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Autore: Gaia Bessie    15/11/2013    2 recensioni
Qualcuno dice che, per Annabeth Castellan, la guerra non è mai finita. Lo s'intuisce dal sorriso carico di malinconia che dedica ai sottomessi della gerarchia di Crono, o dalle parole troppo dure che rivolge al marito. Siamo come estranei, Luke, estranei con dei ricordi. Eppure si dice che la vita non ci lasci mai cicatrici che non siamo in grado di sopportare. Oppure ci lascia sulla terra per essere trafitti con aghi d'acqua.
[Luke/Annabeth/Percy; OC | Post fine quinto libro alternativo| Mini long| Angst]
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Nico di Angelo, Percy Jackson, Rachel Elizabeth Dare
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Indovinate un po' chi si è ricordata che oggi è venerdì, di nuovo: ovviamente la sottoscritta. Ma oggi aggiorno prima di cena, dato che sono riuscita a ricordarmelo in tempi relativamente brevi. Senza contare che sono così stanca che non connetto. E io dovrei affrontare un compito di matematica, la prossima settimana, sicuramente. Ricordo soltanto che i logaritmi sono come i pesci, ma non chiedetemi il perché. Comunque, il capitolo. La prima cosa che mi viene da dire è che è stato più difficile trovare il titolo che scriverlo interamente. Nell'ordine, questo capitolo avrebbe dovuto chiamarsi "Pensieri e parole" (Titolo assegnato al quinti capitolo), "Dimmi che", "Se lo ami abbastanza". E poi sono approdata a questo "Dimmi che (Mi ami?)" che sinceramente mi piace perché riprende il capitolo due e mostra quelle differenze sostanziali che ci stanno avviando verso una definitiva rottura. Fra il mondo dei primi capitoli e quel che verrà dopo (niente spoiler).
Questo, per certi versi, è il capitolo di Nico. Non l'ammetterò mai per certo ma avrei tanto voluto che il vero protagonista dell'epilogo fosse lui. Ma non è stato possibile, il perché vi sarà chiaro più avanti. Fondamentalmente lui è il ribelle senza ribellione che tanto mi piace, quello che cerca di tenere uniti i frammenti. E niente, probabilmente lo amo solo perché so già cosa patirà nel sequel. E nel prequel. Insomma, andiamo avanti. Per quanto riguarda Rachel, scoprirete qualcosa che sarà oggetto di un fututo MM (che probabilmente scriverò per Natale. O forse prima. Ancora non so) perché mi dispiacerebbe lasciare la sua storia incompiuta.
Buona lettura e grazie a chi recensirà.






 

Perché non me lo dici?
Anche se non lo saprai mai.



Non ha dormito per tutta la notte, continuando ad agitarsi accanto a suo marito profondamente addormentato – divorato dagli antidolorifici per quella ferita che lei non gli ha curato – mentre migliaia di pensieri le affollavano il cranio. Annabeth non ha dormito, ma ha anche smesso di bruciare tutti quei fogli, ha semplicemente smesso di affondare nella nebbia della sua testa e di rimanere in attesa di un principe azzurro che non arriva mai. Forse perché, a differenza di ciò che solitamente narrano le fiabe, il principe azzurro è diventato grigio su una pira e poi sabbia nel mare. Ma non importa, adesso che ha qualcosa che le occupa le giornate: si alza presto col pretesto di uscire, rincasa tardi. Si perde fra le piante di un giardino piantato in tutta fretta per l'arrivo della divinità più potente di tutti, solo per incontrare uno dei tanti ribelli. Senza ribellione. Ogni volta, Luke la guarda con aria triste, come se avesse compreso qualcosa di tutta quest'intricata vicenda. E lei abbassa lo sguardo, colpevole. È sempre in quel momento che Luke comprende che lei l'ha tradito con pensieri, parole e fatti quando la mattina si alza in punta di piedi per raggiungere qualcuno. E non dice nulla.
Qualcuno gli ha riferito che sua moglie s'incontra ogni mattina con un bel giovanotto dai capelli neri – e gli occhi azzurri? – con cui passeggia nel giardino del marito per un po'. Lo conoscono tutti, il nuovo Tenente, un'altro ottimo acquisto per le file di Crono, un giovanotto cresciuto troppo in fretta che è quasi sospetto. Ma il Generale Castellan non dice nulla, non si lamenta, non attacca e avvelena quel ragazzino in cui rivede eccessivamente Percy Jackson. Ha perfino smesso di cercarla.
Ma questo è successo quando, un giorno, si è alzato ed è sceso sulla spiaggia. Mentre con i piedi smuoveva la sabbia e l'acqua marina gli avvolgeva i piedi, l'ha vista: una macchia rossastra che si dibatteva, smossa dalle onde. Una vampa di capelli biondi, il bordo rosso di una gonna. E lui ha smesso di cercarla.

 

 

***

 

Hanno ripescato una prostituta annegata nel mare sconfinato del nuovo Nord, con un pugnale conficcato nel petto e un sorriso sul volto. Somigliava vagamente ad Annabeth Chase. Qualcuno dice che in realtà sono la stessa persona1.

 

 

***

 

Luke Castellan passa la maggior parte del tempo in giardino, pigramente disteso sull'erba rada, cercando segni del passaggio di sua moglie. Saltuariamente, Rachel Dare scivola accanto a lui, un sorriso debole che le rischiara il volto. Scuote sempre la testa, con aria rassegnata, prima di mormorare le solite parole.
«Non puoi inseguirla per sempre» sussurra, trascinando via quel poco di colore che anima il viso di Luke. «Lei fugge per non essere presa, Luke».
È solo ogni tanto che lui le risponde, la stanchezza che traspare dalla sua voce come un gas velenoso. «Vorrei che la smettesse di sccappre» mormora. «Vorrei che scegliesse qualcosa». Qualcuno. Rachel non ha ancora trovato una risposta da dargli.

 

 

***

 

Nico le ha parlato della comunità di ribelli al Nord: di come vivono, sepolti dal mondo, progettano la grande rivalsa degli Olimpi. Parla di come Percy si è impegnato per portare avanti la ribellione, prima di diventare cenere nel mare. Le racconta delle visite di Apollo, dei nuovi Mezzosangue. Le chiede di fuggire con lui.
Ma lei non risponde mai di sì.

 

 

***

 

«Percy mi ha detto di portarti con me» le sussurra Nico, un giorno che si attardano fra le rose bianche del giardino. «Pensava che tu l'amassi abbastanza per farlo».
«Non posso venire con te» risponde Annabeth, laconica. «C'è qualcosa che mi trattiene qui». Qualcuno, ma questo non potrebbe mai ammetterlo.
«O forse non l'amavi abbastanza».

 

 

***

 

Annabeth arretra, disorientata, come colpita da uno schiaffo – in realtà si sente come se Nico gliel'avesse davvero dato, quello schiaffo – che la fa barcollare. Finora si è sempre cullata nell'illusione estatica di un amore dal mancato finale, come fanno solitamente le ragazze che si portano dietro l'odore di polvere, guerra e il tintinnio lieve delle fiabe per bambini e vestiti rosati con lustrini mai smessi. Un'infanzia infinita. Ha sempre dato per scontato di non poter amare nessun altro, non più.
«Lo credevo morto» si difende, balbettando appena, confondendosi nelle volute delle sue stesse parole. «Altrimenti, io...». Non sa nemmeno lei, cosa dire.
«Non lo amavi abbastanza» risponde Nico, calmo. La pietrifica con quegli occhi scuri, apatici, duri. «Altrimenti non ti saresti lasciata raccogliere in questo modo» le sorride, calmo. «Altrimenti non dovresti nemmeno scegliere, Annabeth, non di nuovo».
«Non voglio scegliere» mormora lei, di riflesso. «Non ho nessuna scelta, davanti, se non un obbligo: rimanere qui» e scuote la testa, affranta. Qualcosa la trattiene. Qualcuno.
«Solo perché lui lo ami abbastanza».

 

 

***

 

Un giorno, Luke finalmente si decide a chiederglielo per l'ennesima volta: succede che si è lasciato cadere sul letto con un sospiro pesante, la ferita sulla schiena che pizzica e infradicia di sangue le bende. Alza lo sguardo per incontrare quello di lei, gli occhi socchiusi alla luce del giorno, una mano che vaga sul ventre sempre più prominente. È mercoledì e il dubbio che lo consuma è più opprimente che mai, è come un tarlo che s'insinua sotto la pelle e non gli lascia tregua.
E quello stesso giorno, Annabeth decide di rispondere per la prima volta a quella domanda un po' inopportuna, anche se adesso conosce la risposta. Gliel'ha fornita Nico, in silenzio, quando l'ha lasciata andare per tornare da quel marito cupo e silenzioso che non la cerca più. Non la trova più in nessuno, ormai.
«Mi hai mai amato, Annabeth?2» le sussurra lui, con un filo di voce. La guarda negli occhi, implorante. «Dimmi che mi ami».

 

 

***

 

Luke la guarda, gli occhi spalancati in quella speranza che avanza e non lascia nient'altro lungo il suo cammino. Il Generale ha gli occhi di un azzurro slavato, liquidi di pioggia, i capelli umidi di quando era corso fuori per fossilizzarsi sul dondolo. Lei non c'era. E così si era stesso ad aspettarla: lei era arrivata dopo un'interminabile ora, le gonne raccolte fra le braccia e il volto stravolto. Si era avvicinata a lui con prudenza e le mani strette fra di loro, tormentate dalle unghia che scavavano la pelle. Con dolcezza infinita gli aveva scostato i capelli fradici dalla fronte sudata, sorridendo di quel sorriso malinconico che ora ritrovava nel viso di lui. L'aveva portato dentro.
Annabeth lo guarda, le palpebre calate per celare ciò che le passa nella mente, quasi ci fosse un collegamento misterioso fra cervello e occhi. Teme che Luke indovini i suoi pensieri, che legga quei geroglifici scolpiti nell'iride mentre gli passa una benda gelata sulla fronte e sorride accondiscendente. Teme che indovini quella confusione le passa nella testa, che indovini tutte quelle parti di lei che vorrebbe tenergli nascoste. E fugge in silenzio, lei, quando lo sguardo di Luke comincia a pesarle addosso come un macigno. Sta lontana da lui quasi come se, con un bacio, suo marito sia in grado di rubarle l'anima3. E non solo. D'imporle una scelta che non vuole.
«Rispondi» è il sussurro che fende l'aria. Annabeth lo guarda, dritto negli occhi. Apre la bocca, ignorando quel dolore che le stringe le viscere, i pensieri – le parole – che s'incagliano nelle corde vocali e fanno fatica a risalire. Rispondi. Ma le parole non le escono dalla bocca.

 

 

***

 

La osserva, meravigliato. Goccioline d'acqua gelida gli scendono sul volto in una parodia di lacrime piuttosto efficace. L'ha sentito, ne è certo. L'ha vista chinarsi verso di lui e stampargli sulla guancia – vicino alle labbra: troppo vicino – un bacio che sapeva un po' d'acqua piovana. E lacrime. Le ha sentite, sotto il resto.
E poi l'ha guardata mentre se ne andava, in punta di piedi per non fare troppo rumore.

 

 

***

 

Nico l'ha vista, affacciata al balcone, i capelli mossi nel vento che soffiava imperterrito in quell'autunno che avanza senza preavviso: l'ha vista sorridere al nulla, un sorriso un po' tirato che l'ha fatta sembrare ancora più giovane. Rachel Dare non parla e non piange, ma si affaccia dal balcone sporgendosi un po' troppo, finché quel peso che le grava sul petto non sparisce per un po'. Si allevia quella sensazione d'inconcluso che le pesa addosso, quel presentimento che le stringe lo stomaco in una morsa dolorosa.
Pensa che probabilmente sta ancora aspettando qualcosa, un miracolo che la sollevi da quell'incarico che le hanno affibbiato deliberatamente. Perché, fondamentalmente, Rachel odia le persone che tradiscono con pensieri e parole e non coi fatti, poiché nessuno riesce a spogliarsi delle colpe e farle divenire proprie. Eppure anche lei ha tradito Apollo con pensieri e parole, perché di fatti non ne compie mai, non ne ha la forza. È rimasta parzialmente scolorita dalle vicende della guerra, annebbiata di fronte a un fato che non le si addice in tutto e per tutto: le hanno comunicato che doveva cambiar fazione, legarsi per sempre al Dio che aveva tradito tutti, partorirne – abortirne – i figli. Le hanno comunicato che deve smettere di sperare, perché per certi casi la fine non porta mai la pace: ti lasciano da sola, sotto la pioggia, impalata da aghi d'acqua e col petto umido di dolore. E lei si è limitata a calare la testa per correre dietro alla morte del primo Generale, a osservare con distacco infinito quel continuo gelarsi dei Castellan, perfino Annabeth che era sempre stata tutto un cuore: ma erano arrivati un punto molto, dove uno dei due cedeva sempre e l'altra continuava a correre via per fuggire da quella risposta che la tormenta già da un po'. Ha visto ribelli senza ribellioni e ribellioni senza ribelli, ma non si è mai scomposta o ha cominciato a sperare.
«Mi avevano detto che ti avrei trovata qui» esala Nico, scuotendo dalla testa polvere e sudore. Sorride e sembra ancora un bambino. «Scusa, se ti ho spaventata».
Lei sorride e, per un attimo, nei suoi occhi si vede il ricordo di ciò che ha stato. Nico inclina la testa, perplesso, nel vedere che lei non corre verso di lui, come l'ennesima principessa un po' stereotipata che aspetta solo di essere salvata: non lo fa, nemmeno un po', rigida come una statua nei vestiti troppo larghi.
«Va tutto bene» risponde Rachel, meccanicamente, muovendo con cautela un passo indietro. «Cosa ci fai qui?» è il sibilo che si perde nell'aria, nell'angoscia che avanza.
Lui la guarda, spalancando gli occhi neri, perplesso. «Sono qui per portarti via» spiega, dolcemente, come se avesse a che fare con una bambina un po' capricciosa.
«Non posso andare via» è la risposta di lei, secca, che gli lancia come una maledizione o un insulto. «Mi dispiace, ma non vi aiuterò nella vostra ribellione».
«Perché?» è il balbettio sconnesso di Nico, l'incertezza che lo fa tremare. «Perché, Rachel? Ti hanno presa del tutto e mi consegnerai a Crono, ora che sei con lui?».
«No» risponde Rachel, sottovoce. «Ma non posso venire con te, Nico, mi dispiace. Non posso... mi dispiace, ma non vi sarei di nessun aiuto. Dico davvero».
«Non mi hai detto il perché» ripete Nico, muovendosi già per lasciarla da sola sul balcone. «Magari, se si potesse fare qualcosa, tu...».
«Non si può fare nulla, per me» risponde lei, facendo mulinare i capelli rossi. «È solo che lo amo abbastanza».

 

 

***

 

Annabeth non dorme più, ormai, non riesce nemmeno a racimolare la calma necessaria per far pesare il sonno sulle palpebre: sua è quell'inquietudine perenne che non riesce a mandar via, l'indecisione che la divora e non lascia traccia. E quel dubbio che, in qualche modo, continua a tornare quando le parole le gonfiano la gola e non riescono mai a uscire – e ci sono sempre quegli oggettini che tintinnano nella tasca, le promesse infrante, che la costringono a fermarsi per cercarli e rimetterli al loro posto – nemmeno quando lei muove le labbra in una preghiera silenziosa. Dimmi che mi ami. E continua a tradire lui – lui chi? - con pensieri e parole, ma non saprebbe dire se lo fa anche con dei fatti. Non lo ami abbastanza. È l'incertezza la logora, lentamente, quando la sera si corica e si trova sempre sola e non capisce mai chi è che continua a cercare. Nico non è più tornato, da quando lei gli ha detto che non sarebbe andata con lui: non gliel'ha detto realmente, ma si è affidata a un silenzio denso di sottintesi che forse ha portato altri significati dove lei intendeva altro. Nico le ha detto che le ribellioni fioriscono ovunque come boccioli malevoli e nessuno può farci nulla e sarebbe per lei più prudente cambiar fazione per non finire definitivamente in quella massa di terra e ossa, nel cimitero. Gliel'ha sussurrato all'orecchio, che chiuderanno un occhio sul bambino, se lei cambia schieramento, le ha detto che dovrebbe farlo per Percy. Per Percy che è morto perché si ostinava a cercarla: gliel'ha raccontato il figlio di Ade, durante l'ultima sera, sibilando parole come un serpente e il suo veleno; quando le ha detto che Percy Jackson non aveva mai smesso di cercarla, dopo la battaglia, Annabeth si era quasi sentita male. Si era ricordata di quando Luke l'aveva sollevata da una pozza di sangue – era di Percy, l'aveva visto crollare a terra ferito dal pugnale di un figlio di Ares voltagabbana – e l'aveva portata via dall'inferno. E Percy era vivo e preoccupato per lei, mentre Luke cominciava a gettarle dentro i semi di quella malvagità che non le apparteneva. L'aveva cercata ovunque per trovarla nella tana del nemico, credendo fermamente che lei si sarebbe industriata per sopravvivere.
Nico se n'era andato con un sorriso sulle labbra, nel vederla sconvolta di fronte a quel racconto che lei si era persa, calandosi giù dal balcone come un principe orientale.
E non era tornato più, dopo averle raccontato quella storia, dopo averla scossa all'improvviso con quella storia dimenticata da tutti. Quasi istintivamente, Annabeth ha perfino cominciato ad aspettarlo, quando la sera Luke si addormenta nel continuo procrastinare una risposta che forse le deve: si è tanto crogiolato in quella che credeva essere un'assoluta certezza che, adesso, hanno cominciato ad assalirlo i dubbi. E procedendo con l'avanzare del tempo, fondamentalmente, ha compreso di non essere più in grado di palesare quell'assurda verità con cui ha convissuto dal primo giorno, forse nel timore dell'ennesimo rifiuto o di scoprire che probabilmente è solo l'ennesima bugia che si è propinato per addolcire quell'amara sentenza che gli è calata addosso come una condanna. Non sa cosa fare, cosa pensare, cosa dirsi per tranquillizzarsi. Ha contemplato per così tanto tempo l'idea di una vita senza Annabeth che, adesso che ha quasi la certezza assoluta – da quando ha visto Di Angelo calarsi dal balcone con un'espressione confusa in volto – che non fuggirà via, non sa cosa pensare. E deve reprimere il desiderio di mandarla via, poiché un'altra certezza che lo domina è quella che con lui non sarà mai al sicuro, soprattutto sarà sotto il suo tiro che l'ha ferita più di ogni altra cosa. L'ha capito, finalmente, che non potrà mai durare.
E Annabeth non capisce, non ha nemmeno la minima idea di cosa passi nella testa di suo marito, quando lei si sveglia e nota che le lascrime gli hanno scavato dei solchi nel volto, mentre lei dormiva – e con la mano Luke scacciava quegli incubi che poi andavano a tormentare solo lui – e non comprende quell'angoscia che non è mai la sua. Lo guarda mentre si alza, con circospezione, cercando qualcosa con lo sguardo – qualcuno o quei fogli bruciati, con su scritto “hai smesso di amarmi”? – e fermandosi sempre davanti a sua moglie. Annabeth sorride e, per un attimo, è di nuovo quell'antico sorriso che sfoggiava nei primi anni di matrimonio, quello che ha smesso con la venuta dei ribelli e di una ribellione fantasma a cui non potrà prendere parte. Forse perché non l'ha mai amato abbastanza. O forse perché le manca una motivazione, o qualcosa.
«Penso che dovresti andartene» è il sussurro teso, glaciale, che Luke le rivolge. E un sorriso che gli squarcia in due il volto. «Dì a Di Angelo che andrai con lui» e scuote la testa, come per mandar via un pensiero solitario. O qualcuno che si ostina a confondergli la mente con fastidiose chiacchiere e recriminazioni. «In fondo, è proprio questo ciò che volevi, non è vero?» Luke è il primo ad averlo compreso, al contrario della moglie, lo sente nella pelle e appena dietro. «Ti sto dicendo che puoi andare».
«Mi avevi detto che non mi avresti mai lasciata andare» è tutto quello che riesce a dire lei, disorientata. «Avevi detto che saresti morto, piuttosto che lasciarmi andar via».
«Oh, lo so» risponde lui, scrollando le spalle con aria noncurante. «Non dubitare che io non sia già morto, Annabeth. Non farlo nemmeno per un solo istante».
Luke sorride e, in quel sorriso, sembra volerci mettere quell'anima che non gli appartiene già più. Ha le dita pallide tese sopra un singolo angolo di foglio bruciato, parole che si confondono in un disegno che Annabeth non riesce a riconoscere. Gli chiede – e lui a lei – una risposta che non arriva, ma rimane sospesa nell'aria.
Luke le getta in grembo un biglietto piegato con cura – e sporco del sangue con cui si è tagliato quando ha dovuto cambiare forza con precisione ostentata – e batte in ritirata. Per un momento, il foglio sembra spiccare il volo come una farfalla di carta e inchiostro – e anche sangue – prima di essere catturata dalle mani di Annabeth, che la dispiega con impazienza sulle ginocchia, per leggervi certamente ben altri messaggi nascosti sotto la patina di inchiostro stesa da Luke. Spalanca gli occhi.

(Non l'ammetterà mai ma, per un momento, ha letto due parole che lui le ha sempre detto. Le ha ascoltate, indiferrente, convinta che le fossero dovute: e, ora che lui ha smesso di pronunciarle o anche solo di pensarle o esplicitarle – e l'ha tradita con il pensiero e le parole – le manca quasi quella sicurezza lieve che le scaldava le ossa in quelle lunghe ore da sola. E ha capito che forse ha sbagliato qualcosa, quando l'ha tradito – niente pensieri o parole: un fatto che ricorda ancora – sapendo di ferirlo).

Eppure, quando allunga le dita per prenderla, lei è già morta in una manciata di coriandoli – e lembi di pelle e sangue – che non lascia scampo. Forse, è allora che lo capisce: in una verità che si palesa all'ultimo secondo e lascia senza fiato, come quel macigno che precipita e ti strappa l'aria dai polmoni. Forse, si dice, assaporando quella quasi certezza come se fosse una leccornia da divorare – e non la vedrà mai più – all'istante, forse l'ha amato – o lo ama ancora – per davvero.
Ma è una di quelle certezze che sfiora e lascia stare, in un battito di ali e una farfalla di carta che vola subito via, travolta dal vento. La carta si accartoccia come sotto una tempesta invisibile, piegando angoli fino a diventare una briciola minuscola o un lembo sottilissimo di pelle e sangue o ancora una farfalla che viene trafitta da aghi d'acqua. È tutto uno scandire silenzioso di tempi da rispettare, una ritmicità che lei conosce così bene solo perché l'ha vissuta.

Lunedì: il principio che si perde in una selva di ricordi e di un passato che non tornerà, perso nel riflesso in una pozzanghera formata da pagliuzze di ghiaccio. E lei è sempre lì, col petto ancora zuppo di dolore e la pelle trafitta con aghi d'acqua – ma, nell'alto dei cieli, non c'è mai arrivata.

Martedì: il sangue che scorre lungo il bordo della vasca in una parodia di decorazione. Rimpianto. Luke che l'aspetta sempre e lei che non si volta mai indietro.

Mercoledì: la corsa che la porta da una cella – la sua. Era sempre la sua – a un'altra. Rimpianto. Percy che l'aspetta e lei arriva sempre. Ancora.

Giovedì: la sorpresa di una parodia come di un Romeo antiquato che riscuote sempre un debito successo. Nico che la guarda, disorientato. E lei che non lo ama abbastanza, ancora, forse non lo ama per niente. E il rimpianto che le mastica le ossa, continuamente, come in una scena già scritta da altri.

Venerdì: il dolore, la cenere che non si stacca dall'epidermide ridotta a brandelli. La morte che si respira con l'aria e ristagna in quell'effluvio ripugnante. Sempre.

Sabato: il riposo. Quel giorno in cui si risveglia con una verità diversa incisa sulla pelle – e a volte non riusciamo nemmeno a sembrare ciò che vorremmo essere.

Domenica: il vuoto che le sale al cuore quando si perde nelle lancette dell'orologio e si accorge che la settimana stava per ricominciare e lei è sempre la stessa.

Era un continuo e ciclico ripetersi di giorni e ore che si accavallavano tutte uguali, ritmiche, per portarle le solite sensazioni che scolorivano col tempo: e lei non ne poteva più, di confondersi percependo ogni volta una pagliuzza diversa che la indirizzava verso la cosa – persona – sbagliata, disorientandola.
Ed è semplice, la soluzione per spezzare la catena, solo che lei si ostina a non vederla. O a ignorarla, quando si sporge per vedere Luke passare per il corridoio, pallido e sciupato in vestiti larghi e lacrime e pioggia che gli scolpiscono il volto. Se n'è accorta, delle ombre scure sotto gli occhi, dei vestiti infinitamente larghi, della nebulosa coltre di mercurio liquido che preme lungo gli argini degli occhi. L'ha visto piangere solo una volta, lo ricorda, quando il camino ha confuso pelle bruciata – aveva immerso le mani fra le fiamme, per afferrare un nemico che non prendeva mai – e fuoco, quando lei l'aveva supplicato – gli aveva ordinato, in un'impeto di tirannia che non le si adattava – di ucciderla. E forse lui l'aveva fatto, con pensieri e parole e farfalle di carta. Ma solo perché l'amava abbastanza e qualcuno dice che, quando è così, devi saper concedere qualunque cosa a chi ami davvero. E Annabeth lo ricorda, quando voleva morire e non aveva altra scelta – anche ora è così, quando si sente stanca e non sa come fare per superare la giornata. Ed è tutto tremendamente complicato quando cerca di dare ordine alla situazione e proprio non capisce come sbrogliare la matassa che prova a toglierle il respiro, strozzandola. Annabeth non desidera morire, non l'ha mai desiderato, ma quando si trova a dare un senso a tutto non riesce nemmeno a trovare una singola ragione per continuare a imporsi di andare avanti – per inerzia: si è fermata tempo fa – e vivere in quella sequela di giorni sempre uguali.
Ed è in quel momento, in un sospiro carico di ansia, che si rende conto che oggi è martedì e Luke le ha detto di andar via. E le ha gettato abiti e un biglieto in un baule e le ha detto di andar via – ma non è felice: l'ha desiderato per tanto tempo che ora vorrebbe solo rimanere e cambiare quella storia senza trama che ha scritto solo lei.
Eppure, per la prima volta, la soluzione le viene così spontanea che le sembra quasi impossibile in un atto di ribellione come non ne ha più sperimentati. E, per un attimo, si chiede se le parole possano mutare sulla carta quando sono già state vomitate dalla penna, in un lago d'inchiostro e lacrime che non si asciuga mai. Sorride.
L'abito le si inzuppa di pioggia e le ali argentate delle farfalle di stoffa argentate diventano un tutt'uno con lo sfondo color panna, così non volano più, restano incollate in un mondo bidimensionale che conoscono solo loro. Corre, pensando distrattamente di essere a piedi nudi in mezzo al fango, verso la figura nascosta dalla foschia.
Si ferma solo quando le manca il fiato e non sente nemmeno più quegli aghi che le penetrano nella carne, ferendola a morte. Tende la mano a Nico, tremando, il petto sempre più stretto in una morsa crudele che non le lascia il fiato necessario per dire alcunché. Si allontanano, insieme, senza dire una parola.
Se Annabeth trovasse il coraggio di voltarsi, noterebbe che Luke è lì, che la guarda. E capirebbe perché il petto le si è nuovamente inzuppato di dolore.

 

 

***

 

Si chiede perché li ha lasciati andare: un impulso stupido che probabilmente gli costerà la vita e gli ruberà anche quell'ultimo respiro che gli pesa fra i denti. Ed è la domanda che gli pesa addosso quando si accorge che avrebbe voluto essere ancora privo di coraggio – e cuore, anima e niente – per impedirle di lasciarlo.
Lascia che le dita si fermino su un vecchio fagotto, un vestito da sposa dall'orlo sfrangiato e le maniche distrutte, le cuciture saltate. Lo stringe come un feticcio e ne annusa il profumo – cocco sintetico e tanta polvere – seppellendovi dentro il volto. Lo specchio gli rimanda quell'immagine già nota, patetica nel suo bisogno infinito di sentirla vicina: il letto vuoto sembra senza confini e immenso, come le sue gambe che lo occupano per un singolo angolo, i capelli biondi una macchia dorata nel bianco.
Si alza di scatto quando l'aria fredda gli accarezza la schiena – e continua a ossessionarlo quella domanda a cui non arriva mai, in una palese mancanza di senno che non è mai la sua – e lui è costretto a scuotersi di dosso l'intorpidimento della solitudine che si è imposto.

(Ti manco, Luke? È la domanda che pone in silenzio quel vestito da sposa, quando le unghia si perdono nell'orlo irregolare. Ti manco davvero?).

Dallo specchio, socchiudendo gli occhi, si affaccia un viso che non è mai il suo. Il sorriso che si rivolge, però, è identico di quel carico di furbizia disarmante che è sempre stato suo, quando Annabeth esitava un momento nel dare una risposta – dimmi che mi ami.
E sta quasi per ringraziare suo padre – e suo è il sorriso che ti rivolge lo specchio – quando apre gli occhi e non vede più lo spettro di una divinità, ma le orbite vuote di un teschio. Ed è sempre allora che un urlo gli frantuma le corde vocali, costringendolo a fermarsi, l'aria stravolta. E Annabeth non c'è già più.

(Ma ti manco, Luke? La voce gli arriva da un angolo della stanza, dal vestito gettato a terra con orrore, polvere e cocco che si fondono insieme. Dimmi che mi ami).

Ed è il vuoto che accompagna una singola risposta che lui non pronuncia mai, una discorso brevissimo che non ha assolutamente intenzione di esprimete. Così rimane in silenzio, semplicemente. Ma la risposta è forse contenuta in quel minuscolo “sì” che gli s'incastra fra i denti.

 

 

***

 

Nico la scorta fra i ribelli: laceri, strappati e distrutti giovani che combattono contro il nemico peggiore di tutti.
«Annabeth Chase» la presenta Nico, in un sussurro.
«Castellan» risponde lei, a voce alta e squillante. «Annabeth Castellan». Poi sorride.

 

 

***

 

Nico la guarda, disorientato, cercando di placare il dissenso che già si scatena in quella gran massa di persone che attendono la salvatrice. E invece trovano una quasi vedova inconsolabile, un'Annabeth Chase che ha perso la fiamma che la riscaldava dall'interno. È spenta, immensa in quel ventre che sembra sul punto di esplodere.
«Luke è un traditore, Annabeth» afferma Nico, con cautela. «Non sei obbligata a portare il suo cognome».
Annabeth sorride – si vede la pioggia nei suoi occhi. «Ti ricordi quando eravamo noi, i traditori?».
«Annabeth» la riprende Di Angelo, tagliente come un coltello. «Non sei obbligata a lui in nessun modo, ricordalo».
Lei sorride ancora, triste, malinconica come lo era prima di ritrovare Percy. «Forse lo amo abbastanza, non credi?».

 

 

***

 

Gli hanno riferito che Annabeth Chase piange nel sonno, quando incosciamente si sfrega i polsi con le dita arrossate. Gli hanno detto che mormora un nome, a volte, quando si avvicinano per strapparla dai suoi incubi. E Nico si preoccupa sempre, quando capisce che quel nome non è mai quello di Percy Jackson.

 

 

***

 

Le notizie arrivano così lentamente che lei non sa più cosa fare o dire o anche solo pensare: ogni giorno qualcuno le getta addosso una goccia minuscola di veleno che le scava una voragine dentro. Ogni giorno le raccontano che Luke è morto, perduto, dimenticato. Che Luke è niente. Dicono che l'hanno gettato all'inferno con un biglietto di sola andata, dicono che l'hanno lasciato morto sotto i becchi delle cornacchie, che l'hanno perso in un abisso che nessuno conosce. Le ricordano che era stato tutto, per lei.

(E cos'è, adesso? Il ragazzo – uomo – morto, il ragazzo perduto, il ragazzo dimenticato?4 E' niente, realizza improvvisamente. Non le rimane più niente).

Le hanno detto che deve dimenticarlo, smetterla di serbare rancore per chi – non gliel'hanno detto – l'ha pugnalato mentre fuggiva come un codardo. Sempre che sia vero. Forse. Non ne ha mai la certezza assoluta, mentre ripercorre con la mente un sentiero già scritto. Un ricordo che conosce così bene che riesce ancora a condizionarla.

(E cos'è lei, adesso? Aspetta sempre qualcosa o qualcuno che non arriverà mai più. Il ragazzo perduto, dimenticato, morto. E forse aspetta anche il niente).

Annabeth sorride ancora, talvolta, ma continua anche a pensare a quel ragazzo – uomo, si costringe a pensare – che dovrebbe già aver dimenticato. Forse.

 

 

***

 

Nessuno sa cosa fare: tutti si aspettavano una guerriera fatta e finita, di carne e ghiaccio. E invece hanno ottenuto una farfalla di carta, trafitta da aghi d'acqua e stremata dopo notti passate a mormorare una risposta che arriva troppo tardi, per una domanda che non c'è più: dimmi che mi ami. Annabeth spalanca gli occhi nel buio.
Dimmi che. E qualcuno le dice sempre che deve reagire – respirare, alzarsi, mangiare, bere, parlare. Cercare una verità che non trova mai, anche se forse la scorge sempre quando mormora quella famosa risposta che ha negato per troppo tempo – ed emergere da quella catatonia infinita. Mi ami?
La vengono a trovare, sperando che un giorno trovi la forza di scrollarsi di dosso quella nebbia – e forse lei lo rivive come un dejà-vù di una situazione che ciclicamente si ripete, spiazzandola. E un giorno si alza e desidera non doverlo fare mai più – che indossa come un mantello, da quando le hanno strappato il suo. Luke non c'è più.
Le sussurrano che non ha più niente, nulla che le dia una motivazione per andare avanti. Le riferiscono a voce bassa che probabilmente Luke Castellan ha tentato di avvelenarla con l'amore. E i pensieri e le parole, ma se lei non l'avesse amato abbastanza non avrebbe mai funzionato, ma questo Annabeth non lo dice mai.
Le arrivano delle lettere, con la cadenza irregolare del ben famoso lunedì che si materializza (il principio. Nell'alto dei cieli) all'improvviso per la logica ricorrenza delle calende greche. Sono fogli di carta spillati insieme e stropicciati, con segni d'acqua – stilettate – che solcano il foglio come lacrime che avanzano; ci sono macchie d'inchiostro che decorano il foglio con sbavature irregolari, che coprono rabbiosamente parole – pensieri – che lei non riesce più a capire. È un elemento comune che ritorna sempre, ma non c'è mai la firma: un taglio irregolare che copre un nome che lei non vede mai. Gliele porta Nico, di mattina, quando lei spera che siano di qualcuno.
E si sveglia che è già martedì (Luke. Rimpianto) o mercoledì (Percy. Rimpianto. Ancora) perché lei non se lo ricorda mai, in una strana percezione temporale che la spiazza, quando si trova a sillabare numeri che la riportano a giorni che non passano più. Ed è in successione che ricorda i simboli dei giorni che passano, solo tre, sempre uguali.
Il principio e l'alto dei cieli, il rimpianto e qualcosa – qualcuno – e poi ancora rimpianto. Ma quello ormai non lo sente già più.
Nico non sa dove mettere le mani: un giorno si alza e la trova rannicchiata nella vasca da bagno colma d'acqua, la camicia da notte incollata al corpo scosso da tremiti incontrollabili. Eppure, dall'acqua salgono volute di fumo e vapore che ingombrano la stanza, impedendogli quasi di respirare. Annabeth stringe le mani lungo il bordo della vasca, scheggiandosi le unghie, facendo coincidere pelle – cicatrici – e marmo. La trova che s'immerge sott'acqua in intervalli sempre più lunghi, provando l'eccitazione infinitesimale della mancanza di respiro, quando i capelli le coprono il volto e lei vorrebbe davvero annegare in quella pozzanghera d'acqua saponata.
«Cosa stai facendo?» le domanda in un sussurro scandalizzato, che gli si strozza in gola. «Annabeth, perché ti comporti in questo modo? Adesso, cosa dovrei fare?».
Lei ride. Dai suoi occhi si vede la polvere e la guerra che avanzano, infaticabili. «Adesso si muore» la sua voce squarcia il silenzio. «Adesso muoriamo tutti».
Nico la osserva, scandalizzato. Le passa le mani sul corpo fragile – e osserva sgomentato che le costole sporgono sempre di più sopra il ventre prominente – e la solleva, facendo sgocciolare l'acqua e il sapone al cocco su tutto il pavimento. La guarda mentre continua a passare le dita su quella porzione di pelle più chiara, nell'incavo dei polsi e nella valle delicata fra l'osso in mezzo al petto, quella volta in cui la mano ha nuovamente provato a separare pelle e sangue, fallendo.
«Perché finisce sempre così, Nico?» domanda Annabeth, strascicando leggermente le parole. «Perché finiamo sempre o morti o peggio?». Col cuore infranto. «Dimmelo».
Dimmi che mi ama. La rassicurazione che lei assume ogni volta che comincia a capire che probabilmente non riuscirà mai a rassegnarsi a essere ciò che realmente è.
«Non posso, Annabeth, non posso» le sussurra Nico, all'orecchio, con un filo di voce che subito scompare nella quiete artefatta del bagno. «Dimmi che non importa».
Dimmi che. Dimmi qualcosa, le chiede in silenzio, appena si rende conto che non ha un piano ben preciso e già delineato. E lui è solo l'ennesimo ribelle senza ribellione.
«Non puoi, Nico, solo perché sai che sarebbe una bugia» dice lei, affranta. «Siamo solo delle ombre in una storia che non è mai la nostra. Dimmi che non è vero».
Sì, vorrebbe dire o urlare lui. Lo è. Eppure, Annabeth non lo sta più ascoltando, persa in un'altra elucubrazione che la disperde in un turbine di pensieri e parole.
Mi ama?

 

 

***

 

Le hanno lasciato un dondolo sul retro: vivono tutti in una catapecchia nascosta dalle fronde di alberi che crescono e s'ingarbugliano in un intrico di radici e rami. I ribelli fanni fatica a nutrirsi e organizzarsi, riflette Annabeth, eppure le hanno portato un dondolo. È successo quando le hanno mandato una ragazza senza nome per chiederle come andava – e lei ha risposto con un singolo singulto trattenuto nel petto. Dimmi che. La ragazza l'ha osservata, disorientata, mentre Annabeth cominciava a scrollarsi di dosso alcune goccioline d'acqua: era rimasta nella vasca fino a due minuti prima del suo arrivo. Annabeth le ha rivolto una singola occhiata, vuota, spenta.
Dimmi che. Ha già cominciato a raffreddarsi, il calore dell'acqua che le evapora addosso. I capelli che sembrano una colata d'oro su una veste rossa – sangue – che le sta troppo larga. E lei continua ad avere quell'aria fastidiosamente incaponita di quando continua a rispondere da sola a una domanda. Mi ama?
La risposta si percepisce in quel continuo annuire che rivolge alla nebbia che avanza, quando inclina la testa e non si capisce mai dov'è che si congungono le sue iridi plumbee e il cielo pieno di nuvole. Ed è sempre quel “sì” che, prima di rendersi conto che l'aveva sempre avuto incastrato fra i denti, non pronunciava mai.

 

 

***

 

Per un attimo, le sembra quasi di vederlo: un'immagine che scorre velocissima nei vetri e negli specchi, spiazzandola, quando si sporge leggermente per cogliere quel buffo riflesso. Le sorgono domande, dubbi, richieste che però non vanno mai oltre la barriera dei denti: dimmi che. Si chiede se, in fondo, questa non sia la vendetta che Luke ha desiderato per tanto tempo, tutte le volte che la guardava con occhi duri come lame. E, silenziosamente, le augurava quel vuoto che divorava il petto tutte le volte che lui si trovava a cercarla nelle sue stanze vuote. Ogni volta, Annabeth aveva ignorato quell'augurio silenzioso, quando poi la trovava isolata sul dondolo con il viso ancora perfettamente asciutto – e le mani piene di polvere delle prigioni, almeno negli ultimi tempi: quando Percy Jackson era arrivato. Per rovinare tutto quanto.
Poi, però, quando ha appena allungato la mano per sfiorarlo con la punta delle dita, lui scompare e torna a essere l'ennesimo disegno su carta che lei ha scambiato per la realtà. E Annabeth non capisce più nulla, quando tutto comincia a tremare ed è sempre lei a vagare per tutte quelle stanze vuote. Ed è martedì, forse.
«C'era una... una ragazza» dice allo specchio, quando vi scorge esitante l'ombra di Nico. «Una ragazza che Luke frequentava. Dov'è finita, Nico?».

(Te la ricordi? Somigliava così tanto a me, perfino in quella frazione di secondo in cui l'ho vista correre via dalla sua stanza. E sapevo cosa voleva dire: mi cercava ancora, in qualche modo, anche se io mi ostinavo a ignorare quella ricerca che non lo conduceva da nessuna parte. Ma non aveva mai smesso).

Nico abbassa lo sguardo, una lieve traccia rosa che gli pennella gli zigomi. «Lei è morta, Annabeth» confessa, imbarazzato nel vederla completamente impassibile.

(Hanno ripescato una prostituta annegata nel mare sconfinato del nuovo Nord, con un pugnale conficcato nel petto e un sorriso sul volto. Somiglia vagamente ad Annabeth Chase. Qualcuno dice che in realtà sono la stessa persona).

«Pensi che sia possibile?» domanda lei, inclinando leggermente la testa, un'aria corrucciata che le increspa il volto. «D'altronde lo dicono tutti, non è vero?».
Nico la guarda, perplesso, mentre lei getta indietro la testa e ride, mostrando i denti candidi come quelli di una lupa. «Cosa?» balbetta, incerto. «Cosa dicono tutti?».
Lo sguardo che Annabeth rivolge allo specchio è glaciale e, per un momento, non sembra nemmeno lei in quei tratti che le si sciolgono sul volto.
«Che lei è me» risponde, in un sussurro che fa venire i brividi. Le mani giacciono inerti sulla gonna, le unghia morse fino a farle sanguinare. «O che io sono lei».

(Che forse non era Luke, a sbagliare, quando l'ha trovata e la credeva come me: ti ricordi? È successo un lunedì, mentre tentavo di salire dove non potevo arrivare, inzuppandomi di un dolore che era solo mio. Te lo ricordi, Nico? È successo che continuavo a ripetere la stessa frase, all'infinito e tu non rispondevi mai).

«Forse dovresti smetterla di pensarci» osserva Nico, atono, nel vederla nell'assurda contemplazione dello specchio. Come se vesse qualcosa o qualcuno. «Passerà».
«No» risponde Annabeth, secca. Con un gesto nervoso della mano, si scosta i capelli dal viso – e Nico si accorge che sta piangendo. «Non passerà, lo so già».
Inclina la testa e continua a sembrare – ed è assurdo e irrazionale, ma è così – un'altra persona che si affaccia lungo uno specchio – il mare – e ne scruta la superficie. E il ventre prominente ricorda un accenno di curva che non è più reale, la stoffa consunta dell'abito appare macchiata di rosso, controluce. Ruggine crollata dal dondolo, come neve. Sangue. In un accenno di sorriso, Annabeth è sparita in maniera definitiva, in quella domanda che non trova altra risposta se non il riflesso di un “sì” detto da lei.

(Dimmi che mi ama, dimmi che. Mi ama? E la risposta è così incerta che non le importa già più: è lunedì ed è appesantita dal dolore e dalle stilettate del cielo).

In un attimo di panico, Nico si accorge che Annabeth si è persa nello scrutare una vecchia cicatrice lungo il polso. Allo specchio, somiglia a una scritta.

Dimmi che (mi ama?).






1Non odiatemi, vi prego. Ma il velato (mica tanto) riferimento alla bilocazione ci stava. E chissà che non diventeà oggetto di un sequel.
2Signori e signore, vi ritrovate davanti a un chiaro riferimento alla saga originale. E alla risposta che avrei voluto sentire.
3Dissennatori, ovviamente. Chiarissimo riferimento.
4Riadattata dalla frase originaria contenuta in "Amabili resti" di Alice Sebold
   
 
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