capitolo
uno – giorno uno (prima parte).
“Solo quando pensiamo di aver capito come
vanno le cose
l'universo ci lancia una
palla curva, quindi dobbiamo improvvisare.
Troviamo la felicità in
posti inaspettati,
troviamo la via del
ritorno per le cose che contano di più.
L'universo è divertente
in questo senso; a volte è solo uno il modo per farci finire esattamente nel
luogo dove apparteniamo.”
A
Kariya gli ospedali non sono mai piaciuti; tutto quel bianco, l’odore acre di disinfettante,
i volti spenti delle persone in sala di attesa -che sembrano più morte loro dei veri pazienti, e gli sguardi duri e
frettolosi dei dottori, lo disgustano. E quell’intruglio che le macchinette
spacciano per caffè, oh, quello è davvero nauseante, anche più del colore delle
pareti.
Il
bianco è simbolo di purezza, o almeno così dicono, ma Masaki riesce solo a
pensare che a lui, tutto quel candore, fa prudere le mani perché, riflettendoci,
rappresenta la morte, anche più del nero; d’altronde qui la gente muore ogni
giorno.
La
donna responsabile di attendere le persone sta parlando al telefono, una certa
Miyo è dall’altra parte della linea, a quanto ne capisce il ragazzo, e sono
dieci minuti buoni che soffoca ridolini e svariati “Mio dio, ti rendi conto?”
Masaki è
in piedi di fronte a lei, una vetrata li separa, che si morde l’interno
guancia, indeciso sul da farsi e visibilmente irritato.
-Io..
mi scusi, io ho intenzione di uccidermi- afferma, interrompendo un “Sssh, ti ho detto che non è successo niente!”
La donna
alza lo sguardo, sembra leggermente sbuffare, “Aspetta” dice all’amica e con un “Compila questo e poi vai fino in fondo al corridoio, ultima porta a
destra” lascia ad intendere che la conversazione con lui è finita.
Kariya
prende il foglio e “Smettila, non essere
noiosa!” si lascia alle spalle.
Il bambino
seduto davanti a lui non la smette di fargli smorfie, mostrandogli il dito
medio, nonostante i vari richiami della madre, ma prenderlo a calci non è una
buona idea si dice il ragazzo, così si limita a cercare di ignorarlo.
La sala
di aspetto è quasi del tutto vuota; forse perché sono le cinque di mattina di domenica
e nessuno sano di mente, a meno che non sia un’urgenza, andrebbe all’ospedale a
quest’ora.
È seduto
svogliatamente con la testa tirata all’indietro e gli occhi chiusi, stanco, non
ha dormito molto -ma d’altronde quand’è che dorme più di tre ore di fila lui?
Distratto,
non si accorge nemmeno dell’uomo che gli si è seduto vicino con un caffè in
mano e degli occhiali da vista nell’altra; si gira solo quando sente uno strano
borbottio, “Come va?”
Masaki
lo osserva: un uomo alto, dal viso di un pallore inquietante e quasi anormale,
visibilmente stanco, un filo di barba gli accarezza le guance, i capelli rossi fuoco
scompigliati, ma sono gli occhi a colpirlo di più, di un acquamarina intenso e
forse un po’ malinconico. Non più di trentacinque anni, pensa e non risponde.
-Ce l’hai
una sigaretta?- ora che la sente meglio, la sua voce è profonda e calma.
-No.
-Cos’hai
che non va?
-È che
non fumo, ecco.- sputa Kariya, guardandolo con acidità.
-Intendevo perché sei qui, al pronto soccorso,
di domenica mattina.
Con la
voce ancora calma, incurante del malumore del ragazzo, punta i suoi occhi su di
lui, costringendolo ad abbassare il capo e a guardarsi le scarpe.
-È difficile
da spiegare, ho avuto dei problemi… c’è una ragazza- sospira, sentendo un “Oh, capito” - e la scuola estiva… mio
padre…-
-Perché
mai dovresti studiare d’estate? No no, dovresti andare in spiaggia a
rimorchiare le ragazze.- ammicca il rosso, facendo un sorriso che il ragazzo
definisce un misto tra l’inquietante e lo stupido tentativo di sembrare sexy.
-Sei
sicuro di essere un dottore?- chiede il grigio, alludendo al camice bianco che
l’uomo sta indossando -e che è macchiato di caffè.
-Tu
cosa credi?
-Di no.
-Oh.
C’è
silenzio ora, lo sguardo puntato in avanti, si accorge che il bambino odioso di
prima non c’è più, e sente il rosso muoversi leggermente sulla sedia.
Sospira.
-Ti
piace “Dottor House”?
Strabuzza
gli occhi; che è strano, Masaki l’ha capito dal primo momento in cui l’ha visto,
ma non pensava potesse essere così stupido. Decisamente
quello non era un dottore.
-Beh,
spero che possano risolverlo, qualunque sia il tuo problema.
Una pacca
leggera sulla spalla, un sorriso sghembo, e i suoi occhi gli rivolgono uno
sguardo veloce prima che abbandoni la sala.
-Bene
Kariya, da quanto tempo hai questi impulsi suicidi?
-Non lo
so, ci avevo già pensato altre volte ma mai in modo così reale.
-Qualcosa
in particolare ti ha convinto?
Il ragazzo
fissa il dottore, dubbioso; gli piacerebbe da morire avere una risposta pronta
per tutto, tipo che i suoi genitori lo picchiano, che qualcuno abusa di lui… la
verità, però, è che i suoi problemi sono ben altri: è stato un insieme di cose
a spingerlo a buttarsi giù da un ponte, principalmente lo stress e il sentirsi
totalmente inadeguato agli occhi altrui.
-Ehm
no, nulla di insolito. Prendevo delle medicine, ma non mi aiutavano così ho
smesso.
L’uomo
fa una smorfia, contrariato, e “Ascoltami
Kariya, non sembri un pericolo per te stesso, quindi ora chiamo i tuoi genitori
e poi ti manderò in uno dei nostri servizi come paziente esterno.”
-Ma no,
dottore, non capisce! Mi ascolti lei, io ho bisogno di aiuto adesso.
-Lo so
che sei spaventato, ma le persone che ricoveriamo qui sono gravemente malate-
gli spiega, gesticolando.
Tutto quel
movimento delle mani lo confonde per un secondo, scuote leggermente la testa, e
sospira.
-Forse
lei non ha capito quanto sia seria la mia situazione, mi dia qualcosa, mi
aiuti. È come se tutto intorno a me si muovesse velocemente, mentre io rimango
immobile; tutti sono in grado di gestire la propria vita, mentre io… io no.-
respira, osservando il medico davanti a lui -Non posso tornare là fuori, potrei
fare qualcosa. Ho bisogno che lei mi aiuti, la prego.
Il dottore
esita, riflette, e dopo dieci secondi la cartella clinica di Masaki dichiara
che da oggi sarà ricoverato all’ospedale di Inazuma-Cho, come paziente affetto
da depressione.
L’ascensore
si apre e il tizio che lo accompagna gli fa strada, guidandolo con cenni del
capo e indicandogli la direzione.
È un
ragazzo giovane, sulla ventina probabilmente, magro, la carnagione scura e i
capelli di un grigio-azzurrino; ha tanti lividi sulle mani, Masaki lo ha notato
quando ha premuto il pulsante dell’ascensore.
Non ha parlato, neanche una volta; forse è
straniero.
La porta
si chiude dietro di loro quando una donna, ancora abbastanza giovane, dai
capelli verdi e il sorriso gentile gli dà il benvenuto: si chiama Aki e, a
quanto ha capito, è colei che amministra il 3Nord.
-Cos’è
il 3Nord?
-È il
reparto psichiatrico per adulti.
-Ma io
ho solo sedici anni.
-Il
reparto per giovani è in fase di ristrutturazione, quindi gli adolescenti
stanno con gli adulti, ma, stai tranquillo, ti assicuro che non sarà un
problema.
E sorride
ancora, facendo ondeggiare i capelli sulle spalle esili, e gli dice che per
qualsiasi cosa può andare nel suo ufficio a parlargliene.
-Quindi,
caro, per il tempo che rimarrai con noi dovrai seguire il programma- fruga nei
cassetti e porge il documento al ragazzo -ora chiamerò i tuoi genitori perché ti
portino un cambio e tutto il necessario.
-Perché?
Insomma non credo ce ne sia il bisogno, non resterò qui per molto, domani ho
scuola.- afferma Kariya, visibilmente confuso, facendo sorridere la donna che “Di questo dovrai parlarne con la dottoressa
Raimon” e si scambia uno sguardo di intesa con il muto.
Kariya
vaga per i corridoio del reparto con il ragazzo dell’ascensore, sente gli
sguardi di tutti, infermiere e pazienti, su di sé e ha voglia di correre via.
Le persone
qui sono strane, pensa; è in un reparto psichiatrico, lo sa bene, ma non si
sarebbe mai aspettato di vedere certe cose, tipo gente che si mangia i capelli,
che si porta dietro cuscini, o piange ogni due parole per poi ridere
istericamente.
In un
certo senso, ora ha paura.
-Oh, tu
devi essere quello nuovo… uhm, Masaki Kariya, dico bene?
Una donna
dai lunghi e brillanti capelli color rame, e occhi del medesimo colore, tiene
in mano una cartellina blu scuro, mentre sorride curiosa.
-Sì.-
borbotta imbarazzato; è molto bella.
-Sei di
poche parole, a quanto pare- trattiene una risata -Sono la dottoressa Natsumi
Raimon, la tua psicologa. Perché non vai a fare un giro con Hiroto, così ti
ambienti un po’, e noi parliamo dopo.
Solo ora
Masaki nota che dietro alla figura della donna, c’è un uomo appoggiato
distrattamente su un bancone, che lo guarda fisso.
E il ragazzo
non ci capisce più nulla; va bene che non ha mai avuto una buona memoria in
fatto di volti, ma quello sembra proprio l’uomo della sala d’attesa, gli stessi
capelli, occhi e sorriso, solo che non ha il camice.
-Allora
tu sei un paziente?
-Non mi
piace il termine ‘paziente’, mi considero più un ospite.
Il
grigio è incredulo, anche se un po’ era da aspettarselo che uno così fosse
ricoverato al 3Nord. Però lui, nonostante tutto, non sembra pericoloso, solo rincoglionito ed eccentrico.
-Cosa ci
facevi quindi al pronto soccorso?
-Al
pronto soccorso c’è un ottimo caffè.
-E ti
lasciano uscire così, intendo senza dirti nulla?
L’uomo
lo guarda, rifà quel sorriso sghembo, quello che fa rabbrividire il sedicenne,
per poi mormorare un “Oh, affatto.”
Hiroto Kiyama,
ha scoperto che si chiama così -o meglio, così si è presentato il rosso, gli
mostra la sala comune, dove tutti si riuniscono durante le pause stabilite dal
programma, munita di bigliardino e tavolo da ping pong -“Non è solo uno sport, qui è la dimostrazione della legge del più forte,
ragazzino!”, tv satellitare e sei divani e non è riuscito a contare quante
poltrone, poi la doccia -“Dato che non
funziona, devi spostare la leva su ‘in uso’, capito? Entrano tutti comunque
mentre ti lavi le palle, stai tranquillo però, ci farai l’abitudine”-, i
vari telefoni con cui si può chiamare e i laboratori, artistici e non, ideati
per distrare i pazienti.
In quello
di arte, Masaki può vederla attraverso la vetrata, c’è una ragazza che disegna:
è sola, concentrata, le sopracciglia lievemente aggrottate, i capelli lilla
raccolti in due trecce morbide, e il viso scarno; probabilmente si sarà sentita
osservata, ma non ha alzato lo sguardo dal foglio una sola volta.
-Chi è
quella?- chiede il ragazzo, forse con un po’ troppa enfasi dato che Hiroto ha
rifatto quel sorriso.
Il rosso
non risponde, dice solo “Andiamo a vedere
se Asuka ti ha trovato la stanza, forza.”
nda:
heeeeeeello
everybody!
ecco il
secondo capitolo della mia bellissima long -puuuuuuuuuuff ahahaha
vi
avverto che la struttura di questa ff sarà sempre la stessa: ad ogni due
capitoli corrisponderà un giorno. questo capitolo dunque rappresenta la prima
parte del giorno uno, che si concluderà nel prossimo capitolo.
i giorni
in totale dovrebbero essere cinque -al massimo sei, non di più.
ovviamente
non si conta l’epilogo, che rappresenta un capitolo a parte così come il
prologo c’:
qui
finalmente entrano in scena altri personaggi, tra cui hiroto che io amoamoamo
tantissimo in questa ff xhsadghf
lui sarà
un personaggio di grande rilievo e, mano a mano che si procederà con la storia,
capirete meglio il suo carattere.
poi ci
sono aki e domon, di minor importanza, ma hanno pur sempre un ruolo preciso. per
quanto riguarda la storia dei pazienti, di quelli più importanti, la scoprirete
nei prossimi capitoli, don’t worry.
e
natsumi, anche lei la amo, in questa ff non farà la parte della stronza
insensibile ma, anzi, è una donna che ama il suo lavoro, si affeziona ai
pazienti e si impegna ad aiutarli.
infine c’è
la ragazza nell’aula di arte che credo si sia capito benissimo chi è ahahah
nei
prossimi capitoli introdurrò altri psicopatici, quindi stay tuned (?)
spero
che il capitolo vi sia piaciuto, e grazie mille per le recensioni precedenti e
tutto<33
un
bacione,
simo.