Adikan
Pur nella concitata
frenesia della battaglia, sudato e affaticato nella propria armatura,
gridando
ordini a squarciagola nel disperato tentativo di recuperare la
situazione,
Adikan aveva ancora fiato per maledire il Duca Herrat. Maledisse lui e
tutti i
suoi antenati, maledisse l'intera casata degli Indekel e la sua dimora
ancestrale, lanciò anatema sul loro motto e sull'elmo e il
corno del loro
vessillo; nessuna di quelle maledizioni, tuttavia, riuscì a
confortarlo mentre
i barbari sfondavano la prima linea, l'impatto fra i loro grandi scudi
e le
armi in asta un suono secco e definitivo come uno schiaffo.
Sbraitò perché
mandassero a chiamare le riserve, solo per accorgersi, cercando gli
stendardi
con lo sguardo, che erano avanzati troppo rispetto alle ali.
Imprecò,
osservando la massa disordinata e vociante di nemici che continuava ad
abbattersi sulle sue linee: sembravano spuntare dalla terra, energumeni
tatuati
dalle grandi asce e dai volti barbuti.
Nel chiamare le
staffette si domandò come Agorwal avesse potuto restare
indietro, lasciando il
suo fianco destro scoperto a quel punto; sospettò, persino,
che Galoth stesse
approfittando del comando dell'ala sinistra per fargli perdere la
battaglia:
non riusciva ad immaginare una situazione in cui l'animale bellicoso
che aveva
per fratello potesse essere trattenuto dal travolgere le fila
avversarie fino a
metterle in rotta.
Affidargli l'ala
sinistra era stato un errore: avrebbe dovuto fargli capitanare le prime
linee
del centro dove sarebbe stato sotto il suo controllo, avrebbe
incoraggiato gli
uomini, che lo amavano, e con un po' di fortuna sarebbe morto.
Il combattimento
nelle prime linee si era fatto disordinato e cruento e Adikan diede
ordine di
serrare le fila, mandando i corrieri a intimare ai comandanti delle due
ali di
spingere il nemico indietro e portarsi al pari con lui.
Il messo di Agorwal
arrivò in quel mentre, il cavallo stremato, il volto
stravolto e la voce rotta
dall'ansia.
«Mio signore, siamo
stati attaccati sul fianco destro. Sembra che il nemico abbia ricevuto
rinforzi
e stia portando avanti una manovra a tenaglia.»
Il volto della
staffetta rivelava una paura profonda e Adikan desiderò
impedirsi di
condividerla. Non aveva mai preso in considerazione di poter perdere:
quella
era la sua occasione per risplendere, per dimostrare a suo padre di
essere la
scelta giusta per la successione al seggio del Sirenmat; era
l'opportunità che
aspettava da tutta la vita e il pensiero che si trasformasse in
un'umiliazione
che avrebbe dovuto giustificare gli corrose lo stomaco.
La voce gli tremò di
rabbia quando diede ordine di iniziare un ripiegamento: era ingiusto e
il Duca
di Indekel avrebbe pagato per averlo tradito e abbandonato in
territorio ostile
insieme a una parte consistente delle sue forze, ma per il momento non
potevano
fare altro che indietreggiare, scampando alla trappola mortale che
rischiava di
chiudersi su di loro.
Il nemico attaccò
con più forza, una nuvola di giavellotti si
abbatté sugli uomini del Sirenmat e
le loro fila, scompaginate dalla morte, si infransero in una rotta
confusa e
sanguinolenta.
I barbari fluirono
nella breccia come una corrente impetuosa, fendendo il suo schieramento
come
burro. Quando li vide attaccare l'alfiere e le sue guardie, Adikan
spronò il
cavallo, cercando di raggiungerli in tempo e mettere in salvo la
bandiera prima
che fosse troppo tardi: arrivò abbastanza vicino da
distinguere le grida
infervorate dei barbari, ma stendardo e stendardiere caddero nel fango
prima
che lui potesse arrivare. Tutto si trasformò in una fuga
convulsa, un carnaio
disordinato e sudicio fatto di grida, sangue, interiora e nevischio
sporco. Una
concitata follia in cui Adikan perse il senso del tempo e dello spazio.
Il suo
cavallo venne azzoppato e lui lo abbandonò, gli uomini della
sua guardia
morirono, così abbandonò anche loro, combattendo
disperatamente non per la
gloria o il seggio del Sirenmat, ma per il privilegio di tornare a casa
ad
abbracciare sua madre, farsi baciare la fronte e sentirsi dire che
sarebbe
andato tutto bene.
Fu in quel momento
che scorse suo fratello.
Era lontano e non
avrebbe potuto sentirlo nel fragore della battaglia, ma
gridò comunque il suo
nome e Galoth si voltò verso di lui. Non avrebbe saputo dire
se avesse udito la
sua voce o il richiamo del sangue, se, semplicemente, fosse stato mosso
da quel
legame indissolubile e intessuto di rancore implacabile che veniva loro
dall'aver condiviso un'infanzia fatta di incubi, grida furiose e
scabrosi
silenzi.
Si guardarono negli
occhi attraverso le visiere divelte dei loro elmi e, forse per la prima
volta
nelle loro vite, videro la stessa cosa: capirono che, se Galoth non
fosse
andato a salvarlo, Adikan sarebbe morto; seppero che, se l'avesse
lasciato al
suo destino, la loro madre l'avrebbe odiato per sempre più
di quanto non
facesse già e Margareth che pure, forse, lo amava nel
profondo del proprio
cuore non sarebbe più riuscita a guardarlo in faccia.
Evocarono nella mente
un'alta pira, un padre indifferente, una madre disperata e piena di
livore, un
popolo carico di domande e di sospetti.
Quando Galoth spronò
il suo gigantesco stallone, Adikan si sentì al sicuro
nonostante la morte di
uno dei combattenti che ancora si frapponevano fra lui e il nemico:
piegando
l'ala sinistra avrebbero perso sicuramente la battaglia, ma lui sarebbe
sopravvissuto. Fece un passo avanti, conficcando la propria spada
nell'apertura
che il grosso guerriero dinnanzi a lui gli aveva fornito nell'abbattere
il suo
compagno.
Vide cadere due
degli uomini più vicini a Galoth, ma non se ne
preoccupò, occupato a tenere a
bada il gigantesco barbaro tatuato che aveva sostituito quello caduto.
Suo
fratello era sempre più vicino e Adikan godette di ogni
testa nemica mozzata
dal suo gigantesco spadone. Ripeté a se stesso che sarebbe
andato tutto bene,
riparandosi dietro lo scudo dal colpo violento dell'ascia del suo
avversario;
la percepì conficcarsi nel legno e lo strattone con cui il
barbaro cercò di
liberarla gli fece perdere l'equilibrio. Un colpo di mazza gli
calò sulla
spalla sinistra, piegandogli l'armatura e spezzandogli le ossa.
Sopraffatto da un
dolore lancinante, si voltò verso Galoth proprio mentre un
colpo violento abbatteva
il suo cavallo. Lo vide precipitare
nel mare di corpi sotto di lui, il suo grido di rabbia animalesca
coperto dal
nitrire disperato dello stallone.
Adikan lasciò cadere
lo scudo, incapace di sollevare nuovamente il braccio con cui lo
reggeva, levò
la spada e cercò involontariamente nella mente le preghiere
che aveva imparato
da bambino, solo per accorgersi di averle dimenticate.
Galoth era così
vicino che si potevano udire le sue imprecazioni, le sue grida selvagge
e piene
di furore. Adikan colpì a morte l'uomo con la mazza e, nel
farlo, si trovò a
guardare nella direzione di suo fratello.
Si accorse che,
abbandonato il cavallo, era avanzato troppo rispetto agli uomini che
avrebbero
dovuto coprirlo e assistette impotente al fendente che lo
colpì alla schiena.
Gridò. La parola
“fratello” non aveva mai bruciato tanto
intensamente la sua gola.
Lo osservò cadere e
si ricordò di averlo amato, un tempo, quando non era stato
altro che una forma
scalciante nel ventre di sua madre, quando ancora sognava di poter
avere in lui
un complice e un amico, quando la sua famiglia era ancora unita e
perfetta.
Nascendo, Galoth aveva distrutto tutto. I suoi occhi e capelli corvini
e i
sospetti di suo padre avevano mandato in pezzi la vita di Adikan e lui
l'aveva
odiato con tutta la forza con cui un essere umano poteva avversarne un
altro.
Sarebbe stato meglio se fosse morto, sarebbe stato giusto che fosse
morto,
sarebbe dovuto morire mille volte: sotto le percosse feroci di suo
padre, nella
fredda distesa di neve dove lo aveva abbandonato, nelle sue
innumerevoli
peripezie prive di buon senso e in quella battaglia, ma Galoth era
attaccato
alla vita come un'erbaccia al terreno sterile e, vedendo come molti fra
i
soldati, dimentichi di lui, si precipitassero a soccorrerlo, Adikan
ebbe la
certezza che suo fratello sarebbe vissuto ancora. Lo odiò di
un odio perfetto e
assoluto, mentre falliva nel tentativo di parare con la propria spada
il
fendente dell'ascia nemica. Colpito, scivolò, cadendo
bocconi nel nevischio
fangoso e sporco di sangue. Non vi era una sola parte del corpo che non
gli
dolesse, tuttavia trovò ancora la forza per rifiutarsi di
lasciare che lo
finissero mentre giaceva con la faccia immersa nel fango. Si
voltò con un
lamento.
Le canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor fredde altezze oltre la lama affilata che stava per piombare su di lui che Adikan si rese conto di stare per morire; abbandonato da coloro che avrebbero dovuto essergli devoti, tradito da coloro che avrebbero dovuto essergli fedeli, ignorato dall'infinita, celeste estensione del cielo. Quando l'ascia gli calò sul volto, vide il proprio viso riflesso nell'acciaio e non lo riconobbe; che quel cavaliere spaventato e vinto fosse lo stesso giovane uomo destinato ad ascendere al seggio del Sirenmat gli parve impossibile, e il dolore della morte giunse improvviso, confusamente mischiato a quello della sconfitta.
Note
dell'autrice: Questo
banner è la luce dei miei occhi!
Come vedete questa
capitolo si chiude con le stesse parole del prologo. Si tratta di un
"compito per casa" assegnatomi dal contest a cui la storia partecipa.
La storia doveva partire dalla fine. Non si tratta, tuttavia,
dell'ultimo capitolo, seguirà un breve epilogo. Ho
immaginato che interrompere qui sarebbe stato coerente con la fine di
Adikan, ma un po' crudele nei confronti di voi lettori.