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Autore: Ryo13    27/11/2013    4 recensioni
Erin Knight ha un solo obiettivo nella sua vita: da quando ha perso lo zio Klaus, ucciso dall'uomo che amava, non vive che per trovare colui il quale possiede il potere complementare al suo, ovvero quello di manovrare il tempo. Tuttavia la sua missione è ostacolata da Samuel Lex — adesso capo dei ribelli e conosciuto col nome di 'Falco' — e dai capi dell'esercito reale che la osteggiano, minacciando la sua carica di Luogotenente. Unica donna in un mondo di uomini e senza alleati, sarà costretta a forgiare nuove alleanze in luoghi inaspettati...
❈❈❈Storia in revisione ❈❈❈
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Capitolo 14 - Al Cane Nero

La campagna era silenziosa, il cielo limpido lasciava spazio alla luna per risplendere della sua pallida luce, insufficiente a dirimere le ombre gettate dagli alberi; nemmeno le lanterne della carrozza erano di qualche utilità, così rimanemmo a lungo in silenzio, tendendo l’orecchio.

Il vento scosse le fronde degli alberi, nell’aria si avvertiva un’impercettibile tensione ghermire lo stomaco.

Non mi piaceva quell’attesa: preferivo di gran lunga l’azione; più che un fato compiuto, preferivo essere io stessa artefice degli eventi. 

Eppure, una delle prime lezioni che mi aveva impartito Klaus era di avere pazienza, perché senza sarei stata altrettanto esposta al fato che se mi fossi abbandonata a esso per mancanza di iniziativa.

La tensione non accennava a diminuire. Potevo anche essere capace di sfidare un intero esercito di schiavi in una famigerata arena, con l’arrogante sicurezza di riuscire sopraffare tutti, ma bastava inserire Samuel nell’equazione perché il disagio si impossessasse di me, senza poterlo vincere.

Cercai di dominare i miei stessi pensieri, per non cedere al panico.

Dopo alcuni minuti, un rumore alle nostre spalle ci fece sobbalzare, e ci voltammo.

Stavo per lanciarmi di là dal cespuglio quando la sagoma di una volpe sbucò con un agile movimento, attraversando il sentiero.

Quasi ci rilassammo, abbassando le spade, ma una figura di uomo a cavallo comparve sulla strada, davanti a noi. Restammo in guardia, attendendo la sua mossa.

Ma l’uomo non fiatò né si mosse.

«Chi siete?», domandai seccamente.

I cavalli mandarono fuori aria dalla narici, innervositi, mentre si fecero avanti, dalle spalle del primo, altri tre uomini.

«Se il vostro intento è di attaccarci, diamoci una mossa, non voglio perdere tutta la notte.»

«Non siamo qui per combattere», annunciò l’uomo vestito di nero. «Abbiamo un messaggio per voi, milady.»

Alzai un sopracciglio. «Se siete venuti a recare l’ennesimo messaggio fuorviante da parte del vostro signore, fareste meglio a tornarvene da dove siete venuti».

«È una cosa della massima importanza.»

«So io a cosa dà importanza il vostro padrone. Non ho intenzione di partecipare ai suoi giochi», ribattei stizzita.

L’ultima volta che i nostri cammini si erano incrociati, Samuel mi aveva fatto credere di avere trovato l’uomo che cercavo: ovviamente si era rivelato tutto un inganno. Che l’avesse fatto per burla, noia o il semplice piacere di tormentarmi, era riuscito a strapparmi un bacio e non volevo ripetere l’esperienza.

«Questo potrebbe convincervi, milady.»

L’uomo frugò nel mantello e ne estrasse un fagotto che lanciò per aria nella mia direzione.

Lo afferrai, notando un pezzo di lino grezzo che avvolgeva al suo interno un oggetto metallico delle dimensioni del mio palmo. Quando lo svolsi, il metallo, lavorato meticolosamente, raffigurava due bambini che si tenevano per mano all’interno di un cerchio formato da fasce intrecciate. Alla base, nell’antico idioma, vi era inciso “Turem o’hem” che significava: “Colui che avvolge la spirale”.

Un brivido mi percorse la schiena: non avevo mai visto quel medaglione, ma nel profondo sapevo che era importante. 

Rimasi zitta per parecchi secondi.

«Erin», mi richiamò Chevalier. La sua voce era bassa e monocorde, apparentemente calma. Pronunciando il mio nome mi aveva chiesto di prendere una decisione: dovevamo togliere di mezzo quelle persone o lasciarle andare?

«Dove l’ha trovato?», chiesi, riportando l’attenzione sul messaggero.

L’uomo scrollò le spalle. «È una domanda che dovete fare al mio padrone.»

«Potrebbe essere una trappola», commentò Chevalier.

«Potrebbe», rispose l’uomo. «Sta a voi decidere se vale la pena sentire cosa ha da dire. Vi consiglio di riflettere molto attentamente.»

«Lo faccio sempre», puntualizzai.

Anche se non potevo esserne sicura, ebbi l’impressione che l’uomo sorridesse, divertito dalle mie parole.

«Allora non occorre che aggiunga altro.» 

Fece per voltarsi, ma lo fermai chiedendo: «Se decidessi di venire, dove lo trovo?»

«Voi sapete dove.»

Detto questo, spronò il cavallo e sparì nella boscaglia assieme agli altri cavalieri.

Chev e io rimanemmo immobili fino a quando non si perse in lontananza lo scalpiccio degli zoccoli.

Riponemmo le spade contemporaneamente.

Chev si avvicinò e chiese: «Cosa vi ha dato?».

Gli mostrai il medaglione. 

Lui s’irrigidì per un momento, poi batté le palpebre come confuso.

«Tutto bene?», domandai. «Conosci questo oggetto?»

«Io…» Allungò una mano per sfiorarlo, ritraendola appena un attimo prima di farlo. «No, non credo di averlo mai visto prima.»

«Perché questa reazione, allora?»

Chevalier mi guardò intensamente prima di rispondere. «Non serbo nessun ricordo legato a questo oggetto, eppure mi trasmette una strana sensazione.»

«Tutto qui?»

Annuì, distogliendo lo sguardo.

In un certo senso lo comprendevo: era inquietante che un oggetto mai visto prima potesse provocare tanta perplessità.

«Che cosa hai intenzione di farne?», mi domandò.

«Non ne sono sicura. Potrebbe significare qualcosa come anche niente.» Avvolsi il metallo nella stoffa mentre riflettevo. «Il Falco non mi ha mai fatto recapitare prima d’ora un oggetto che facesse un così chiaro riferimento alla leggenda dei Bambini del tempo. Mi domando dove l'abbia trovato o se l’ha preso a qualcuno.»

«Ritieni saggio accettare il suo invito pur di ottenere risposte?»

«Per niente. Ma è da tempo che cerco di trovare degli indizi sulla leggenda: questo è il primo da lungo tempo, non posso ignorarlo nonostante la fonte da cui proviene».

«Dunque non rimane che vedere cosa abbia da dire. Suppongo che i tuoi poteri ti terranno abbastanza al sicuro da lui.»

Sbuffai. «Purtroppo non è così semplice.»

«Che vuoi dire?»

Dalla carrozza provenne un rumore: mi ero completamente dimenticata del cocchiere che avevamo rinchiuso al suo interno, mentre affrontavamo il pericolo. 

Fronteggiai Chevalier, ancora in attesa di una spiegazione. 

«I miei poteri non funzionano su di lui.»

Stava per ribattere ma mi ero già voltata per permettere al servo di scendere dalla carrozza. Dopo averlo rassicurato sullo scampato pericolo, ripresi il mio posto all’interno della vettura, aspettando che Chevalier facesse lo stesso.

 

ꕥꕥꕥ

 

Risalimmo verso i miei appartamenti al palazzo reale. L’ora era tarda, ma a corte si trovava sempre qualcuno pronto a dare un ballo per aumentare il proprio prestigio presso gli altri dignitari.

Anche quella sera risuonavano tra gli ampi ambienti raffinate note musicali: dovevano essere tutti riuniti nella sala grande delle udienze, l’ala del palazzo che stavamo percorrendo era deserta.

Durante tutto il percorso di ritorno io e Chevalier non avevamo più parlato. Chevalier, probabilmente, cercava di decifrare il significato della mia ultima frase.

Gli lanciai un’occhiata furtiva: fissava il pavimento. I nostri passi rimbombavano nel corridoio.

Era da tutto il giorno che lo tenevo d’occhio: all’inizio mi era sembrato piuttosto normale; nel pomeriggio, però, avevo notato un lieve irrigidimento della postura, che si era intensificato col proseguire della serata.

Per poco non aveva perso il controllo al ballo, a causa di Joshfen: avevo temuto che non fosse in grado di controllarsi. Ma mi aveva sbalordito col suo ferreo autocontrollo. 

Tuttavia era arrivato al limite: notavo un leggero tremore agli arti, l’espressione cupa, il capo chino… come se non volesse rischiare di incrociare il mio sguardo.

Mi bloccai di colpo e quasi mi venne addosso. Ci trovammo molto vicini, viso a viso, e contrasse la mascella.

Attesi di sentirgli chiedere ciò di cui aveva così tanto bisogno. Sembrava intenzionato a negarselo, lì piantato sul pavimento di marmo.

Poco importava che il sangue pulsasse con forza sul collo, che il suo corpo andasse in fiamme come per febbre, non avrebbe parlato.

I suoi occhi mi incantarono tanto erano intensi, eroicamente ostinati davanti a una battaglia persa in partenza: non si poteva combattere la forza di un vincolo di sangue. Non a lungo, almeno.

Chevalier stava dando fondo alla sua resistenza, aveva bisogno di me per fare rifornimento, ma non chiedeva aiuto.

Se ne stava immobile, ben piantato sulle gambe nonostante il tremore che le percorreva.

Stavo per rinunciare al nostro confronto, quando mi resi conto che gli era impossibile sciogliersi dal legame formato: non aveva la forza di chiamarsi fuori dall’impasse, quindi toccava a me fare qualcosa.

Lo sospinsi al muro più prossimo, mettendo pericolosamente in contatto i nostri corpi.

Con espressione accigliata, gli dissi: «Basterebbe parlare».

Da che l’avevo toccato, il tremore si era accentuato. Ansimava, turbato dalla vicinanza.

«Devo imparare… a controllarlo», spiegò con voce profonda.

«Il vincolo non si può vincere. Devi imparare che la tua sola volontà non potrà sempre farcela. Che senso ha logorarsi in questo modo?»

«Devo tentare.»

«Otterresti solo di sfiancarti, mettendoti in pericolo», sospirai. 

«Ti ho già spiegato che adesso, dentro di te, il mio potere e quello di Drogart si combattono costantemente. Se si esaurisce la mia magia, sarà la sua a prendere il sopravvento.»

«Non se riesco a imporre la mia volontà», replicò con uno sbuffo. «Questo corpo ancora mi appartiene.»

«Ma non capisci?!», sbottai con una punta di esasperazione nella voce. «Pretendi di combattere entrambe le nostre forze, come se ti fossero nemiche allo stesso modo. Ma il nemico è solo uno, ed è Drogart. Io sono tua alleata.»

Tentai di trasmettere sincerità alle mie parole. «Usa la tua volontà per sostenere il mio potere, non per respingerlo.»

Chiuse gli occhi, vibrando.

«E se… se un giorno fosse il tuo potere a prevalere sull’altro… tutto quello che avrò ottenuto sarà di averti aiutato ad avere il completo controllo su di me.»

«Ma io non voglio controllarti», sussurrai.

Fece un sorriso tirato, infelice. «Questo lo dici ora.»

«Pensavo ti fidassi di me… credevo di averti dimostrato che potessi farlo.»

Le sue mani si sollevarono afferrando le mie braccia. 

Mi fissò duramente mentre diceva: «Sei una persona nobile, Erin, non lo nego. E hai anche un buon cuore. Ma questo non basta per il livello di fiducia che mi chiedi. Il potere corrompe, soprattutto quello che esercita il controllo sulle altre persone.»

«Allora cos’hai intenzione di fare?», domandai, reprimendo la rabbia.

Le sue parole, per quanto vere e ragionevoli, mi avevano ferita.

«Resistere», disse, avventandosi sulle mia labbra. 

Non mi resi conto di cosa stesse accadendo.

Le sue braccia mi immobilizzarono col petto premuto contro il suo. Mi aggrappai istintivamente alle sue spalle, mentre la sua bocca si muoveva sulla mia con movimenti incalzanti.

Le ciocche dei suo capelli mi sfioravano il viso e riempivano le mie narici del loro profumo. Sentii i suoi denti saggiarmi con un gemito: sembrava un affamato che non toccava cibo da giorni. 

Arsi col sangue alla testa e il formicolio del potere suscitato a pizzicarmi la nuca. Ansimavo, col capo gettato indietro, incapace di sollevare le palpebre.

Dopo i primi momenti, il bacio si fece più dolce, meno vorace; anche la stretta sulla schiena si ammorbidì. Percepii l’alito caldo di Chevalier sulle labbra umide e, rabbrividendo, mi contorsi sul suo inguine duro.

Mi strinse i fianchi di riflesso e credetti volesse allontanarmi, invece non accennò alcun movimento.

Mi fissò le labbra, poi abbassò lo sguardo sul mio seno, per metà scoperto dalla linea obliqua che lo squarciava a metà.

Lo udii respirare pesantemente e tentai di non pensare al calore che si annidava tra le nostre gambe. 

Erano passati anni dal mio ultimo contatto ravvicinato con un uomo: avevo creduto che la rabbia e il dolore avessero annientato quella parte di me che desiderava essere vezzeggiata e accarezzata.

Avrei dovuto sentirmi intimidita dalla prestanza fisica di lui, avrei dovuto avere timore dell’effetto che aveva su di me: eppure tutto ciò che percepivo era euforia, e desiderio di indulgere ancora un poco, di andare oltre, di esplorare tutto.

Nonostante una parte di me continuava a porsi delle domande, l’altra era completamente rapita dall’intensità del momento che stavo vivendo e metteva a tacere tutti gli interrogativi.

Forse Chevalier provava le stesse cose.

Fummo interrotti dall’arrivo di alcuni inservienti: le loro voci riecheggiarono tra le pareti di pietra.

Chev finalmente si scostò dal muro, allontanandomi.

Nel momento in cui i servi si accorsero di noi, smisero di parlare e passarono oltre con una riverenza.

Attesi che sparissero dietro l’angolo, recuperando il controllo.

«Domani sera incontreremo il Falco», dissi, lisciando un’immaginaria piega sull’abito.

Capii di aver sorpreso Chevalier dal suo lieve sussulto. Non si era aspettato questo commento da parte mia. Tuttavia lo accettò senza fiatare.

Camminai verso la mia stanza, senza accertarmi che mi seguisse. Era ora di mettere un po’ di distanza tra noi.

 

ꕥꕥꕥ

 

La notte del giorno successivo ci trovavamo nella città bassa a percorrere alcuni dei vicoli più malfamati.

Con Chevalier che mi seguiva silenzioso, ero diretta al Cane nero, una taverna dove si riunivano marinai, tagliagole e gente della peggior specie per mangiare, giocare d’azzardo, oppure per affittare qualche camera dove trascorrere una squallida ora con una delle prostitute del locale.

Giunti in prossimità della locanda, fummo in grado di udire il chiacchiericcio proveniente dall’interno.

Attraversai l’uscio della porta, guardinga, controllando che nessuno potesse avvicinarsi con cattive intenzioni.

Alcuni uomini mi squadrarono dalla testa ai piedi chiedendosi cosa ci facesse una signora in un luogo come quello e a notte così inoltrata, magari fantasticando di isolarmi all’angolo per prendersi il loro tempo con me: i loro occhi avevano una luce maliziosa che era difficile da ignorare.

Li fissai tanto a lungo da far loro capire che conoscevo benissimo le loro fantasie e che avrebbero dovuto rimanere tali se non volevano problemi quella sera.

Uno di loro parve afferrare al volo il concetto e abbassò gli occhi sul proprio boccale di birra, lasciando perdere; altri due persistettero con le loro occhiate lascive, almeno fino a quando non si avvidero della presenza alle mie spalle.

Dal modo in cui sgranarono gli occhi, sbiancando, dovevano averlo riconosciuto come l’ex campione del Surdesangr.

Era perfetto: la reputazione di Chevalier si sarebbe rivelata molto utile per levarci di torno i piccoli delinquenti, che non avrebbero sfidato la sorte per timore di fare una brutta fine.

Un ragazzo per poco non mi finì addosso, inciampando sui suoi stessi piedi. Chev, con i suoi ottimi riflessi, prevenne il disastro, afferrandolo per un braccio e tenendolo dritto. Quando recuperò l’equilibrio, si scusò arrossendo. Sembrava piuttosto giovane e sprovveduto: cosa ci faceva in un posto simile?

Prima che potesse scansarsi, lo trattenni. Sussultò come se l'avessi spaventato: probabilmente temeva di essere picchiato, cosa che non doveva essere infrequente in quella bettola.

«Stai calmo, voglio solo chiederti qualcosa», lo rassicurai brevemente.

«M-mi… mi dica.»

«Sto cercando il Falco, lo hai visto da qualche parte?»

Il ragazzo sgranò gli occhi. «S-sì. Si trova l-laggiù in fondo», balbettò, indicando un punto del locale nascosto alla vista e immerso parzialmente nell’ombra.

Mollai il braccio del ragazzo, il quale fece un passo indietro.

«Ti ringrazio.»

Non fu difficile trovarlo. Nella penombra intravidi un gruppo di uomini seduti attorno a un tavolo, intenti a giocare a carte.

Al centro, Samuel spiccava per l’atteggiamento sicuro che pareva attrarre l’attenzione di tutti i giocatori. A gambe divaricate, teneva le carte come se non avesse affatto bisogno di guardarle e fosse sicuro di avere la mano vincente: a giudicare dal gruzzoletto che aveva raccolto sul suo lato del tavolo, quella sera la fortuna era dalla sua parte.

Tracannò un lungo sorso di birra prima di voltare l’ultima carta e recuperare la vincita. Ridendo, distribuì pacche amichevoli agli omaccioni sconfitti.

Quando mi vide, i suoi occhi si illuminarono in quella particolare espressione che assumevano solo con me: la vivacità naturale dei suoi modi si velava di una sorta di serietà, senza tuttavia eliminarne l’esuberanza di fondo.

A volte passava tra noi qualcosa come un eco del passato. Persino il ricordo dell’amore che credevo avessimo condiviso tornava a rifrangersi nella mia mente, subito seppellito da emozioni più cupe e violente: l’angoscia del dolore, la rabbia del tradimento, l’esasperazione di centinaia di episodi nel corso degli anni, che mi avevano lasciato con molte più domande che risposte, e molta più frustrazione che rassegnazione.

Non potevo reprimere un brivido di disgusto per la forza dei sentimenti che ancora mi muoveva: quanto avrei voluto possedere quella freddezza di chi ha chiuso completamente il proprio cuore, eliminando ogni traccia dell’esistenza della persona che lo ha tradito.

Invece, combattevo ancora contro la sua influenza, contro il ricordo di sentimenti più teneri per impedirmi di ricadere nella stessa trappola.

Forse per un momento riuscivamo persino a essere sinceri, prima di tornare a trincerarci dietro più sicuri atteggiamenti: malcelata sopportazione e sfrontata insolenza.

«Sei venuta», disse soddisfatto.

Gli uomini di Samuel si erano zittiti, registrando il cambiamento del loro signore. Notando la mia presenza, si allontanarono silenziosamente; restarono solo due uomini.

«Credevo saresti arrivata prima», commentò.

«Prego, accomodati», disse, indicando la sedia di fronte a sé.

Raccolse le monete vinte, riponendole nella bisaccia.

Presi posto, confidando nella protezione di Chevalier e replicai: «Sono stata impegnata».

«Con lui?», indicò la mia guardia del corpo sollevando un sopracciglio scettico. «Credevo passassi il tuo tempo in un altro modo. Avevo capito che avessi una missione da portare a termine… o forse ti sei arresa e non ti riguarda più?»

«Come decido di trascorrere il mio tempo, o con chi farlo, non sono affari che ti riguardano», dissi trattenendo un moto di collera. «Sono venuta qui perché me lo hai chiesto per un argomento che ho ritenuto abbastanza valido.»

Tirai fuori dal giustacuore il medaglione e lo lanciai sul tavolo con un tintinnio, facendolo finire al centro.

«Vuoi spiegarmi cosa significa? Dove lo hai trovato?»

«E lui? Dove lo hai trovato?», replicò, tenendo lo sguardo puntato su Chevalier.

Strano. Di solito era molto più controllato: in genere gli piaceva giocare al finto tonto, prendendosi gioco di me come fa un gatto annoiato col topo.

Guardai con la coda dell’occhio Chevalier, prima di fissare Samuel perplessa e sospettosa.

«Perché ti interessi tanto a lui? È semplicemente uno dei miei soldati.»

Finalmente Samuel mi rivolse la sua piena attenzione, distogliendo lo sguardo da Chevalier, piegando il capo di lato con una smorfia truce.

Non gliel’avevo data a bere.

«Non mentirmi, Erin. Dovresti sapere che ho occhi e orecchie ovunque.»

«Con questo che vorresti dire?»

«So perfettamente che ti hanno estromesso dalla carica di luogotenente. Si dice in giro che nessun soldato ha voluto mettersi spontaneamente sotto al tuo comando.»

«È vero. E allora?»

«Quest’uomo porta un nibbio reale sulla divisa dell’esercito, ma non fa parte dell’esercito», sentenziò.

«Dove vuoi arrivare con queste domande? Credevo fossimo qui per parlar d’altro!»

«Dove lo hai trovato?», insistette.

«Cosa ti hanno riferito i tuoi occhi e le tue orecchie?»

Incrociai le mani al petto, rifiutandomi di rispondere: quell’interrogatorio era mirato, dunque sapeva più di quanto volesse ammettere.

Sorrise divertito. «Sei sparita per giorni, nessuno sapeva dov’eri finita prima dell’agitazione giù all’arena di Sangue.»

«Mi fai seguire per caso?», la mia voce si incrinò leggermente per lo sdegno.

«Non sarebbe saggio perderti di vista», rispose diplomatico.

Ci fissammo per alcuni secondi, studiandoci sopra il sudicio tavolo.

Fu lui a parlare per primo, risolvendo l’impasse, cosa davvero fuori dalla norma dato che generalmente ero io quella più impaziente tra i due.

«Come sei arrivata a lui?», chiese.

Corrugai la fronte, disorientata.

«Che bizzarro modo di formulare la domanda… pensi che avrei dovuto seguire una pista

Si finse divertito dalle mie parole, ma non me la diede a bere. Stava commettendo troppi errori in quella conversazione per non rendersene conto anche da solo. Vedevo che era turbato, solo non sapevo per quale motivo.

C’entrava forse Chevalier?

Seppur piena di dubbi, mi piaceva vederlo in difficoltà una volta tanto.

«Chev, conosci per caso quest’uomo?», domandai direttamente all’interessato.

Samuel lo fissò in attesa della risposta, come se lui stesso non fosse in grado di prevederla.

Chevalier lo squadrò. Dopo una considerevole pausa di riflessione, rispose: «Non che io ricordi».

Mi agitai sulla sedia, turbata dalle sue parole: Samuel non era un tipo che passava certo inosservato. Aveva una certa fama, e Chevalier aveva già ammesso di conoscerlo per quella. Come avrebbe potuto dimenticarsi di lui, se l’avesse conosciuto per una qualsiasi ragione?

Perché dunque quell’ambiguità? E perché l’interesse di Samuel nei suoi confronti? 

Possibile si conoscessero da prima? Ma se così fosse, cosa impediva a Chevalier di ammetterlo apertamente?

Tutto ciò avrebbe dovuto rendermi estremamente diffidente, ma mi resi conto di avere una certa fiducia nei confronti di quel guerriero.

A dispetto del poco tempo trascorso, del fatto che non ci conoscessimo abbastanza, qualcosa mi attirava verso di lui, rendendomi confidente nel nostro rapporto. 

Non avrei saputo dire se fosse una conseguenza del vincolo magico che ci legava, ma sentivo un’apparentemente infondata sicurezza, come non mi succedeva dal tradimento di Samuel.

Io e Chevalier ci fissammo negli occhi, quasi avessimo attirato l’attenzione l’uno dell’altro con una parola. Invece, senza dire niente, riconfermammo la reciproca fiducia.

I suoi occhi non mentivano, e io ero disposta ad attendere di essere in privato per farmi spiegare cosa celassero le sue parole.

Quando posai nuovamente gli occhi su Samuel, riconobbi un’espressione che non vedevo da lungo tempo: gelosia.

Con consumata abilità, però, tornò subito alla perfetta neutralità.

«Curioso che tu lo abbia scovato per caso», disse con lentezza, come riflettendo. «Se davvero non hai seguito alcuna pista, la cosa si fa interessante…»

Ero stufa dei suoi commenti sibillini. «Cosa sarebbe interessante?»

«La medaglia», disse, toccandola con le dita, «è stato proprio quest’uomo a darmela.» 

«Non…»

«Meatha», mi interruppe, deciso. «È accaduto a Meatha, cinque anni fa. Se non mi credi, sono affari tuoi.»

Dettò ciò abbandonò il suo posto, seguito dai suoi uomini.

Non provai nemmeno a fermarlo: quando decideva di porre fine a una conversazione non c’era verso di fargli cambiare idea.

 
 
   
 
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