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Autore: MadAka    20/11/2013    4 recensioni
"Chiamano questo posto il Banco dei Sogni, perché è proprio questo che fa, compra sogni.
Le persone qui vendono ciò che hanno di più evanescente, ma anche di più profondo. Racchiudono la loro speranza all’ interno della loro firma, la scrivono su un foglio bianco candido, lo ripongono in una busta e vengono fin qui per farsela valutare, farsi valutare il prezzo della propria anima, come diceva mio padre."
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Federica

 

 

 

In a world that changes everyday,

It's easy to get lost along the way.

In a world that's never as it seems.

 

 

 

Mi pare di essere seduto su questa panca da un’eternità, anche se sono consapevole che non sarà passata più di mezz’ora. Le persone prima di me sono lentamente diminuite, sono entrate dentro quella stanza e sono uscite con un’espressione che può essere definita soddisfatta, ma che in verità non penso sia tale.

«Che cos’è?» mi chiede all’improvviso la ragazza seduta accanto a me, la prossima che avrebbe dovuto attraversare quella porta, l’ultima che lo avrebbe fatto prima del sottoscritto.

Ha continuato a battere in terra con il piede per tutto il tempo successivo al mio arrivo, mentre con le sue mani curate rigirava la busta bianca che regge ancora, bianca proprio come la mia.

Abbasso gli occhi sulle mie mani, su quello che custodiscono, tremano leggermente e smascherano il mio stato d’animo preoccupato. Lei, ancora in attesa di una risposta continua ad osservarmi con uno strano sorriso e gli occhi spenti.

Non le rispondo, non so cosa dirle, non so neanche come si possa spiegare il contenuto della mia lettera, racchiuso in una firma sulla carta bianca candita che la busta stessa sta proteggendo.

«Ho capito.» riprende parola lei dopo poco: «È la tua prima volta, vero? Allora dev’essere qualcosa di veramente bello. La mia prima volta mi diedero un sacco di oro, scommetto che sarà così anche per te.»

Dalla porta esce, finalmente, qualcuno e lei si alza, salutandomi. L’uomo appena uscito si allontana esaminando il valore di ciò che ha venduto. Lo capisco perché sento le monete tintinnare fra loro, in un suono che, in questo momento, mi procura solo orrore.

La ragazza scompare dietro la porta, che le viene richiusa alle spalle e il suono rimbomba per tutto il corridoio, alto, lungo e tetro.

Chiamano questo posto il Banco dei Sogni, perché è proprio questo che fa, compra sogni.

Le persone qui vendono ciò che hanno di più evanescente, ma anche di più profondo. Racchiudono la loro speranza all’interno della loro firma, la scrivono su un foglio bianco candido, lo ripongono in una busta e vengono fin qui per farsela valutare, farsi valutare il prezzo della propria anima, come diceva mio padre.

Alla fine ho ceduto anche io, avevo bisogni di soldi, i pochi che guadagno con il mio lavoro non bastano quasi mai, ma più passa il tempo meno mi sento sicuro della scelta che ho fatto. Mi sento terrorizzato dall’idea di diventare come tutti gli altri, perché mi sembra che chi, prima di me, ha venduto i propri sogni abbia completamente perso la propria personalità.

Ma quasi ci si sente costretti a venderli, perché il nostro mondo si nutre di essi. Lo aiutano a crescere verde e rigoglioso dicono, ma io, di posti verdi e rigogliosi, non ne ho mai visti. Vedo solo città, grigie e cupe, il sole illumina fiocamente tutto ciò che tocca perché è nascosto da una coltre di nubi perenni che sembrano sempre intenzionate ad ucciderlo, il vento non soffia quasi mai perché non riesce a passare attraverso le pareti degli alti palazzi eretti ovunque.

Eppure io vorrei tanto poter vedere un’alba, una vera alba. Vedere il sole che sorge timido, per poi prendere sicurezza della sua bellezza ed elevarsi in tutta la sua maestosità, colorando ogni singolo angolo del mondo. È questo il sogno che custodisce la mia busta, la speranza di vedere le cose cambiare.

La porta si apre e quel rumore mi fa sussultare. La ragazza di prima esce scuotendo un piccolo sacchetto in cui sento risuonare le monete d’oro che le hanno dato in cambio di un altro piccolo brandello della sua anima.

Mi alzo perché tocca a me, ma devo respirare a fondo un paio di volte prima di riuscire effettivamente ad avviarmi. Quando varco la soglia mi pento immediatamente di essere venuto fin qui, non avrei dovuto farlo, non avrei dovuto rinchiudere il mio sogno nella mia maledetta firma.

Due uomini alti e possenti chiudono la porta alle mie spalle senza fare alcun rumore, l’unico che si sente è quello dell’enorme uscio che taglia ogni mia via di fuga. I due tornano composti ad osservare la stanza, silenziosi nei loro abiti, in cui si celano sicuramente un’ innumerevole quantità di armi.

Io mi avvio a passi insicuri verso il bancone dietro il quale mi attende colui che valuterà il prezzo del mio sogno. È un individuo non tanto alto, vestito con un completo elegante e scuro, su cui niente di rassicurante spicca. L’unica cosa che noto in lui sono i suoi occhi, talmente chiari da essere freddi e così imperscrutabili da lasciarmi interdetto. Sorride e mi sento in soggezione.

«Benvenuto al Banco dei Sogni, signore. Ha con sé la merce?» mi chiede.

La sua voce è bassa, flebile, ma si insinua fin nel più profondo del mio cervello a risvegliare sensazioni spiacevoli che erano stranamente rimaste assopite. Il modo in cui chiama il mio sogno, la merce, mi fa provare una fastidiosa sensazione e mi fa domandare, nuovamente, per quale motivo io abbia deciso di venire fin qui a vendere una parte di me.

Ma il mio corpo pare muoversi automaticamente al primo cenno dell’uomo che ho di fronte. Gli tendo la busta e lui l’afferra con le sue mani nodose che mi fanno capire che probabilmente è più anziano di quanto appaia.

Apre la lettera con calma infinita, estrae il foglio, lo spiega, lo analizza attentamente e sul suo volto si disegna un’espressione che non può che inquietarmi ulteriormente. È un ghigno, distorto e vittorioso, mette semplicemente i brividi e probabilmente lo nota appena posa gli occhi su di me, subito dopo.

«È un sogno davvero molto ingombrante.» dice, senza cancellare quel suo sorriso.

Nuovamente non reagisco in alcun modo, non una parola, non un’azione e lui riprende a parlare:

«Immagino che non sia mai venuto qui da noi prima d’ora. Questo spiegherebbe per quale motivo il suo sogno ha tutto questo valore.»

«Che intende dire?» domando, aprendo finalmente bocca.

L’uomo mi guarda sorpreso per qualche istante, poi risponde come se fosse una domanda che gli viene posta spesso:

«È presto detto. Vede, quello che è racchiuso in questo foglio è qualcosa di molto, molto profondo. Nel suo sogno c’è qualcosa di impalpabile e, forse, irraggiungibile. Una di quelle cose che si incontrano solo una volta nell’arco della proprio vita, quando ancora si pensa che tutto sia possibile, quando niente ha ancora avuto modo di allontanarci dalle nostre convinzioni. Mi creda, ha fatto davvero bene a portarlo qui. Il suo sogno nutrirà a dovere il nostro mondo e lei sarà ripagato con parecchio oro. Come si suol dire: vincono tutti.»

Abbasso lo sguardo, rabbrividendo al suo ennesimo sorriso.

«Molto bene.» lo sento dire subito dopo e quando alzo gli occhi su di lui vedo che sta posizionando uno strano flaconcino in vetro sotto il foglio con impressa la mia firma.

Improvvisamente, da un angolo della carta, una fiamma argentata comincia a propagarsi, bruciando lentamente il foglio e aumentando d’intensità e di lucentezza.

La cenere si depone ordinata all’interno della boccetta in vetro e brilla come la luna.

«Un sogno meraviglioso.» commenta, concentrato a guardare la carta bruciare mentre io, ogni istante che passa, mi sento sempre più impotente, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo perso nel fuoco che sta divorando il mio unico sogno.

La fiamma si spegne e della carta rimane soltanto un piccolo lembo, lo stesso che era protetto dalla mano dell’uomo mentre la reggeva.

«Le prendo immediatamente il suo oro.» scompare in fretta, dietro una tenda color porpora, senza aspettare alcun tipo di risposta da parte mia.

Rimango immobile ad osservare la cenere argentata e il pezzetto del mio foglio, in cui si legge ancora, anche se poco, la prima lettera del mio nome. Alzo gli occhi sulla scritta dipinta alla parete, che prima non avevo notato a causa della presenza dell’uomo, una frase in oro con caratteri affilati e taglienti, quella che può essere definita come il motto del Banco dei Sogni:

 

Ti hanno detto che è stato scritto nelle stelle,

ma non hai mai avuto la possibilità di guardare così lontano.

 

Credo che nessuno sappia perché hanno scelto una frase del genere, io di certo non lo so. Ma è come se volessero convincerti, con quelle parole, che un sogno è troppo ingombrante da inseguire e che venderlo è la soluzione migliore. Almeno credo si possa intendere così, perché non saprei come altro definire tale concetto. Eppure trovo che sia una frase troppo profonda e troppo bella per essere collegata ad un posto come questo, che sicuramente le attribuisce un significato diverso e più crudele di quello che potrei attribuirle io.

Rimanere in questa stanza mi fa provare un senso di disagio come mai prima d’ora, essere lasciato solo con i miei pensieri quasi mi logora dentro. Mai sono stati tanto pesanti, tanto profondi da farmi stare male, sento un peso all’altezza del cuore, una strana morsa che quasi mi costringe ad ansimare. Il pensiero di aver agito troppo impulsivamente mi perseguita ed è così che realizzo di aver fatto il più grande sbaglio della mia vita. La verità è che non volevo vendere il mio sogno, non volevo farlo. Mi sono illuso che i soldi mi servissero più di ogni altra cosa a questo mondo ma ho capito che non è così, altrimenti non saprei come altro spiegarmi la sensazione di impotenza e inutilità che sento ora, che mi sono reso conto che insieme a quel foglio, apparentemente inutile, se n’è andata una parte di me.

Forse è vero che il nostro mondo si nutre dei nostri sogni, chi può dirlo, ma è pur sempre vero che io faccio parte di questo mondo e il mio sogno serve prima di tutto a nutrire me.

Tuttavia temo sia troppo tardi, perché mi sento sofferente, ma soprattutto svuotato.

Alzo gli occhi quando sento l’uomo ricomparire davanti a me, posa sul banco un sacco in cui sento risuonare le monete d’oro e mi guarda:

«Questo è il valore del suo sogno, non male, le pare?» sembra stia ammiccando.

«Per quale motivo quel punto non si è bruciato?» chiedo, senza soffermare lo sguardo più del dovuto sull’oro, indicando con un cenno il piccolo pezzo di carta rimasto integro.

«Oh, quello è semplicemente dovuto al fatto che finché lei non accetta il denaro il sogno continua a rimanere suo.» risponde alzando le spalle, con visibile noncuranza.

«Quindi mi sta dicendo che se io volessi, potrei riprenderlo?»

Il suo volto disteso assume un’espressione contrariata:

«Per quale motivo dovrebbe farlo? Ha visto il suo valore? Se non era intenzionato a venderlo poteva benissimo non scomodarsi a venire fin qui.» la sua voce flebile ora pare un sibilo.

Lancio un’altra occhiata all’oro e capisco che non è ciò che voglio, non è ciò che mi serve. A me serve continuare a credere che qualcosa, un giorno, cambierà, a me serve avere il mio sogno.

Rapidamente afferrò il pezzo di carta rimasto immobile sul banco e subito la cenere argentata si dissolve in una nube scomposta, svuotando totalmente la boccetta in cui si trovava, scomparendo per sempre.

L’uomo, ora serio, quasi minaccioso, alza il tono della sua voce, quel tanto che basta perché rimbombi in maniera spaventosa all’interno della stanza altissima:

«Faccia come crede, ma sappia che non è più il benvenuto al Banco dei Sogni

Gli volto le spalle e mi avvio alla porta, i due energumeni l’aprono dopo avermi lanciato un’occhiata poco rassicurante. Esco dall’edificio a grandi passi e solo quando sono fuori mi sento leggermente più tranquillo, ma anche parecchio confuso. Indubbiamente del denaro mi avrebbe fatto comodo, ma tutto quell’oro non valeva il sacrificio che mi era stato chiesto, perché per me vendere il mio sogno era proprio quello: un sacrificio.

Mi incammino preparandomi a tornare alla consueta vita monotona e grigia di tutti i giorni, gli occhi bassi sul pezzo di carta, unico brandello superstite, quando un colpo di vento mi strappa il lembo dalle mani e lo sospinge lontano. Erano anni che non sentivo una brezza, mi ha colto così alla sprovvista che ci metto più tempo del dovuto a rendermi conto che mi ha rubato una cosa tanto importante. Raggiungo il frammento di carta che si è adagiato con noncuranza su un punto qualunque della nera strada asfaltata e, subito, rimango sbalordito da quello che vedo. Lentamente, un pezzetto alla volta, quello scompare, sostituito da teneri fili di erba e fragili germogli. Uno di questi cresce più in fretta degli altri, alla stessa velocità con cui il mio lembo di carta sta scomparendo. Cresce fino a sbocciare, diventando un iris bianco, una delle cose più belle che mi sia mai capitato di vedere.

Del mio pezzo di carta non rimane più niente, è diventato nutrimento per il mondo, proprio come ci hanno sempre raccontato, ora almeno so che le cose vanno realmente così.

Eppure dentro di me comincio a sentire il calore che prima, in quell’edificio così freddo e spietato, avevo completamente perso. È come se il mondo si fosse nutrito del mio sogno per poi restituirmelo e renderlo più concreto di prima, come se volesse farmi capire che posso aiutarlo a crescere rigoglioso per poi ricevere in cambio la speranza che io ripongo ogni giorno in lui.

Mi basterebbe solo scrivere infinite volte il mio nome su infiniti fogli, in modo da far sbocciare infiniti fiori.

 

 

  
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