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Autore: Infected Heart    14/12/2013    2 recensioni
Un circo, misteri sotto i suoi tendoni, e nel cuore della sua equilibrista. "Vendo fantasia. Vendo l’allegria. In equilibrio sopra i vostri occhi. Gioco e vado via. Tutti -Mamma mia!- Vivo sopra un battito di mani. Dove mi porterà la vita? Prometti e poi dimentica. Che questa strada è infinita. Ma è questa la mia vita. Giro, vivo. In equilibrio su un filo. Leggera come un coriandolo. Sopra i tuoi occhi che danzano. E amami adesso. Perchè all'alba ripartirò. E andrò." ("In Equilibrio", Ilaria Porceddu)
Genere: Drammatico, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Un caldo soffocante, e un naso rosso. Un sorriso ingiallito riempiva la mia visuale, inchiodandomi dal terrore. Ghignava, malefico, come se stesse guardando a fondo, e si stesse beffando di ogni mia nascosta paura. La lucidità data dall’adrenalina più oscura, mi fece man mano distinguere il volto allungato, ispessito dal cerone. Rideva, questo volto. Rideva, rideva, rideva. E io ero sempre più paralizzata. Avrei voluto urlare, la gola mi bruciava di tutta la tensione, ma non usciva alcun suono.  Inconsciamente strinsi una mano a pugno, e mi accorsi, subito dopo, che questa stringeva un lembo di lenzuolo. La mia pelle lo percepiva,  stranamente ruvido, e unico appiglio a quella realtà che sembrava così lontana. Di riflesso, il palmo di una mano mi colpì la fronte, forte, e battei su qualcosa che identificai come la testiera del letto. Caddi all’indietro, e mi ritrovai sospesa, su un filo sottile. Sottilissimo. Il più fine su cui avessi mai esercitato la mia arte. Ma almeno era scomparsa quella presenza misteriosa. L’incubo di ogni mio sogno da bambina. Mi concentrai, e guardai avanti, fissa.  Chissà come ero finita quassù. Ma almeno non c’era più traccia della presenza misteriosa di poco prima. Spalancai gli occhi quando realizzai che non vedevo la fine della corda. Se così si poteva chiamare. Deglutii pesantemente, cercando di rimanere presente a me stessa. Passo, dopo passo, avanzavo sul filo, che si faceva, se possibile, sempre più inconsistente e infinito. L’angoscia cresceva, man mano, e il buio che avvolgeva la fine della linea (se mai ci fosse stato un capo) era sempre più fitto. Il bruciore della gola non se n’era andato, anzi, ora era intensificato dalle lacrime, troppo orgogliose e disperate per voler uscire dagli occhi. Il mio cuore fece un balzo quando vidi una scarpa rossa uscire, molto lentamente dall’oscurità. Se non avessi avuto l’autocontrollo necessario al mestiere, sarei sicuramente caduta. Questo pensiero mi fece automaticamente rivolgere lo sguardo verso il basso, e questa volta fui colta impreparata: barcollai, alla vista del nulla più totale. Nessuna rete. Nessun pavimento. Nessun colore. Niente di niente. Il nulla del nulla. Seppur tremando, riuscii a recuperare un minimo di equilibrio. Di corsa, feci un paio di metri, senza nemmeno accorgermene. Quando riuscii nuovamente a guardare di fronte a me, non potei fare a meno di urlare. Faccia a faccia col clown, che era riuscito a trovarmi, in viaggio da chissà dove. Rimbombavano, nel tutto, la sua risata, e la sua voce. Eppure le sue labbra erano sigillate. Il suo viso a meno di due centimetro dal mio. Il suo timbro, dentro me, faceva vibrare ogni singolo osso del mio corpo. Distorto, acuto e caldamente mellifluo. Assimilabile all’incarnazione del male primordiale. Cominciai ad arretrare e a singhiozzare. Nella mia mente, facevo passi indietro, ma l’illusione apparve chiara, quando abbassai gli occhi e vidi che l’Essere mi aveva attirata a se; un coltello di costrizione alla base della schiena. Bagnato. Più cercavo di opporre resistenza, più affondava nella carne. –Non andare via da me. Sai cosa succede, se lo fai. – Il suo riso, si era plasmato in queste minacce dalla voce di cristallo affilato. Non riuscivo a parlare. Le sue mani, scivolavano dal petto, sempre più su. –Alice.-. Caldo, e sale, che ora si concedeva di scendere sulle guance, copioso e umido. Era troppo. E troppo confuso. I rivoli di pianto aumentavano con l’alternarsi sconnesso di due volti. Interferenze, sempre più frequenti. I riccioli castani, unti e impiastricciati di cerone, si univano, in modo gradualmente più definito, con i tratti di un volto a me un tempo molto conosciuto. Un volto a cui non mi permettevo mai di pensare. Tra me e me, riuscii anche a ridere, sarcastica e amara. Forse era la mia punizione. Ah, ma la aspettavo. L’avevo aspettata per tanto tempo. Ed ecco che ora mi veniva presentato il conto di ciò che avevo consumato. Come se non fosse bastato il rimorso, il senso di colpa, l’amore, e il dolore di ogni singolo istante a ricordarmi che sarei andata all’inferno. Una pugnalata dopo l’altra, tutte le volte che il volto di Caleb appariva a fare da Minosse alla mia anima. La mano del clown, voluttuosa, dal seno aveva raggiunto il mio collo, ed io, distratta dal passato non me ne ero nemmeno accorta. Saggiava le mie vene; la sua stretta  vellutata che pareva piena di passione. Occhi iniettati di sangue, spalancati e vogliosi di pazzia, il volto del mio amore, e la fatale stretta alla mia giugulare.
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Spalancai gli occhi. Non riuscivo a respirare. Il petto madido di sudore freddo, e una sensazione calda alla base della schiena. Strinsi i pugni, in un gesto spontaneo dove convogliare le sensazioni. Provavo a respirare in maniera regolare, ma l’aria passava a fatica, e sembrava tagliare come milioni di spilli. Dovevo calmarmi, ma quell’incubo stava ancora soggiogando ogni fibra del mio essere. Fu quando cercai di mettermi a sedere, che mi accorsi di tremare. Richiusi gli occhi, certa che le immagini, ancora così vivide alla luce del giorno, almeno per ora, sarebbero rimaste lontane dal buio.
Il sogno, ma non il volto di lui. Quello mi era appiccicato addosso, come una colla viscida, di quelle che non puoi staccare se non col dolore. Di scatto, mi alzai e andai in bagno, decisa a lavare via con l’acqua quell’inquietudine attaccata all’anima.
Ma la purezza, quella era una condizione astratta e troppo svenduta, per i miei gusti. E di certo non l’avrei guadagnata di nuovo. Non in questa vita, almeno.
Uscita dal bagno, il mio sguardo finì sul letto. Le lenzuola candide, violate da larghe macchie di sangue sparse su quasi tutta la superficie. Un battito mi sprofondò nel cuore. Istintivamente, mi portai una mano, dove nel sogno c’era stato il pugnale. No. Non poteva essere. Dovevo, volevo fare qualcosa, ma la sensazione del sangue sulle mani, mi paralizzava. Come uno shot, il brivido che il coltello mi aveva dato nella realtà parallela, continuava ora a ripetersi nella mia mente, come pugnalate multiple. Con gli occhi sbarrati, tornai in bagno, e cercai una benda. Allo specchio, quella ferita, sottile e netta, sembrava quasi irreale. Il mio cervello la credeva irreale. Ma, come il pizzicotto per rendersi conto di essere nel mondo dei viventi, il bruciore del disinfettante mi ricordava che questa, invece, non era proprio una fantasia. Per quanto lo volessi. Benda, maschera, respiro. Come se nulla fosse.
 
Si ricominciava la giornata. Distratta, mi recai nel tendone per le esercitazioni, quello adiacente alla mia roulotte.
Sentii i cavalli nitrire giubilanti nel tendone a fianco, segno che avevano appena portato loro da mangiare, nella sezione del circo riservata agli animali.
Andai alla mia postazione, di fianco alla trave, e salutai Nancy, bruna giocoliera dalle mille sfaccettature, e Gabriel, il mio collega trapezista.
“Ehi, Lis, buongiorno! Pronta per provare l’incrocio a mezz’aria…?”
Cercai di sorridergli, in segno di assenso.
“…ok, forse oggi no, eh?”
“Scusa, Gabri, è che ho avuto una nottataccia…magari nel pomeriggio. Un po’ di esercizi alla trave, questa mattina mi daranno una bella svegliata.”
Lo osservai fare il solito stretching da riscaldamento, e sorridermi, benevolo, ma preoccupato. Si scostò il ciuffo castano ribelle dagli occhi.
“Sicura di non avere la febbre? Sei tanto pallida.”
Venne verso di me, e premuroso mi mise la mano dietro la nuca. Le sue labbra sulla mia fronte a testare se fosse calda.
“Non sembra febbre, ma oggi riposa. Ci sono i soliti malanni di stagione in giro, e tra un paio di giorni c’è lo spettacolo. Stay high, baby.”
E con un sorriso e una carezza si congedò. Lui era così: cercava di prendersi cura di tutti, sempre con mille impegni a cui adempiere. Quasi mai per se stesso.
Con fatica, mi misi in piedi sulla trave. Trovata la postura da quercia, solida ed affidabile, iniziai ad avanzare sull’attrezzo. Ad un certo punto, sentii le farfalle allo stomaco, e un cerchio alla testa. La vista iniziava ad essere sfocata. Cercai di scendere, previdente, ma ecco che le mie gambe cedettero per prime. Chiusi gli occhi di riflesso, buttai le mani in avanti, e attesi la caduta, con botta e tonfo annessi e connessi. Ma non avvenne nulla di tutto ciò. Sentivo solo tirare la ferita, e due estremità morbide che mi sorreggevano sotto le gambe e le braccia. Risvegliata dallo spavento della caduta, piano, riaprii gli occhi, fino a lasciarli socchiusi. Quello che vidi mi fece irrigidire come un tronco d’albero. “Tutto bene?” Quel ghigno. Quello stramaledettissimo ghigno. Quel cerone. No. Ora era troppo.
Urlai, liberandomi dalle sue braccia, e scappai dal tendone, come una bambina, sotto gli sguardi esterrefatti dei miei amici circensi.
Urlai. Ero stata bloccata fin troppo a lungo da riuscire a notare un particolare, purtroppo nel mio campo visivo. Un particolare che, secondo l'ordine degli eventi, doveva essere morto circa anno prima. Marchiata a fuoco nella vista, ora c'era una cicatrice. Il calco bianco di un tatuaggio. Una “A” che una volta apparteneva a qualcun altro.

Note Autrice: Hope you like it! :D Spero che si capisca qualcosa, anche perchè la sottoscritta è confuse quanto la protagonista della storia, perciò, chi lo sa cosa potrà venirne fuori? XD Si accettano tutti i commenti, ovviamente critiche costruttive! Grazie di cuore per aver letto! :) 
  
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