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Autore: bipolarry    02/12/2013    2 recensioni
Carpe diem, pensò Louis, il ragazzino dagli occhi grigi aveva catturato la sua attenzione ormai già da qualche ora, ed era così ubriaco che qualunque cosa fosse successa, non l’avrebbe mai ricordata. E non era certo colpa sua se Harry barcollava e ogni minuto che passava erano sempre più vicini.
“Dio, devo bere di meno” farfugliò Harry, più a se stesso che a Louis.
***
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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you can run away with me anytime you want.


Non si aspettava di trascorrere la vigilia di Natale in compagnia di se stesso, niente nel suo sguardo, nei suoi modi di fare, gli aveva dato adito di prevedere quel momento, nessun segnale, movimento o parola gli fecero credere che si sarebbe ritrovato da solo. Il ragazzino sa mentire, si ripeteva, ed era vero, il ragazzino l’aveva fregato, si era preso la parte migliore di Louis e l’aveva portata via, l’aveva fatta sua, lasciando al più grande nulla se non la sua mancanza. Tutto quello che gli rimaneva era quello che non aveva. Non era mai stato in grado in cucinare, sebbene fosse autosufficiente da sempre, non aveva mai capito i meccanismi della cucina, quindi si ritrovò in una casa troppo grande, troppo allegra, troppo vuota, senza che ci fosse nessuno a preparare qualcosa, non sentiva odori provenire dalla cucina, nessun rumore di stoviglie che urtano tra loro, niente che lo illudesse di non essere solo. Ancora sul divano, e troppo svogliato, stanco, svuotato, per trascinarsi fino alla sua camera, si tirò le ginocchia al petto e chiuse gli occhi, se avesse creduto in Dio avrebbe pregato, ma preferì affidarsi a ciò che sapeva reale. Ricordava le sue mani poggiate sul bancone di legno del Jack, le dita che tamburellavano con un ritmo regolare, monotono, schematico, lo stesso sorriso ubriaco della sera in cui si conobbero; le stesse mani, fredde, congelate, le ricordava sulla sua schiena, sulla sua nuca, le ricordava ovunque, gli tornò in mente quell’odore giovane e ingenuo che aveva, le frasi stupide, quelle lasciate a metà, ricordava anche le frasi non dette, ed era quasi sicuro di ricordare anche i suoi silenzi, perché era lì che aveva trovato le migliori risposte.
“Probabilmente i Beatles sono la mia band preferita.” Gli disse una sera, erano in macchina, e Louis rise sonoramente, “che hai da ridere?” insistette il più piccolo.
“Scommetto che la tua canzone preferita è Hey Jude.” Il tono divertito si ruppe a causa di un’altra risata. Gli occhi, prima fissi sulla strada, si fermarono sull’espressione concentrata di Harry, la carnagione pallida, invernale, le mani arrossate dal freddo, dopo averci pensato su, canticchiò: “Na, na, na, Hey Jude..”
“Sei la persona più banale al mondo.” Represse la smorfia che nacque sulle sue labbra.
“Fammi sentire, uomo dell’originalità, tu cosa ascolteresti?” Un’aria di sfida e un sorriso divertito si contrapponevano.
Frenò di colpo, il cuore di Harry saltò un battito, “sei impazzito o cosa?!” la bocca semiaperta e gli occhi sgranati.
Era notte fonda, Louis lasciò la macchina avanti la vetrina del negozio di vinili in cui Niall lavorava, “Scendi, ti faccio vedere.”
“Ma.. è chiuso.. saranno le tre del mattino..”
“Scendi.” Ripeté, facendo dondolare un leggero mazzo di chiavi avanti i suoi occhi.
“È legale quello che stiamo facendo?” chiese leggermente impaurito.
“Sono quasi dieci mesi che vengo qui, mai nessuno se ne è accorto.” Disse, impegnato a maneggiare la serratura nonostante il buio. Riuscì ad aprire la porta del negozio, ed entrambi furono investiti da un odore di chiuso, di carta, umido, “51779, disattiva l’allarme.” Louis indicò con il mento il quadro, ripetendogli il codice una seconda volta.
La mano ancora gli tremava quando il suo indice sfiorò il nove, si girò verso il più grande e con il respiro che ancora gli mancava, sussurrò: “okay, fatto. Ho ufficialmente infranto la legge.”
“Vieni qui!” aveva una vecchia cassetta tra le mani, “questa è la parte più bella di questo buco di negozio.” Gli indicò una parete con una dozzina di mensole, su ognuna di queste c’erano file e file di cassette, “sono tutte cassette miste, create da chiunque, le persone venivano qui e le vendevano; ognuna di queste cassette ha una storia, sono regali, furti, pensieri, c’è gente lì fuori che le ha ascoltate fino ad addormentarsi, c’è chi si è innamorato e chi ha pianto, su queste mensole ci sono centinaia di vite, colonne sonore, è assurdo.” Era perso, negli ultimi mesi le aveva ascoltate quasi tutte, adorava quella sensazione dinamica di perenne scoperta, non sapere quale sarebbe stata la canzone successiva, di che genere, chi l’avesse scritta, chi prima di lui l’avesse ascoltata. “Abbassati, ti faccio sentire la mia preferita.”
Harry inarcò le sopracciglia, non spiegandosi quale potesse essere l’utilità.
Il più grande inspirò, esasperando il suo essere imbarazzato, “non ci arrivo, è troppo in alto, devi prendermi sulle spalle.” Il suo sguardo non ammetteva repliche; Harry, consapevole della sua presenza notevolmente più imponente e significativa, gli sorrise scoprendo i denti e si abbassò. Aveva le mani sulle sue caviglie, cercando di dargli equilibrio, “Trovata o credi di restare lì su tutta la notte?”
Il sarcasmo gli costò un calcio sulla gabbia toracica, “C-cazzo, Lou!” gli mancò il fiato.
Ancora sulle sue spalle lo colpì un’altra volta, Harry tolse la presa dalle sue caviglie, sbilanciandolo all’indietro; per non cadere, Louis, tenne una mano agganciata alla mensola e l’altra radicata tra i capelli di Harry, “sei cretino?” La risata del più piccolo invase la stanza semibuia.
“Trovata, puoi farmi scendere.” Il tono ancora controvoglia divertito, Harry si abbassò e finalmente gli lasciò toccare terra. “Vieni, ti faccio sentire qualcosa di non banale quanto i Beatles.”
“Tu sei sicuro di essere inglese?”
“Zitto e ascolta.”
Le prime note di Hallelujah riempirono le loro orecchie, Harry si aspettava la voce sensibile, melodica di Jeff Buckley, non poi così originale, e invece fu colpito dal tono sicuro e allo stesso tempo dinamico di Leonard Cohen, a volte dimenticava che quella di Buckley fosse una cover, quella canzone aveva una propria personalità, una propria essenza, in grado di mostrare lati diversi di sé ogni volta che veniva ascoltata. Si voltò a guardare Louis, genuinamente sorpreso dalla scelta della canzone; intanto, un sorriso compiaciuto si era dipinto sul volto del più grande.
Tra la prima e la seconda traccia il silenzio era colmo del ronzio provocato dalle casse del vecchio registratore, le prime note colpirono immediatamente l’attenzione di Harry, le avrebbe riconosciute tra mille, nonostante il nastro fosse stato registrato dal vivo, quindi sporcato da grida e rumori, ancora una volta venne sorpreso, si aspettava una qualsiasi esibizione dal vivo di Imagine, un John Lennon empatico e rilassato, sincero, ma dovette ricredersi ancora, un’altra cover inondò le sue orecchie, i Queen la suonarono come tributo l’8 dicembre del 1980, conosceva bene quell’esibizione, ma sentirla su cassetta lo riportò indietro, in un’epoca che neanche aveva vissuto, eppure si sentiva lì. Passarono quasi un’ora ad ascoltare musica al buio, guardandosi senza parlare, Louis osservava l’espressione di Harry cambiare per ogni canzone, gli piaceva, gli piaceva vederlo cambiare sotto i suoi occhi, l’ingenuità con cui si lasciava sorprendere, la sincerità che si era illuso di vedere nei suoi occhi.
“Sono tutte cover, e tutte piuttosto rare.” Disse una volta finito il nastro.
“Sono.. sono.. nuove.”
“Originali.” Un occhiolino e un mezzo sorriso non tardarono ad arrivare sul volto di Louis, non aveva mai abbandonato quell’aria da te l’avevo detto. “I Beatles sono solo la faccia più ovvia della musica, il canonico, esatto, preciso, ma la musica è ricerca.” Il suo tono risultò più saccente di quanto volesse.
“Piacevano a mio padre, li adorava, e tutte le domeniche, durante l’estate, mangiavamo nel giardino sul retro, e ce li faceva ascoltare finché io e mio fratello non imparammo a memoria tutte le canzoni, quei vinili li aveva quasi consumati, assorbiti, e ogni volta che partiva io li ascoltavo, ogni volta che non era domenica io li ascoltavo, e facevo finta che fossimo ancora tutti insieme, di domenica. E mi calmavo, Liam mi calmava, Liam calmava sia me che mia madre, in realtà.” Era stanco, parlava per inerzia, senza pensare né filtrare i prodotti della sua mente. Louis indugiò prima di fare delle domande, ma alla fine si limitò a fargli da eco.
“Facevi finta?”
“Partiva spesso, il lavoro per l’ambasciata inglese gli ha sempre rubato il nostro tempo, il mio tempo.” Ripensava alla differenza tra se stesso e Liam, il maggiore era cresciuto nell’unità, nelle attenzioni e nel buon senso, ascoltato e autonomo, con grandi progetti per il solo cognome che portava, era l’orgoglio e la fierezza della famiglia, “Liam una volta mi regalò dei vinili, sapendo che li avrei ascoltati di nascosto, quando a casa non c’era nessuno, è sempre stato in grado di vedere oltre, di spiegare lati di me stesso che nemmeno io avevo mai capito.” Sbuffò stropicciandosi l’occhio, Louis volle credere che fosse semplicemente stanco, che gli occhi lucidi fossero dovuti al sonno, solo per un momento si accigliò, indeciso su come comportarsi avanti alla debolezza del più piccolo, che mai gli era sembrato così indifeso, e mai si era sentito così impotente nei suoi confronti; i due erano seduti per terra, con le gambe incrociate, Louis si alzò facendo pressione sulle proprie ginocchia, una volta in piedi tese una mano ad Harry, “vieni, andiamo.” Lo sguardo del più piccolo era incorniciato dalle ciglia incurvate, ancora irrequieto, accettò la sua offerta e prese la sua mano, scrutò il più grande, i colori caldi del suo viso, i capelli spettinati, l’aria assonnata ma con un sorriso contagioso, il più piccolo si rifugiò tra le sue braccia e gli rimase stretto per dei minuti che sembrarono anni, solo quando riuscirono a separarsi Harry notò l’immensa fatica che Louis aveva fatto nello stare sulle punte per tutto quel tempo, si guardarono negli occhi e risero. “51779, riattiva l’allarme.”
I due si allontanarono, chiudendosi alle spalle una porta che li collegava al passato, ai loro segreti, a quello che condividevano senza neanche parlarsi.
Nonostante la stanchezza che gli chiudeva gli occhi, mise in moto la macchina e si diressero a casa. La radio non era accesa, ma Louis continuava a tamburellare le dita sul volante, seguendo un ritmo nascosto nella sua mente.
“Perché non compri quella cassetta?” la curiosità del più piccolo si fece strada tra il silenzio che li divideva.
“Quella con le cover? È inutile comprarla, tornerei sempre lì ad ascoltarla.” Perché quell’odore vissuto, le storie degli sconosciuti, le vite degli altri, lo distraevano dai propri problemi, e lo avrebbero sempre riportato in quel negozio.
“Perché?”
Decise di mentire, di lasciar vincere il suo sarcasmo, “dubito che l’impianto Hi-Fi in salone possa leggere una cassetta mista creata probabilmente 20 anni fa.”
Harry sorrise e scosse la testa, incredulo, incapace di capire come quel ragazzo facesse a vedere sempre le cose dal lato più insolito.
 
Erano ventiquattro ore che ripensava al pacchetto incartato che aveva intravisto sul tavolo della cucina, ma non aveva il coraggio di aprirlo, non aveva nemmeno il coraggio di guardarlo, né quantomeno toccarlo, sapeva solo che sulla superficie, con un pennarello nero e in una grafia che aveva imparato a conoscere bene, c’era scritto: zitto e ascolta, buon compleanno, H.
Ventun’anni passati a ricostruire se stesso, a rimettere insieme i pezzi, e si ritrovava distrutto da un ragazzino troppo allegro, di quelli che sorridono quando piangono, che fino all’ultimo negano di essere distrutti dentro, era un disastro e aveva accettato le sue condizioni, si guardava allo specchio e alzava le spalle, tanto peggio di ieri non potrà essere, se lo ripeteva ogni giorno.
Svogliato, intorpidito, Louis, si strinse nella camicia in plaid, deciso ad affrontare qualunque cosa fosse nascosta da quella carta rossa, indeciso sul significato della frase zitto e ascolta, lasciò il divano per dirigersi verso la cucina, quasi spaventato, restio, incerto. Fece attenzione a non strappare la carta, aveva sufficientemente distrutto se stesso nelle ultime due settimane, non gli restavano che le piccole cose, e non avrebbe distrutto anche quelle.
Si trovò tra le mani un cd, chiaramente misto, sulla superficie c’erano poche parole scritte con la stessa grafia incerta e familiare ai suoi occhi: per ogni volta in cui vorrai fuggire e non potrai.
Tornò sul divano, vuoto, esausto, chiuse gli occhi mentre le prime note di Hallelujah, insolitamente cantata da Leonard Cohen, riempivano la stanza.
 
Harry guardò il suo riflesso nello specchio, stanco, non motivato, si vedeva sempre più grande e si sentiva sempre più piccolo, vedeva un ragazzino tutt’altro che disincantato, era angosciato, alienato, aveva ottenuto una sola certezza nell’ultimo periodo: se gli venissero poste due scelte giuste, sarebbe ancora in grado di fare la scelta sbagliata, l’avrebbe creata lui stesso la scelta sbagliata, sarebbe stato lui stesso la scelta sbagliata.
Si sentiva stretto nel completo che portava, il colletto della camicia gli dava la sensazione di non avere abbastanza aria, quelli non erano i suoi soliti capelli, le vene sulle mani erano più marcate, gli occhi stanchi, e poteva giurare di aver dimenticato di avere delle fossette. Erano passati più di quindici minuti e ancora non era riuscito ad annodare la cravatta, gli sudavano le mani, sbuffava, era irrequieto; tirò un respiro profondo solo quando sentì la mano di Liam sulla sua spalla, affondò il viso tra le mani e si lasciò andare. Suo fratello era abituato a scene come quella, fin troppe volte gli aveva asciugato le lacrime, e lo lasciò fare, non parlò, poggiò il mento sulla sua testa e un braccio attorno le sue spalle, “non bagnarmi la giacca..” sussurrò Liam.
Harry si passò il dorso della mano sulla guancia e rise, “non potrei mai.” Guardò suo fratello così come aveva fatto altre centinaia di volte, con gli occhi arrossati e il respiro che tremava.
“Faccio io.” Liam sistemò la cravatta nera sotto il colletto della camicia bianca del più piccolo. “Perfetto, sorridi.” Gli passò un fazzoletto e sistemò la giacca affinché cadesse bene sulle spalle. “Abbiamo superato cose peggiori che una delle solite cene con i colleghi di papà.” Liam gli fece un occhiolino, “armati del miglior sorriso, fingi per qualche ora e fregali tutti.” Lo guardò aspettando una risposta, “..e sii educato.”
Harry rise ancora, “io sono sempre educato!”
“E non bere.”
“Va’ via, nessuno vuole i tuoi consigli, grazie mille per il tuo utile contributo!” tentò di cacciarlo dalla stanza, ma le risate gli fecero perdere forza nelle braccia e finì ad essere trascinato al piano inferiore da Liam; i due ancora ridevano quando una platea di circa quindici uomini d’affari, con un’età media di settant’anni, li fissava con aria perplessa. Entrambi i fratelli potevano leggere nei loro occhi il tipico giudizio: gli Styles si fanno sempre riconoscere. Ogni vigilia di Natale erano costretti a condividerla con la gioventù appartenente al lavoro del padre, nel corso degli anni avevano inventato un gran numero di soprannomi per quel plebiscito di assidui lavoratori: il circolo dei bigotti, la lega della gioventù, settant’anni e non sentirli. Ogni anno tornavano tredicenni, giocavano con il cibo, correvano per i corridoi, poco importava che indossassero completi costosi o che inciampassero per le scale, dimenticavano sempre tutto il resto e tornavano indietro di qualche anno.
Ci pensava ogni tanto, alla mattina in cui era andato via, a quando gli aveva baciato la guancia mentre ancora dormiva e non l’avrebbe visto svegliarsi, ai capelli castani che gli accarezzavano la nuca, alle sue mani e al modo in cui rideva, ci pensava spesso, e se lo teneva dentro, si teneva per sé tutti i momenti che amava tenere segreti, tutte le volte in cui gli aveva tenuto la mano o gli aveva sfiorato un braccio, l’odore del suo shampoo e il suo profumo, si teneva tutto dentro perché era lì che voleva che restasse, in un posto sicuro, ovattato, costruito da loro.
Si voltò a guardare Liam, impegnato in una discussione di economia domestica con uno della lega della gioventù, gli sorrise, incapace di respingerlo.









*angolo dello squilibrio mentale,
la regina dell'angst che è in me si è fatta sentire, HELLOOOO, dopo l'esibizione di little things al 1DDay volevo pugnalarmi e ho deciso di sfogare con questo simpaticissimo capitolo.

Lasciatemi dire un po' di cose, allora ogni giorno della mia vita rimpiango di aver iniziato questa maledetta long in terza persona, davvero, mi viene da prendermi a testate nel muro.

Fact: il titolo del capitolo you can run away with me anytime you want viene dalla canzone dei my chemical romance summertime [che se non avete mai ascoltato, dovete ascoltare immediatamente.] e fa riferimento alla frase che Harry scrive sul cd "per ogni volta in cui vorrai fuggire e non potrai
Fact: 51779 è il T9 per larry, lo so, sono penosa, ma che ci vogliamo fare.

Lo so che questo capitolo non va a parare da nessuna parte, anche io mi sto chiedendo PERCHE' HARRY E' TORNATO A CASA? 
beh, appena ho un'ora di filosofia in cui posso cazzeggiare sappiate che plotterò la risposta.

Lo stesso discorso vale per "che minchia di fine ha fatto la crackship gemma/liam?" 

la verità è che nella mia mente è tutto molto confuso, e necessito di tempo per mettere in ordine le idee, detto ciò, come al solito vi ho fatto uno sproloquio immenso.

E infine, dedico questo capitolo a Irene <3

Vi lascio i miei soliti twitter e tumblr

much love,
chris-
 
  
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