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Autore: Entreri    25/11/2013    3 recensioni
Le canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor fredde altezze oltre la lama affilata che stava per piombare su di lui che Adikan si rese conto di stare per morire.
Le campagne militari contro i barbari sono la norma nel Sirenmat, ma quella del 1074 dopo la fondazione di Naska è diventata famosa per la seconda battaglia della Valle Chiusa. Verso questo evento, ignari dell'importanza che avrà per la storia e per le loro vite, si muovono i protagonisti del racconto, ciascuno con il proprio bagaglio di preoccupazioni, problemi, speranze e rancori: Agorwal con i suoi silenzi, Herrat con la propria lunga eperienza, Galoth con i demoni che cerca di placare e Adikan con i difetti che lo porteranno alla rovina.
Terza classificata al Contest "Quadri e Picche - Il contest delle sorprese" nella squadra difettosa.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Adikan
 

Pur nella concitata frenesia della battaglia, sudato e affaticato nella propria armatura, gridando ordini a squarciagola nel disperato tentativo di recuperare la situazione, Adikan aveva ancora fiato per maledire il Duca Herrat. Maledisse lui e tutti i suoi antenati, maledisse l'intera casata degli Indekel e la sua dimora ancestrale, lanciò anatema sul loro motto e sull'elmo e il corno del loro vessillo; nessuna di quelle maledizioni, tuttavia, riuscì a confortarlo mentre i barbari sfondavano la prima linea, l'impatto fra i loro grandi scudi e le armi in asta un suono secco e definitivo come uno schiaffo.

Sbraitò perché mandassero a chiamare le riserve, solo per accorgersi, cercando gli stendardi con lo sguardo, che erano avanzati troppo rispetto alle ali. Imprecò, osservando la massa disordinata e vociante di nemici che continuava ad abbattersi sulle sue linee: sembravano spuntare dalla terra, energumeni tatuati dalle grandi asce e dai volti barbuti.

Nel chiamare le staffette si domandò come Agorwal avesse potuto restare indietro, lasciando il suo fianco destro scoperto a quel punto; sospettò, persino, che Galoth stesse approfittando del comando dell'ala sinistra per fargli perdere la battaglia: non riusciva ad immaginare una situazione in cui l'animale bellicoso che aveva per fratello potesse essere trattenuto dal travolgere le fila avversarie fino a metterle in rotta.

Affidargli l'ala sinistra era stato un errore: avrebbe dovuto fargli capitanare le prime linee del centro dove sarebbe stato sotto il suo controllo, avrebbe incoraggiato gli uomini, che lo amavano, e con un po' di fortuna sarebbe morto.

Il combattimento nelle prime linee si era fatto disordinato e cruento e Adikan diede ordine di serrare le fila, mandando i corrieri a intimare ai comandanti delle due ali di spingere il nemico indietro e portarsi al pari con lui.

Il messo di Agorwal arrivò in quel mentre, il cavallo stremato, il volto stravolto e la voce rotta dall'ansia.

«Mio signore, siamo stati attaccati sul fianco destro. Sembra che il nemico abbia ricevuto rinforzi e stia portando avanti una manovra a tenaglia.»

Il volto della staffetta rivelava una paura profonda e Adikan desiderò impedirsi di condividerla. Non aveva mai preso in considerazione di poter perdere: quella era la sua occasione per risplendere, per dimostrare a suo padre di essere la scelta giusta per la successione al seggio del Sirenmat; era l'opportunità che aspettava da tutta la vita e il pensiero che si trasformasse in un'umiliazione che avrebbe dovuto giustificare gli corrose lo stomaco.

La voce gli tremò di rabbia quando diede ordine di iniziare un ripiegamento: era ingiusto e il Duca di Indekel avrebbe pagato per averlo tradito e abbandonato in territorio ostile insieme a una parte consistente delle sue forze, ma per il momento non potevano fare altro che indietreggiare, scampando alla trappola mortale che rischiava di chiudersi su di loro.

Il nemico attaccò con più forza, una nuvola di giavellotti si abbatté sugli uomini del Sirenmat e le loro fila, scompaginate dalla morte, si infransero in una rotta confusa e sanguinolenta.

I barbari fluirono nella breccia come una corrente impetuosa, fendendo il suo schieramento come burro. Quando li vide attaccare l'alfiere e le sue guardie, Adikan spronò il cavallo, cercando di raggiungerli in tempo e mettere in salvo la bandiera prima che fosse troppo tardi: arrivò abbastanza vicino da distinguere le grida infervorate dei barbari, ma stendardo e stendardiere caddero nel fango prima che lui potesse arrivare. Tutto si trasformò in una fuga convulsa, un carnaio disordinato e sudicio fatto di grida, sangue, interiora e nevischio sporco. Una concitata follia in cui Adikan perse il senso del tempo e dello spazio. Il suo cavallo venne azzoppato e lui lo abbandonò, gli uomini della sua guardia morirono, così abbandonò anche loro, combattendo disperatamente non per la gloria o il seggio del Sirenmat, ma per il privilegio di tornare a casa ad abbracciare sua madre, farsi baciare la fronte e sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene.

Fu in quel momento che scorse suo fratello.

Era lontano e non avrebbe potuto sentirlo nel fragore della battaglia, ma gridò comunque il suo nome e Galoth si voltò verso di lui. Non avrebbe saputo dire se avesse udito la sua voce o il richiamo del sangue, se, semplicemente, fosse stato mosso da quel legame indissolubile e intessuto di rancore implacabile che veniva loro dall'aver condiviso un'infanzia fatta di incubi, grida furiose e scabrosi silenzi.

Si guardarono negli occhi attraverso le visiere divelte dei loro elmi e, forse per la prima volta nelle loro vite, videro la stessa cosa: capirono che, se Galoth non fosse andato a salvarlo, Adikan sarebbe morto; seppero che, se l'avesse lasciato al suo destino, la loro madre l'avrebbe odiato per sempre più di quanto non facesse già e Margareth che pure, forse, lo amava nel profondo del proprio cuore non sarebbe più riuscita a guardarlo in faccia. Evocarono nella mente un'alta pira, un padre indifferente, una madre disperata e piena di livore, un popolo carico di domande e di sospetti.

Quando Galoth spronò il suo gigantesco stallone, Adikan si sentì al sicuro nonostante la morte di uno dei combattenti che ancora si frapponevano fra lui e il nemico: piegando l'ala sinistra avrebbero perso sicuramente la battaglia, ma lui sarebbe sopravvissuto. Fece un passo avanti, conficcando la propria spada nell'apertura che il grosso guerriero dinnanzi a lui gli aveva fornito nell'abbattere il suo compagno.

Vide cadere due degli uomini più vicini a Galoth, ma non se ne preoccupò, occupato a tenere a bada il gigantesco barbaro tatuato che aveva sostituito quello caduto. Suo fratello era sempre più vicino e Adikan godette di ogni testa nemica mozzata dal suo gigantesco spadone. Ripeté a se stesso che sarebbe andato tutto bene, riparandosi dietro lo scudo dal colpo violento dell'ascia del suo avversario; la percepì conficcarsi nel legno e lo strattone con cui il barbaro cercò di liberarla gli fece perdere l'equilibrio. Un colpo di mazza gli calò sulla spalla sinistra, piegandogli l'armatura e spezzandogli le ossa.

Sopraffatto da un dolore lancinante, si voltò verso Galoth proprio mentre un colpo violento  abbatteva il suo cavallo. Lo vide precipitare nel mare di corpi sotto di lui, il suo grido di rabbia animalesca coperto dal nitrire disperato dello stallone.

Adikan lasciò cadere lo scudo, incapace di sollevare nuovamente il braccio con cui lo reggeva, levò la spada e cercò involontariamente nella mente le preghiere che aveva imparato da bambino, solo per accorgersi di averle dimenticate.

Galoth era così vicino che si potevano udire le sue imprecazioni, le sue grida selvagge e piene di furore. Adikan colpì a morte l'uomo con la mazza e, nel farlo, si trovò a guardare nella direzione di suo fratello.

Si accorse che, abbandonato il cavallo, era avanzato troppo rispetto agli uomini che avrebbero dovuto coprirlo e assistette impotente al fendente che lo colpì alla schiena.

Gridò. La parola “fratello” non aveva mai bruciato tanto intensamente la sua gola.

Lo osservò cadere e si ricordò di averlo amato, un tempo, quando non era stato altro che una forma scalciante nel ventre di sua madre, quando ancora sognava di poter avere in lui un complice e un amico, quando la sua famiglia era ancora unita e perfetta. Nascendo, Galoth aveva distrutto tutto. I suoi occhi e capelli corvini e i sospetti di suo padre avevano mandato in pezzi la vita di Adikan e lui l'aveva odiato con tutta la forza con cui un essere umano poteva avversarne un altro. Sarebbe stato meglio se fosse morto, sarebbe stato giusto che fosse morto, sarebbe dovuto morire mille volte: sotto le percosse feroci di suo padre, nella fredda distesa di neve dove lo aveva abbandonato, nelle sue innumerevoli peripezie prive di buon senso e in quella battaglia, ma Galoth era attaccato alla vita come un'erbaccia al terreno sterile e, vedendo come molti fra i soldati, dimentichi di lui, si precipitassero a soccorrerlo, Adikan ebbe la certezza che suo fratello sarebbe vissuto ancora. Lo odiò di un odio perfetto e assoluto, mentre falliva nel tentativo di parare con la propria spada il fendente dell'ascia nemica. Colpito, scivolò, cadendo bocconi nel nevischio fangoso e sporco di sangue. Non vi era una sola parte del corpo che non gli dolesse, tuttavia trovò ancora la forza per rifiutarsi di lasciare che lo finissero mentre giaceva con la faccia immersa nel fango. Si voltò con un lamento.

Le canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor fredde altezze oltre la lama affilata che stava per piombare su di lui che Adikan si rese conto di stare per morire; abbandonato da coloro che avrebbero dovuto essergli devoti, tradito da coloro che avrebbero dovuto essergli fedeli, ignorato dall'infinita, celeste estensione del cielo. Quando l'ascia gli calò sul volto, vide il proprio viso riflesso nell'acciaio e non lo riconobbe; che quel cavaliere spaventato e vinto fosse lo stesso giovane uomo destinato ad ascendere al seggio del Sirenmat gli parve impossibile, e il dolore della morte giunse improvviso, confusamente mischiato a quello della sconfitta.


Note dell'autrice:  Questo banner è la luce dei miei occhi!
Come vedete questa capitolo si chiude con le stesse parole del prologo. Si tratta di un "compito per casa" assegnatomi dal contest a cui la storia partecipa. La storia doveva partire dalla fine. Non si tratta, tuttavia, dell'ultimo capitolo, seguirà un breve epilogo. Ho immaginato che interrompere qui sarebbe stato coerente con la fine di Adikan, ma un po' crudele nei confronti di voi lettori.

   
 
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