sul fondo del pozzo il suo futuro cognato, né esimersi dal temere che, per afferrare quel qualcosa, li avrebbe trascinati sul fondo con sé facendo silenzioso appello alle catene dell'onore e del dovere.

Si erano spinti troppo a Nord, troppo a fondo nelle terre delle tribù barbare: il Passo delle Partenze era miglia e miglia di marcia invernale alle loro spalle, il Monte Renf un elemento del paesaggio per chi desiderasse volgere lo sguardo verso casa, e quella consapevolezza gli raffreddava le ossa più impietosamente di qualsiasi gelata notturna. Era il tragitto di Hartaigen di Usen, la linea delle sue incredibili vittorie, un percorso riconoscibile a tal punto che Agorwal non poté esimersi dal sospettare per l'ennesima volta che tutte le argomentazioni pacate con cui Adikan esponeva il proprio piano non fossero che bugie formulate con cura per nascondere di stare inseguendo una leggenda.

«Mio signore, il comandante in capo chiede il piacere della vostra compagnia per cena.»

Come tutti gli uomini Agorwal non amava essere distolto dalle proprie considerazioni ad opera di un ragazzino, nonostante ciò reputava che la buona educazione non consistesse nella capacità di formulare frasi di rito, simili a quella che Adikan aveva posto in bocca a quell'undicenne intirizzito, ma in una disposizione d'animo quanto più possibile benevola, così sorrise al giovane scudiero.

«Non credo di conoscere il tuo nome.»

«Rogic di Colan, mio signore.»

Era un ragazzo stanco, con grandi occhi azzurri così palesemente turbati dall'agitazione febbrile di quel campo nel cuore del territorio nemico che Agorwal gli posò una mano sulla spalla con fare rassicurante.

«Il figlio del signore di Colan. Devi essere molto onorato di servire Adikan in persona.»

«Il comandante è molto gentile.»

Rogic gli sorrise con cautela, un disagio palpabile a impregnargli l'espressione di malessere. Agorwal riconobbe la bugia per quella che era, poiché Adikan si comportava sempre in modo perfettamente cortese, ma non riusciva a ricordare che fosse mai stato, in tutta la sua vita, gentile. Sospirò pesantemente, domandosi con amarezza perché sua sorella non sembrasse in grado di vedere la differenza.

«Ne sono certo.»

«Cosa devo riferire al comandate?»

Agorwal vi pensò per un istante, prima di dare una pacca benevola alla guancia di Rogic in un gesto che gli era stato familiare quando Galoth era ancora lo scudiero di suo padre.

«Niente.»

«Niente?»

Lo sbalordimento che travolse il viso pallido di Rogic gli strappò una risata pur nel mezzo della sua irritazione verso Adikan.

«Assolutamente niente. Ho sentito la voce del comandante giusto un secondo fa, non può che essere molto vicino; non ho intenzione di farti congelare per nulla. Va' nella mia tenda, piuttosto, il mio scudiero ha la tua età, bevete pure il vino che i servi staranno scaldando per me. Parlerò con Adikan di persona.»

Attese che il ragazzo si congedasse prima di allontanarsi con passi decisi, rassegnandosi a rimandare ulteriormente il momento della pace e del riposo.

La voce di Adikan non era difficile da seguire: chiara e limpida, risuonava nell'aria come la sferzata di una frusta di raso, sempre pronta a suggerire lasciando intendere di ordinare, a commentare celando appena di schernire. Un giorno quella voce sprezzante avrebbe promesso di avere eterna cura di Margareth e lui sarebbe dovuto restare a guardare, gridando i loro nomi sotto una cascata di petali bianchi, ricordando la distaccata indifferenza con cui Adikan gli aveva risposto fra turbinanti fiocchi di neve: “me ne sono scordato, ho dato precedenza a tua sorella”.

La pronuncia perfetta con cui aveva scandito la propria menzogna aveva lasciato nelle sue orecchie un eco impossibile da scacciare e, ogni qual volta Adikan proferiva verbo, Agorwal udiva lo spettro di quelle parole richiamargli alla mente il pomeriggio di fine inverno in cui aveva cavalcato a perdifiato nei boschi per trovare Galoth prima che morisse da solo nella tormenta imminente.

Lo aveva raggiunto lontano dal punto dove la giumenta su cui stava cavalcando con Margareth si era azzoppata, lontano anche dal bivio dove Adikan era arrivato in soccorso della promessa sposa, lasciando il proprio fratello in balia del destino. L'orrore che aveva provato nel constatare che Galoth aveva continuato a camminare con ostinazione, quasi non si aspettasse che suo fratello mandasse qualcuno a prenderlo, aveva messo radici profonde nel suo cuore.

Adikan lo sapeva e in ogni sguardo, anche in quello che gli lanciò in quel momento, voltandosi verso di lui nella notte, vi era la fredda consapevolezza dell'accusa silenziosa che Agorwal gli muoveva da allora.

«Vedo che il mio messo ti ha raggiunto.»

Molte fanciulle trovavano affascinante il sorriso composto di Adikan, ma ad Agorwal pareva sempre di vedere un'ombra di disprezzo nella piega tagliente delle sue labbra sottili, un'alterigia compassata nell'arco perfetto delle sue sopracciglia bionde.

«Mi ha riferito il tuo messaggio. Ho già cenato, ma sono qui.»

«Molto bene.»

L'attendente che portava la lampada parve stupirsi tanto del suo rifiuto quanto della risposta indifferente che aveva ricevuto; non aveva ancora imparato, probabilmente, che gli inviti di Adikan non erano che una sofisticata forma di convocazione.

«Ho sentito dire che il morale dei soldati di Bongarten è basso.»

Agorwal sospirò, perché corrispondeva al vero solo in parte e l'umore degli uomini di Bongarten non era peggiore di quello del resto dell'esercito.

«Sono stanchi e preoccupati: marciano fino a tarda notte, il rigore dell'inverno non si è ancora temperato e non hanno ingaggiato battaglia neppure una volta, sebbene siano penetrati a fondo nel territorio nemico.»

Non aggiunse che il Conte non era con loro o che prendevano ordini da un uomo che non conoscevano e che non faceva niente per farsi amare o stimare. Sospettava che almeno una parte di Adikan lo sapesse già e che il cipiglio rancoroso con cui guardava i suoi sottoposti affaccendarsi nella notte non fosse che la più trascurabile manifestazione di quella consapevolezza.

«Immagino sia stato spiegato loro che ci stiamo inoltrando nella Regione delle Valli per sconfiggere le tribù tenendole separate una dall'altra.»

Se fosse appartenuta a un uomo dotato di maggior autoironia, Agorwal avrebbe motteggiato l'ingenuità con cui Adikan supponeva i soldati venissero messi a parte delle sue risoluzioni strategiche. Non che non li sentisse, di tanto in tanto, avanzare supposizioni in merito: aveva imparato, tuttavia, che simili speculazioni non erano che il segnale di un dubbio serpeggiante e di una sfiducia mal celata.

«Sentono solo che la battaglia si avvicina e, dopo tante difficoltà, hanno paura di morire lontano da casa.»

Era una verità banale eppure terribile e gli parve che il solo pronunciarla rendesse lo spettro della morte più vicino di qualche passo, riempiendo l'aria di un silenzio incombente, capace di inghiottire tutti gli schiamazzi emessi per esorcizzarlo.

Adikan scostò con fastidio una ciocca di capelli biondi che il vento gli aveva portato davanti agli occhi e in quelle iridi celesti come il cielo primaverile Agorwal non riuscì a cogliere la comprensione e l'empatia per la fragilità umana che sperava di generare con la propria affermazione.

«Pensavo fossero dei guerrieri.»

Sospirò involontariamente prima di rispondere, domandosi che immagine distorta avesse Adikan di coloro che erano costretti a seguirlo.

«Un guerriero è solo un uomo con una spada.»

«Un uomo o un bambino?»

La domanda implicava una tale dogmatica certezza della propria idea di coraggio e di virilità che Agorwal reputò fosse inutile replicare, la risposta, tuttavia, gli scivolò dalle labbra involontariamente, andando a formare una nuvola biancastra e umida dinnanzi al suo volto.

«Di fronte alla morte abbiamo tutti sette anni.»

Aveva visto veterani temprati da mille scontri invocare piangendo la propria madre nell'inutile tentativo di riportare le interiora nella loro sede naturale, assassini cinici e incuranti implorare la pietà del boia e, persino negli occhi vitrei di coloro che aveva ucciso, gli era stato impossibile ignorare il riflesso sbiadito della paura della fine, il desiderio inesaudito di protendersi ancora verso l'amore e verso la vita.

«Cerca di farli crescere fino a raggiungere almeno gli undici1, così potremo portarli in battaglia. Vuoi?»

Un giorno Adikan avrebbe risposto con quel sarcasmo inquinato di disprezzo a una persona che non aveva giurato fedeltà alla casa di suo padre e Agorwal non sapeva se pregare per l'allontanarsi o l'avvicinarsi di quella circostanza.

Non si degnò di rispondere alla sua provocazione, poiché era troppo stanco per parole che non avrebbero avuto alcuna utilità, così lo fissò soltanto, domandosi per l'ennesima volta come la superba bellezza del suo viso e dei suoi modi freddamente cortesi impedissero a sua sorella di vedere che genere di uomo fosse in realtà.

Adikan lo fissò a sua volta, una sgradevole espressione di superiorità dipinta sul volto, e Agorwal fu tentato di chiedergli che cosa vedesse prima di accorgersi, non per la prima volta, che non gli importava.

«C'è altro o posso andarmene? Sono stanco.»

Venne congedato con un cenno impercettibile del capo: fu lieto di non dover sopportare nessuna formula di cortesia e ancor più lieto di dare le spalle ad Adikan allontanandosi a grandi passi nella notte verso i propri uomini, la propria tenda e il proprio riposo.


1Come viene affermato anche in “Ma i figli dei suoi figli hanno il trono” i figli del Sirenmat vengono portati per la prima volta in battaglia al compimento dell'undicesimo anno di età.

Note dell'autrice:

 in effetti non so bene cosa dire, per cui mi limito a ringraziare lettori e soprattutto i recensori. 
Il banner non è esattamente quello che avrei voluto (e si allontana dallo stile degli altri due), ma non so cosa farci.
   
 
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