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Autore: SofiaAmundsen    08/12/2013    1 recensioni
Sta per suicidarsi, ma prima, ha qualcosa da dire a sua madre. E così le scrive una lettera. Una lettera che è una vita intera.
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cara mamma,
 
anche se ora non hanno più senso, anche se ora non importa se non avranno mai risposta, le domande che mi faccio rimangono le stesse. Le stesse domande, la stessa ragazza, lo stesso dolore: solo un posto diverso, il vento e il tempo che mi urlano contro e il vuoto che mi chiama a sé.
 
Mi chiedo come avrei potuto fare, ad amare davvero, con tutto il male che mi è stato fatto. Hai sempre pensato che io fossi una persona fredda, tutte le volte che mi hai urlato contro di non avere un cuore o che dovevo avere una malattia, perché le persone normali si lasciano commuovere, perché le persone normali si innamorano a quindici, sedici, diciassette anni. Perché le persone normali hanno degli  amici che vogliono loro bene e che non le abbandonano con la nuova stagione, come un cappotto vecchio. Perché le persone normali si lasciano toccare e non indietreggiano ogni volta che qualcuno prova a dimostrare loro affetto.
 
Io invece sono sempre stata diversa e tu questo non lo hai mai accettato, perché avresti voluto avere una figlia con un bel fidanzato, magari ricco, magari uno studente modello, di cui vantarti con le amiche, o una figlia che ha delle amiche con cui andare al cinema, quando tu non hai voglia di vederla. Quello che non capisci, però, è che io avrei potuto andare contro il mondo intero, ma non ce l’avrei mai fatta ad amare davvero.
 
Penso a tutte le volte che tuo marito mi ha spezzato il cuore, a come ha preso i miei sentimenti e ci ha giocato, li ha masticati e li ha sputati per terra, lentamente, guardando il dolore nei miei occhi, guardando una bambina che non voleva piangere ma a cui sfuggivano sempre lacrime senza singhiozzi. Ho imparato a non affezionarmi a niente, perché ogni volta che ho tenuto a qualcosa voi l’avete presa e l’avete distrutta davanti ai miei occhi. Tutte le piccole cose. Tutte. Quelle che fanno felici le bambine, che le fanno sorridere e fanno sorridere anche chi le guarda per la loro spensieratezza. Tutte. Ogni volta una piccola parte del mio cuore diventava nera, come carbone, si cicatrizzava nel suo dolore e io la sentivo tremare e  crepare su sé stessa, assumendo una forma orribile e porosa che sarebbe rimasta per sempre, memore di quella piccola perdita. Con gli anni, le parti ancora morbide del mio cuore sono finite e io ho smesso di amare, lasciandovi liberi di distruggere il mio mondo, tanto non mi importava più.
 
Un’altra cosa he non hai mai capito, mamma, è perché avevo paura delle persone. Paura. Paura ogni volta che qualcuno mi diceva di volermi bene.
 
Perché voi, quando ero piccola, mi dicevate di volermi bene.
 
Subito dopo, mi distruggevate in pezzi così piccoli che facevo fatica a ritrovare me stessa, in mezzo a tutte quelle lacrime e quel dolore. E io ero così spaventata. Non riesci neanche a capire quanto davvero lo fossi, perché solo i bambini riescono ad avere paura in quel modo. Il terrore dei piccoli non ha confini come quello degli adulti, non si estende fino alle possibilità di pericolo, ma diventa tutto, come se il nero di un sospetto assorbisse la realtà ed ogni più piccolo dettaglio fosse un canale sul quale potrebbe viaggiare la minaccia che attenta al tuo sorriso.
 
Io non riuscivo mai a sorridere davvero, avevo troppa paura per farlo. Paura che sarebbe arrivato uno schiaffo su quel sorriso, paura di dovermici nascondere in quel sorriso. Paura che se mi aveste visto felice avreste cercato di ucciderlo, quel sorriso.

Avevo paura di lui.
 
Poi è stato tutto un gioco psicologico così ovvio che avrei dovuto aspettarmelo. Una bambina che ha ricevuto solo male dal mondo, cosa può aspettarsi da questo? Cosa può diventare, se non un’adolescente che del mondo non vuole sapere nulla?
Così ho lasciato fuori gli altri e mi sono chiusa in mura di mattoni e cicatrici. Perché mi hai insegnato ad avere paura di tutto: se i tuoi genitori, che dovrebbero amarti e difenderti, sono il tuo mostro nell’armadio, allora cosa devi aspettarti dagli estranei? O forse, semplicemente, non c’era più niente da dare, forse un cuore non ce l’avevo più da tempo, frantumato e malridotto com’era, quindi non potevo darlo a chi l’avrebbe voluto.
 
Ancora adesso, che sto per morire e ne sono felice, sono terrorizzata che qualcuno mi dica ti voglio bene, che si avvicini a me, che mi sfiori, perché in me c’è sempre la bambina che si copre il viso con le mani, ogni volta che sente questa frase.
 
 
Se ci penso, mi rendo di quanto sia terribile. Le parole che avrebbero dovuto salvarmi, mi hanno distrutta. C’è dell’odio in quelle parole e io lo sentivo, perché vibrava tra le sillabe ed era pronunciato molto più delle altre lettere, solo che non tutti sapevano ascoltare.
 
Ora che ho un po’ meno paura posso dirti quello che ho sempre pensato: non è vero. Non è vero, mamma, non mi hai mai voluto bene, non hai mai sentito il bisogno di tenermi tra le tue braccia per farmi sentire un calore che, ora lo capisco, non c’è mai stato. Non hai mai desiderato vedermi crescere e ricordarmi ogni giorno, con tanti piccoli gesti, che ci saresti sempre stata con me. Non hai mai voluto tenermi al sicuro: dagli altri, dalla televisione, dalle sue mani.
 
Non mi hai mai voluto bene, mamma, e lo so che ci vuole coraggio per ammetterlo, per questo non l’hai mai fatto. Come si può ammettere di essere contro natura? Come si può ammettere di mancare nel compito più grande che la società e la vita ti hanno dato? Come si può ammettere di essere così diversi dal resto del mondo? Come si può ammettere di non amare una figlia?
 
Eppure era così. Tu non sei mai riuscita ad amarmi, forse non ci hai provato, forse non ne sei stata capace.
Ti lascio il beneficio del dubbio – te lo lascio per l’eternità – perché ora che guardo le cose da una prospettiva diversa, quasi esterna, quasi indifferente, come se fossi già morta, riesco a veder e il tuo inciampare nel modo goffo e gelido che avevi di rapportarti con me. Riesco ad essere abbastanza forte da asciugarmi le lacrime e dire “forse ci ha provato, ma io non me ne sono mai accorta.” Mi sto illudendo?
 
Ci provo a pensarlo, perché magari in mezzo a tutta quella violenza tu avresti voluto essere davvero una mamma. Magari, hai desiderato davvero abbracciarmi quando ne avevo bisogno o salutarmi con un sorriso quando tornavo a casa. Ma magari, anche tu, come me, non ce l’hai fatto.
 
 
Non pensare che io, scrivendo questa lettera, abbia dimenticato quanto anche tua sia una vittima. Lo so, mamma, lo so che hai sofferto quasi quanto ho sofferto io, forse di più, forse di meno. Lo so che quelle mani sono state anche sul tuo corpo e hanno lasciato tanti segni. Lo so, perché c’ero. L’ho visto picchiarti, prenderti a calci, sputarti sul viso ammostato, tirarti i capelli, chiamarti puttana e lurida parassita, trattarti come una schiava. L’ho visto importi di non amarmi mai, di non rendermi mai felice. E come avresti potuto, anche se avessi voluto, riuscire ad amarmi? Per spirito di sopravvivenza, mi avresti comunque lasciato perire sotto il peso di tutta quella follia.
 
 
 
La domanda allora rimane aperta, come una ferita. Hai davvero tanto tempo per cercare di trovarle una risposta, peccato che io non sarò lì ad ascoltarla. Chiediti se io sarei riuscita ad amare, se non avessi scelto di morire. Prima, però, chiediti se tu sei mai riuscita ad amare, me.
 
 
   
 
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