A
Federica
In a world that changes everyday,
It's easy to get lost along the way.
In a world that's never as it seems.
Mi
pare di essere seduto su questa panca da un’eternità, anche se sono consapevole
che non sarà passata più di mezz’ora. Le persone prima di me sono lentamente
diminuite, sono entrate dentro quella stanza e sono uscite con un’espressione
che può essere definita soddisfatta, ma che in verità non penso sia tale.
«Che cos’è?» mi chiede all’improvviso la
ragazza seduta accanto a me, la prossima che avrebbe dovuto attraversare quella
porta, l’ultima che lo avrebbe fatto prima del sottoscritto.
Ha
continuato a battere in terra con il piede per tutto il tempo successivo al mio
arrivo, mentre con le sue mani curate rigirava la busta bianca che regge ancora,
bianca proprio come la mia.
Abbasso
gli occhi sulle mie mani, su quello che custodiscono, tremano leggermente e
smascherano il mio stato d’animo preoccupato. Lei, ancora in attesa di una
risposta continua ad osservarmi con uno strano sorriso e gli occhi spenti.
Non
le rispondo, non so cosa dirle, non so neanche come si possa spiegare il
contenuto della mia lettera, racchiuso in una firma sulla carta bianca candita
che la busta stessa sta proteggendo.
«Ho capito.» riprende parola lei dopo
poco: «È la tua prima volta, vero? Allora dev’essere qualcosa di veramente
bello. La mia prima volta mi diedero un sacco di oro, scommetto che sarà così
anche per te.»
Dalla
porta esce, finalmente, qualcuno e lei si alza, salutandomi. L’uomo appena
uscito si allontana esaminando il valore di ciò che ha venduto. Lo capisco
perché sento le monete tintinnare fra loro, in un suono che, in questo momento,
mi procura solo orrore.
La
ragazza scompare dietro la porta, che le viene richiusa alle spalle e il suono
rimbomba per tutto il corridoio, alto, lungo e tetro.
Chiamano
questo posto il Banco dei Sogni,
perché è proprio questo che fa, compra sogni.
Le
persone qui vendono ciò che hanno di più evanescente, ma anche di più profondo.
Racchiudono la loro speranza all’interno della loro firma, la scrivono su un
foglio bianco candido, lo ripongono in una busta e vengono fin qui per farsela
valutare, farsi valutare il prezzo della propria anima, come diceva mio padre.
Alla
fine ho ceduto anche io, avevo bisogni di soldi, i pochi che guadagno con il
mio lavoro non bastano quasi mai, ma più passa il tempo meno mi sento sicuro
della scelta che ho fatto. Mi sento terrorizzato dall’idea di diventare come
tutti gli altri, perché mi sembra che chi, prima di me, ha venduto i propri
sogni abbia completamente perso la propria personalità.
Ma
quasi ci si sente costretti a venderli, perché il nostro mondo si nutre di essi.
Lo aiutano a crescere verde e rigoglioso dicono, ma io, di posti verdi e
rigogliosi, non ne ho mai visti. Vedo solo città, grigie e cupe, il sole
illumina fiocamente tutto ciò che tocca perché è nascosto da una coltre di nubi
perenni che sembrano sempre intenzionate ad ucciderlo, il vento non soffia
quasi mai perché non riesce a passare attraverso le pareti degli alti palazzi
eretti ovunque.
Eppure
io vorrei tanto poter vedere un’alba, una vera alba. Vedere il sole che sorge
timido, per poi prendere sicurezza della sua bellezza ed elevarsi in tutta la
sua maestosità, colorando ogni singolo angolo del mondo. È questo il sogno che
custodisce la mia busta, la speranza di vedere le cose cambiare.
La
porta si apre e quel rumore mi fa sussultare. La ragazza di prima esce
scuotendo un piccolo sacchetto in cui sento risuonare le monete d’oro che le
hanno dato in cambio di un altro piccolo brandello della sua anima.
Mi
alzo perché tocca a me, ma devo respirare a fondo un paio di volte prima di
riuscire effettivamente ad avviarmi. Quando varco la soglia mi pento
immediatamente di essere venuto fin qui, non avrei dovuto farlo, non avrei
dovuto rinchiudere il mio sogno nella mia maledetta firma.
Due
uomini alti e possenti chiudono la porta alle mie spalle senza fare alcun
rumore, l’unico che si sente è quello dell’enorme uscio che taglia ogni mia via
di fuga. I due tornano composti ad osservare la stanza, silenziosi nei loro
abiti, in cui si celano sicuramente un’ innumerevole quantità di armi.
Io
mi avvio a passi insicuri verso il bancone dietro il quale mi attende colui che
valuterà il prezzo del mio sogno. È un individuo non tanto alto, vestito con un
completo elegante e scuro, su cui niente di rassicurante spicca. L’unica cosa
che noto in lui sono i suoi occhi, talmente chiari da essere freddi e così
imperscrutabili da lasciarmi interdetto. Sorride e mi sento in soggezione.
«Benvenuto al Banco dei Sogni, signore. Ha con sé la merce?» mi chiede.
La
sua voce è bassa, flebile, ma si insinua fin nel più profondo del mio cervello
a risvegliare sensazioni spiacevoli che erano stranamente rimaste assopite. Il
modo in cui chiama il mio sogno, la merce,
mi fa provare una fastidiosa sensazione e mi fa domandare, nuovamente, per
quale motivo io abbia deciso di venire fin qui a vendere una parte di me.
Ma
il mio corpo pare muoversi automaticamente al primo cenno dell’uomo che ho di
fronte. Gli tendo la busta e lui l’afferra con le sue mani nodose che mi fanno
capire che probabilmente è più anziano di quanto appaia.
Apre
la lettera con calma infinita, estrae il foglio, lo spiega, lo analizza
attentamente e sul suo volto si disegna un’espressione che non può che
inquietarmi ulteriormente. È un ghigno, distorto e vittorioso, mette
semplicemente i brividi e probabilmente lo nota appena posa gli occhi su di me,
subito dopo.
«È un sogno davvero molto ingombrante.»
dice, senza cancellare quel suo sorriso.
Nuovamente
non reagisco in alcun modo, non una parola, non un’azione e lui riprende a
parlare:
«Immagino che non sia mai venuto qui da
noi prima d’ora. Questo spiegherebbe per quale motivo il suo sogno ha tutto
questo valore.»
«Che intende dire?» domando, aprendo
finalmente bocca.
L’uomo
mi guarda sorpreso per qualche istante, poi risponde come se fosse una domanda
che gli viene posta spesso:
«È presto detto. Vede, quello che è
racchiuso in questo foglio è qualcosa di molto, molto profondo. Nel suo sogno c’è
qualcosa di impalpabile e, forse, irraggiungibile. Una di quelle cose che si
incontrano solo una volta nell’arco della proprio vita, quando ancora si pensa
che tutto sia possibile, quando niente ha ancora avuto modo di allontanarci
dalle nostre convinzioni. Mi creda, ha fatto davvero bene a portarlo qui. Il
suo sogno nutrirà a dovere il nostro mondo e lei sarà ripagato con parecchio
oro. Come si suol dire: vincono tutti.»
Abbasso
lo sguardo, rabbrividendo al suo ennesimo sorriso.
«Molto bene.» lo sento dire subito dopo
e quando alzo gli occhi su di lui vedo che sta posizionando uno strano
flaconcino in vetro sotto il foglio con impressa la mia firma.
Improvvisamente,
da un angolo della carta, una fiamma argentata comincia a propagarsi, bruciando
lentamente il foglio e aumentando d’intensità e di lucentezza.
La
cenere si depone ordinata all’interno della boccetta in vetro e brilla come la
luna.
«Un sogno meraviglioso.» commenta, concentrato
a guardare la carta bruciare mentre io, ogni istante che passa, mi sento sempre
più impotente, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo perso nel
fuoco che sta divorando il mio unico sogno.
La
fiamma si spegne e della carta rimane soltanto un piccolo lembo, lo stesso che
era protetto dalla mano dell’uomo mentre la reggeva.
«Le prendo immediatamente il suo oro.»
scompare in fretta, dietro una tenda color porpora, senza aspettare alcun tipo
di risposta da parte mia.
Rimango
immobile ad osservare la cenere argentata e il pezzetto del mio foglio, in cui
si legge ancora, anche se poco, la prima lettera del mio nome. Alzo gli occhi
sulla scritta dipinta alla parete, che prima non avevo notato a causa della
presenza dell’uomo, una frase in oro con caratteri affilati e taglienti, quella
che può essere definita come il motto del Banco
dei Sogni:
Ti hanno detto che è stato scritto nelle stelle,
ma non hai mai avuto la possibilità di guardare così
lontano.
Credo
che nessuno sappia perché hanno scelto una frase del genere, io di certo non lo
so. Ma è come se volessero convincerti, con quelle parole, che un sogno è
troppo ingombrante da inseguire e che venderlo è la soluzione migliore. Almeno
credo si possa intendere così, perché non saprei come altro definire tale
concetto. Eppure trovo che sia una frase troppo profonda e troppo bella per
essere collegata ad un posto come questo, che sicuramente le attribuisce un
significato diverso e più crudele di quello che potrei attribuirle io.
Rimanere
in questa stanza mi fa provare un senso di disagio come mai prima d’ora, essere
lasciato solo con i miei pensieri quasi mi logora dentro. Mai sono stati tanto
pesanti, tanto profondi da farmi stare male, sento un peso all’altezza del
cuore, una strana morsa che quasi mi costringe ad ansimare. Il pensiero di aver
agito troppo impulsivamente mi perseguita ed è così che realizzo di aver fatto
il più grande sbaglio della mia vita. La verità è che non volevo vendere il mio
sogno, non volevo farlo. Mi sono illuso che i soldi mi servissero più di ogni
altra cosa a questo mondo ma ho capito che non è così, altrimenti non saprei
come altro spiegarmi la sensazione di impotenza e inutilità che sento ora, che
mi sono reso conto che insieme a quel foglio, apparentemente inutile, se n’è
andata una parte di me.
Forse
è vero che il nostro mondo si nutre dei nostri sogni, chi può dirlo, ma è pur
sempre vero che io faccio parte di questo mondo e il mio sogno serve prima di
tutto a nutrire me.
Tuttavia
temo sia troppo tardi, perché mi sento sofferente, ma soprattutto svuotato.
Alzo
gli occhi quando sento l’uomo ricomparire davanti a me, posa sul banco un sacco
in cui sento risuonare le monete d’oro e mi guarda:
«Questo è il valore del suo sogno, non
male, le pare?» sembra stia ammiccando.
«Per
quale motivo quel punto non si è bruciato?» chiedo, senza soffermare lo sguardo
più del dovuto sull’oro, indicando con un cenno il piccolo pezzo di carta
rimasto integro.
«Oh, quello è
semplicemente dovuto al fatto che finché lei non accetta il denaro il sogno
continua a rimanere suo.» risponde alzando le spalle, con visibile noncuranza.
«Quindi mi sta dicendo che se io
volessi, potrei riprenderlo?»
Il
suo volto disteso assume un’espressione contrariata:
«Per quale motivo dovrebbe farlo? Ha
visto il suo valore? Se non era intenzionato a venderlo poteva benissimo non
scomodarsi a venire fin qui.» la sua voce flebile ora pare un sibilo.
Lancio
un’altra occhiata all’oro e capisco che non è ciò che voglio, non è ciò che mi
serve. A me serve continuare a credere che qualcosa, un giorno, cambierà, a me
serve avere il mio sogno.
Rapidamente
afferrò il pezzo di carta rimasto immobile sul banco e subito la cenere
argentata si dissolve in una nube scomposta, svuotando totalmente la boccetta
in cui si trovava, scomparendo per sempre.
L’uomo,
ora serio, quasi minaccioso, alza il tono della sua voce, quel tanto che basta
perché rimbombi in maniera spaventosa all’interno della stanza altissima:
«Faccia come crede, ma sappia che non è
più il benvenuto al Banco dei Sogni.»
Gli
volto le spalle e mi avvio alla porta, i due energumeni l’aprono dopo avermi
lanciato un’occhiata poco rassicurante. Esco dall’edificio a grandi passi e
solo quando sono fuori mi sento leggermente
più tranquillo, ma anche parecchio confuso. Indubbiamente del denaro mi avrebbe
fatto comodo, ma tutto quell’oro non valeva il sacrificio che mi era stato
chiesto, perché per me vendere il mio sogno era proprio quello: un sacrificio.
Mi
incammino preparandomi a tornare alla consueta vita monotona e grigia di tutti
i giorni, gli occhi bassi sul pezzo di carta, unico brandello superstite, quando
un colpo di vento mi strappa il lembo dalle mani e lo sospinge lontano. Erano
anni che non sentivo una brezza, mi ha colto così alla sprovvista che ci metto
più tempo del dovuto a rendermi conto che mi ha rubato una cosa tanto
importante. Raggiungo il frammento di carta che si è adagiato con noncuranza su
un punto qualunque della nera strada asfaltata e, subito, rimango sbalordito da
quello che vedo. Lentamente, un pezzetto alla volta, quello scompare,
sostituito da teneri fili di erba e fragili germogli. Uno di questi cresce più
in fretta degli altri, alla stessa velocità con cui il mio lembo di carta sta
scomparendo. Cresce fino a sbocciare, diventando un iris bianco, una delle cose
più belle che mi sia mai capitato di vedere.
Del
mio pezzo di carta non rimane più niente, è diventato nutrimento per il mondo, proprio
come ci hanno sempre raccontato, ora almeno so che le cose vanno realmente
così.
Eppure
dentro di me comincio a sentire il calore che prima, in quell’edificio così
freddo e spietato, avevo completamente perso. È come se il mondo si fosse
nutrito del mio sogno per poi restituirmelo e renderlo più concreto di prima,
come se volesse farmi capire che posso aiutarlo a crescere rigoglioso per poi
ricevere in cambio la speranza che io ripongo ogni giorno in lui.
Mi
basterebbe solo scrivere infinite volte il mio nome su infiniti fogli, in modo
da far sbocciare infiniti fiori.