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Autore: Entreri    21/11/2013    4 recensioni
Le canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor fredde altezze oltre la lama affilata che stava per piombare su di lui che Adikan si rese conto di stare per morire.
Le campagne militari contro i barbari sono la norma nel Sirenmat, ma quella del 1074 dopo la fondazione di Naska è diventata famosa per la seconda battaglia della Valle Chiusa. Verso questo evento, ignari dell'importanza che avrà per la storia e per le loro vite, si muovono i protagonisti del racconto, ciascuno con il proprio bagaglio di preoccupazioni, problemi, speranze e rancori: Agorwal con i suoi silenzi, Herrat con la propria lunga eperienza, Galoth con i demoni che cerca di placare e Adikan con i difetti che lo porteranno alla rovina.
Terza classificata al Contest "Quadri e Picche - Il contest delle sorprese" nella squadra difettosa.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Galoth

Non furono tanto la luce più intensa e lo spiffero gelido che si erano insinuati nella tenda a svegliarlo, né l'agitarsi improvviso dei corpi avviluppati al suo: fu la voce.

«Mio signore?»

Mio signore era suo padre e, nella confusione del passaggio dal sonno alla veglia, fu pervaso dal terrore infantile che si fosse precipitato nelle sue stanze per punirlo. Quando ricordò di non essere più un bambino e di trovarsi miglia e miglia lontano dal castello di Usen, si stiracchiò ridendo di se stesso, voltandosi sonnolento per accomodarsi meglio nell'abbraccio delle due donne che emanavano un piacevole calore sotto le coltri di pelliccia.

«Mio signore.»

Era una voce di ragazzo e l'urgenza intimorita che vi vibrava si insinuò nel beato torpore delle sue membra, simile a un memento di tutte le cose sgradevoli del mondo.

«Mio signore!»

Una delle prostitute rise e prese a mordicchiargli un orecchio, strusciandosi contro di lui, l'altra gli posò una mano sul ventre e ripeté l'invocazione del ragazzo modulandola in un gemito osceno.
Se solo l'intruso se ne fosse andato sarebbe stato un risveglio piacevole, ma quando questi lo chiamò di nuovo, con tono imbarazzato e supplichevole, Galoth aprì gli occhi e si levò a sedere.

Rogic era immobile all'ingresso della tenda, una statua di disagio e incertezza che si torceva le mani senza accorgersene, cercando, probabilmente, di guardare altrove senza riuscirvi davvero.

«Come sei carino, con quel faccino appuntito e rosso! Verrebbe da riempirti di baci.»

Galoth pizzicò scherzosamente il fianco della donna alla sua destra, punendola per quel commento indelicato e ne ignorò le lamentele solo falsamente indispettite. Rogic iniziò a balbettare.

«Prendi un bel respiro, ignora le signore, e dimmi cosa c'è.»

Eseguì il primo ordine, fallì clamorosamente nel secondo e sussurrò rapidamente una frase che conteneva sicuramente le parole “fratello”, “presentarsi” e “consiglio”.

«Di quanto sono in ritardo?»

Rogic parve a tal punto sollevato dal fatto di aver ottenuto la sua attenzione che riuscì persino a reprimere parte del proprio imbarazzo e parlare chiaramente

«Circa due ore.»

L'imprecazione che gli sfuggì dalle labbra fece ridere le donne e spostare nervosamente il peso da un piede all'altro a Rogic. Galoth ignorò entrambe le cose, già proiettato verso gli infiniti sguardi di rimprovero e disprezzo che gli sarebbe valso quel ritardo: si presentò chiara alla sua mente la disapprovazione del Duca di Indekel, la stanca esasperazione di Agorwal e il disgusto oltraggiato con cui Adikan lo guardava sin da quando aveva memoria. Suo padre l'avrebbe frustato fino a farlo svenire, ma suo padre non c'era e il pensiero lo riempì di sollievo e di ribrezzo per quel sollievo al punto che fu tentato di scivolare nuovamente sotto le coperte e dormire per vent'anni. Dubitava, tuttavia, che si sarebbe svegliato più vecchio, più saggio o più felice, così scacciò quel desiderio di letargo e affrontò il problema con rassegnazione.

«Riferisci ad Adikan che sto arrivando e ordina a qualcuno di portarmi dell'acqua e dei vestiti puliti. Grazie.»

Chiuse gli occhi e si passò una mano fra i capelli, cercando di placare l'insorgere del cattivo umore che lo prendeva ogni qualvolta doveva interagire con suo fratello. Non si erano mai amati e, da quando Adikan si era fidanzato con Margareth, Galoth non riusciva neppure a pensare ai loro nomi senza bramare di essere a mille miglia di distanza da entrambi; sapere, poi, che Adikan la sposava per il nome e l'appoggio di suo padre, gli provocava una collera continua e logorante come un dolore alle ossa. Reprimere quel sentimento gli richiese fatica, così che quasi non si accorse che Rogic aveva ripreso a balbettare.

«Che cosa?»

«Il comandante richiede la vostra presenza immediatamente

Vide il maledetto volto perfetto di suo fratello atteggiarsi in un'espressione imperiosa, mentre scandiva quella parola con la sua dizione impeccabile, e pensare al suo aspetto da principe delle fiabe fu come soffiare sulle braci della sua rabbia inestinguibile.

Fece per alzarsi ma le prostitute protestarono vibratamente contro l'idea che se andasse, lagnandosi con insopportabili vocette stridule, cercando di trattenerlo con le loro mani prive di pudore e Galoth dovette controllare la sua ira montante, stringere i pugni lottando contro il desiderio di percuoterle. Sentì i propri lineamenti deformarsi in una smorfia ferina e vide lo sgomento sul volto di Rogic quando ne incontrò lo sguardo.

«Mio signore?»

Mio signore era suo padre e Galoth gli somigliava al punto di avere paura di se stesso. Si costrinse a sorridere e respirare.

«Immediatamente dice e immediatamente avrà.»

Si levò a sedere di scatto, infilò sbrigativamente gli stivali ma non i calzoni, afferrò il sorcotto1 di lana e lo indossò con noncuranza sulla pelle nuda, diede una pacca sulla spalla di Rogic e uscì dalla tenda.

Corse, inspirando grandi boccate d'aria gelida, lasciando che ferissero i suoi polmoni e lo distraessero dalla sua rabbia rovente. I soldati lo salutarono, ridendo al suo passaggio, gridando commenti salaci sul suo ritardo e la sua nudità, battendo le mani e indicandoselo fra loro. Galoth rispose a tono a quel motteggio affettuoso, facendo gesti osceni e sollevando la tunica per mostrare le natiche. Rise e nella risata ritrovò quella parte amabile di sé di cui non era necessario avere timore. Quando entrò nella tenda del consiglio lo fece con il sorriso sulle labbra.

Lo fissarono tutti e Galoth sfidò le loro espressioni sbalordite e infastidite con uno sguardo beffardo: qualcuno cercò di soffocare una risata, Agorwal scosse la testa come se avesse rinunciato da tempo a vederlo agire per il proprio bene e Adikan, in piedi a capotavola, rimase paralizzato in una sbalordita offesa per la sua parziale nudità. Non poté fare a meno di rivolgergli un plateale inchino.

«Il tuo messo ha detto immediatamente.»

Hedur di Feder e Maer di Rearder non riuscirono a trattenere uno scoppio di ilarità e Adikan si voltò verso di loro in una reprimenda silenziosa quanto inutile. Galoth ne approfittò per prendere il posto alla sua destra che gli spettava di diritto e attese, senza troppa pazienza, di essere ragguagliato. Non pose domande; i volti dei presenti, tuttavia, gli dissero che era in corso una discussione. Cercò una risposta da Agorwal, seduto pesantemente al suo fianco, ma questi si limitò a indicargli con un gesto il tavolo dinnanzi a loro. Solo allora Galoth prestò attenzione alla carta, che pure era stata dispiegata sul desco fin dal suo ingresso. Osservò la disposizione delle forze, le pedine di legno intagliato che stavano per i barbari e quelle che stavano per le truppe comitali. Quando, levando il capo, incrociò lo sguardo con il Duca di Indekel, la frustrazione esasperata che irruppe sotto l'impassibile durezza del suo viso non gli promise nulla di buono.

«Ti ringraziamo tutti per esserti degnato di unirti a noi. Come vedi ti ho assegnato all'ala sinistra.»

Per diritto di nascita non avrebbe dovuto “essere assegnato all'ala sinistra” ma averne il comando, oppure rimanere ai diretti ordini di Adikan: era un'offesa che tutti i presenti non avrebbero potuto fare a meno di notare, ma Galoth non se ne curò, sollevato dal fatto di combattere sotto l'esperta guida del Duca Herrat. Adikan proseguì, illustrando brevemente la tattica che intendeva utilizzare, spostando le pedine sulla mappa con le sue mani aggraziate, esponendo il suo piano con sicurezza, come fosse certo che nessuno avesse delle obiezioni da muovere. Il tamburellare delle sue dita, tuttavia, unito alla tensione crescente del Duca diceva diversamente.

«Non entreranno in rotta.»

Le dita affusolate di Adikan ebbero un tremito di fastidio e, posando il pedone che rappresentava la Tribù del Puma, lo strinse con forza nervosa. Non replicò al Duca di Indekel, lasciandolo attendere una risposta mentre la tenda si riempiva di un silenzio gravido di disagio.

«Non potete basare la vostra strategia sulla speranza che il nemico vada in rotta.»

Era una considerazione sensata, naturalmente, come lo erano tutte quelle che venivano proferite dalla voce secca del Duca Herrat, ma taceva la verità più importante, quella a cui tutti stavano pensando tanto intensamente che se ne poteva quasi udire l'eco nell'aria. Galoth la snocciolò senza pensarci troppo.

«I barbari non si ritirano mai.»

Adikan gli rise in faccia, uno scherno feroce e quasi infantile, che non condivise nessuno.

«E cos'altro, Galoth? Le Donne Sole2 possono esaudire qualsiasi desiderio?»

Galoth respirò profondamente e si costrinse a sorridere, notando con la coda dell'occhio come il Duca di Indekel osservasse suo fratello con la severità scandalizzata che si riserva a un fanciullo particolarmente sciocco e maleducato.

«Forse, non lo so. Quello che so è che i barbari non fuggono.»

Era un dato di fatto che conoscevano persino i bambini: coloro che gettavano lo scudo per avere salva la vita venivano esiliati dal proprio popolo nel corpo e nella memoria, cancellati dalla linea degli antenati, la loro esistenza veniva disconosciuta persino dalle loro madri. Lasciati a vagare soli per montagne, morivano solo per giacere insepolti, esclusi dal divenire tutt'uno con la pira dei propri avi, spiriti tormentati, prigionieri di un corpo che marciva. A lui era sempre parsa un'immagine angosciante e terribile, più che sufficiente a spingere un uomo a combattere fino alla morte. Che Adikan non la credesse reale e potesse farsene beffe lo lasciò interdetto e stupito.

Cercò il supporto del Duca, ma quello continuava a fissare Adikan, imperturbabile, insondabile e giudice come la statua di un antico imperatore.

«Sei uno sciocco, fratello.»

Lo disse con una sicurezza che sconfinava di molto nell'arroganza, i suoi splendidi occhi azzurri rifulgenti per la gioia datagli dall'insultarlo dinnanzi a metà della nobiltà guerriera del Sirenmat. Si guardarono in volto in silenzio per un istante, lasciando trapelare sotto un'espressione composta l'odio fedele e appassionato che provavano l'uno per l'altro.

«Avete mai visto o udito di una battaglia in cui un clan o una tribù abbia rotto le linee e si sia data alla fuga?»

La voce del Duca interruppe il loro scambio di sguardi, le parole scandite con lentezza a voce bassa, simili a quelle con cui i sacerdoti chiedevano ai fedeli di confessare la propria ignoranza dei disegni divini.

Vi era riuscito soltanto un uomo, anche questa era una cosa che sapevano persino i bambini, un uomo che si diceva avesse fatto un patto con una Donna Sola.

«Hartaigen li mise in rotta.»

Galoth rievocò senza volere l'immagine del proprio antenato: un ritratto dagli occhi azzurri e lo sguardo oscuro che sembrava sempre sul punto di aprire bocca per rivelare una verità sgradevole. Il sorriso storto e freddo che segnava quel volto virile l'aveva affascinato e inquietato insieme durante l'infanzia, così come la sua storia. Una storia gloriosa e crudele, fatta di sangue e di grandezza.

«Lo ha fatto. Fu il più grande trionfo mai ottenuto da un generale del Sirenmat.»

Adikan sorrise nel sentirgli confermare la sua vittoria sul Duca Herrat e Galoth confrontò il malizioso autocompiacimento di Adikan con la spietata determinazione del ritratto che entrambi avevano osservato da bambini.

«Ma tu non sei Hartaigen il Fratricida, Adikan. Anche se ti piacerebbe.»

Non era stata sua intenzione pronunciare quella frase con tanta gravità o calcare sulla parola fratricida con tanta acredine, ma nel proferirla aveva sentito in bocca il sapore aspro di una camminata disperata nella tempesta.

Agorwal, alla sua sinistra, emise una specie di sospiro strozzato e l'intero consiglio parve, per la prima volta, avvertire sino in fondo l'intenso disamore che correva fra lui e Adikan.

Suo fratello non ebbe alcuna reazione; sorrise, anzi, in modo ancor più malevolo, allungando una mano verso di lui. Gli afferrò una ciocca di capelli e la tirò in un gesto che sarebbe potuto sembrare affettuoso se solo avesse avuto per protagonisti un'altra coppia di fratelli, se solo i capelli neri di Galoth non fossero stati il motivo principale per cui suo padre aveva dubitato della sua legittimità quando era nato, se solo Adikan non lo avesse dileggiato in modo simile fino a quando lui non lo aveva superato in altezza.

«Hai ragione. Non potrei mai farti del male, nostra madre non mi perdonerebbe.»

Tutta la rabbia che era riuscito a fatica a disperdere nella corsa tornò a infiammargli le vene. Strinse i pugni e si impose disperatamente di non trasecolare. Provò a respirare profondamente, costringendosi a non fare il gioco di suo fratello: a non pensare a come sua madre lo odiasse per i dubbi che aveva fatto nascere su di lei mentre adorava Adikan con la devozione accanita di chi non abbia al mondo altro da amare.

«Così come nostro padre mi farebbe uccidere se io facessi del male te.»

Enunciò quella menzogna con la poca calma che gli rimaneva, quasi la preferenza che il Conte aveva per lui fosse una cosa degna di essere ostentata. Non si era mai vantato prima di allora della predilezione che quel padre distante e violento aveva iniziato ad accordargli solo quando, crescendo, gli si era rivelato simile nell'aspetto e nei difetti, ma lo strattone energico che Adikan diede ai suoi capelli gli fece capire di aver colto nel segno.

Suo fratello, tuttavia, era sempre stato più bravo di lui a mantenersi impassibile e l'aveva sempre battuto in ogni schermaglia verbale, così, quando vide accentuarsi quella smorfia sardonica che Adikan spacciava per un sorriso, Galoth seppe che non era affatto finita.

«Hai ragione, i nostri genitori ne sarebbero oltremodo turbati. Per non parlare di Margareth, sarebbe inconsolabile.»

Non riuscì a rispondere, troppo impegnato a trattenere la propria collera dentro di sé anche solo per distinguere le parole dell'ammonimento che Agorwal rivolse ad Adikan, troppo concentrato sulla propria immobilità per guardare qualcosa oltre all'odioso volto di suo fratello.

Quando gli tirò nuovamente i capelli, chinandosi sul suo orecchio, Galoth dovette stringere violentemente il bordo del tavolo per impedirsi di picchiarlo.

«Anche se sono certo che saresti ben lieto di provare a confortarla e nutro il non piccolo sospetto che, sotto quella facciata sostenuta, lei non desideri altro che un'occasione per farsi rincuorare da te.»

Il sussurro gli rimbombò nella mente, fuso con il furioso digrignare dei suoi denti, e gli si diffuse per il corpo in una dolorosa tensione muscolare.

«Taci o ti ammazzo.»

Adikan bisbigliò la sua risposta sfiorandogli l'orecchio con le labbra, un mormorio talmente sottile che Galoth lo percepì sulla propria pelle più che udirlo.

«Sei così protettivo con tutte le tue puttane?»

Lo colpì prima di poter pensare, spingendolo indietro, sbattendogli la testa contro il tavolo con furia animalesca. Lo percosse, stringendo la sua gola nella mano sinistra, il suono dell'impatto fra il suo pugno e la faccia di Adikan il più infervorante e armonico che avesse mai udito. Percepì le grida degli astanti senza sentirle davvero: ogni sensazione, sentimento, pensiero sommerso e travolto dalla piena inarrestabile della sua violenza. Cercarono di fermarlo, ma, posseduto com'era dal furore accecante della rabbia, si dimenò e lottò freneticamente perché non gli impedissero di provare la gioia esaltante che sapeva gli sarebbe venuta dal fracassare la testa di Adikan contro il legno.

Quando la presa d'acciaio di Agorwal lo strappò definitivamente dalla sagoma rannicchiata sul tavolo che era suo fratello, Galoth iniziò a gridare.

«Ti ammazzo, giuro che ti ammazzo, dovessi farmi strada attraverso un esercito, giuro che ti squarto!»

Se solo fosse riuscito a liberarsi, sapeva che l'avrebbe fatto.

«Galoth, respira. Calmati.»

La voce di Agorwal gli arrivava ovattata dal rombo frenetico dei battiti ringhianti del proprio cuore, la sua ragionevolezza preoccupata troppo lontana dalla rabbia profonda di cui era preda. Ripetuta come un salmo, tuttavia, quella frase si fece lentamente strada dentro di lui e riuscì a farlo smettere di opporsi alla presa con cui Agorwal lo imprigionava.

Adikan, che era rimasto inerme e immobile sotto i suoi colpi, si sollevò dal tavolo, il volto livido e arrossato, la bocca e il naso sporchi di sangue. Voltò i palmi verso l'alto in un gesto contenuto ma enfatico, come sfidandolo a colpirlo ancora. La tenda si riempì di mormorii.

Se non avesse avuto le labbra spaccate in più punti, Galoth era certo che Adikan avrebbe sorriso.

Solo allora fu in grado di obbedire fino in fondo al comando che Agorwal continuava a ripetergli. Respirò e si osservò intorno, accorgendosi di conoscere l'orrore con cui gli astanti lo fissavano: era la stessa espressione che la gente riservava agli scatti d'ira di suo padre. Si sentì morire.

Lo guardavano tutti a quel modo. Tutti tranne il Duca di Indekel: il Duca fissava Adikan.

Galoth non sarebbe stato capace di dire a cosa stesse pensando, ma vi era un disprezzo freddo in quello sguardo, un giudizio disgustato che abbracciava tutto quello che i suoi occhi azzurri potevano vedere. Quando si alzò con la lentezza solenne di una decisione irrevocabile, gli astanti volsero il capo verso di lui: Galoth non ricordava di aver mai visto un uomo tanto composto e regale come lo era il Duca Herrat in quel momento.

«Non metterò a rischio la vita dei miei soldati per i vostri capricci infantili e non andrò al massacro per gli sciocchi piani di un ragazzino.»

La sorpresa di Agorwal fu tale che lo lasciò andare, ma Galoth non avrebbe saputo dove muoversi così rimase accanto a lui, osservando con sconcertato timore la sicurezza con la quale il Duca fece cenno ai suoi vassalli di seguirlo e la sbigottita contrarietà con cui suo fratello tentò di non sembrare colto terribilmente alla sprovvista.

«Il Conte ne sarà informato.»

Il Duca Herrat si diresse verso l'uscita senza darsi neppure pena di rispondere.

«Possiamo andare avanti ora?»

Adikan tornò con noncuranza a rivolgere la propria attenzione alla mappa, fingendo che intorno a lui non imperversassero disordine e sgomento. Si chinò sul tavolo come se non fosse accaduto nulla: i pedoni che segnavano le forze in campo erano mischiati in modo confuso e, quando cercò di rimetterli in ordine, macchiò la carta di sangue.


1É una specie di tunica che si tiene sopra l'armatura. Di solito ci sono i colori della casata e il simbolo araldico. Su questa, anche se non posso dirlo spicca lo stemma degli Usen. Ovvero “Partito di bianco al lupo di grigio rapace riverso e di azzurro all'orso di nero levato” . Mi accorgo solo ora di non averlo mai citato in nessuna storia. Avere un'araldica e non usarla è una cosa terribile. T_T

2Come viene spiegato in“Ma i figli dei suoi figli hanno il trono” le donne sole sono le streghe delle montagne.

Note dell'autrice:  se aveste una minima idea della fatica che ho fatto per trovare un'immagine anche solo minamente decente per il banner mi compatireste. Ho dovuto attraversare miriadi di fantasy art troppo fantasy e di uomini sussurranti troppo slash. Non sono soddisfatta, sono prostrata e vinta. Sono arresa. 
Nota per rebeccuori: hai trovato la risposta alla tua domanda ? ^^

   
 
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