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Autore: Acinorev    18/12/2013    13 recensioni
«Hai mai visto i Guinness World Records?» chiese ad un tratto Harry, continuando a fissare il sole splendente sopra le loro teste.
«Cosa c'entra ora?» domandò Zayn spiazzato, guardando l'amico attraverso le lenti scure degli occhiali.
«Hai presente quei pazzi che provano a stare in apnea per un tempo sempre maggiore? Ecco, tu devi fare la stessa cosa», spiegò il riccio, come se fosse un'ovvietà.
Gli occhi di Zayn si spalancarono, mentre iniziava a pensare che Harry si fosse beccato un'insolazione. «Devo provare a battere un record di apnea?»
«No, ovvio che no - rispose l'altro scuotendo la testa. - Loro si allenano per rimanere sott'acqua, un posto dove non c'è la nostra fonte di vita, l'ossigeno. Tu devi fare lo stesso, devi imparare a vivere senza di lei.»
Sequel di "Unexpected", da leggere anche separatamente.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio, Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Unexpected'
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A promise is a promise

Capitolo 29


(Capitolo un pochino più lungo del solito, ma spero di averlo reso interessante :))

 

Vicki.
 
Seduta al tavolo in cucina, tenevo le gambe distese e appoggiate su un bancone e la tazza di thè caldo – lo era ancora? – tra le mani, avvolte dalle maniche un po’ troppo lunghe di un maglione che Brian mi aveva regalato senza regolarsi con la taglia. I pantaloni del pigiama blu scuro lasciavano passare spifferi d’aria sulle mie gambe, che ogni tanto mi facevano rabbrividire, e i capelli erano un ammasso disordinato e assolutamente poco invitante, a causa delle numerose volte in cui – di nuovo – mi ero rigirata nel letto nella vana speranza di riuscire a dormire o, almeno, di smettere di pensare.
Stephanie, appoggiata allo stipite della porta, sbuffò in modo contenuto, tenendo il tempo di una canzone che la radio accesa stava trasmettendo proprio in quel momento. Era sintonizzata su una stazione ben precisa, che io non ascoltavo spesso e che la mia amica non sapeva nemmeno esistesse, e che non avevo intenzione di abbandonare, non prima di aver ascoltato la sua voce: Louis avrebbe dovuto tenere un’intervista da lì a momenti – cosa che il presentatore radiofonico non mancava di ricordare ogni due minuti e con la voce sempre più eccitata. Immediatamente, una morsa allo stomaco mi costrinse a stringere la tazza tra le mani ancora di più in un gesto di riflesso, mentre il pensiero di quegli occhi che non vedevo ormai da quattro giorni tornava a tormentarmi.
Fu Steph ad impedirmi di crollare un’altra volta.
«Tra due giorni parto» disse soltanto, con le leggere occhiaie delle nove della domenica mattina e il labbro inferiore stretto tra i denti. Io corrugai la fronte. «Parti?» ripetei, alzando un sopracciglio.
Lei annuì, prendendo un lungo respiro che sembrò infonderle un po’ più di tranquillità.
«E dove vai?» continuai, colta alla sprovvista. Il pensiero di non poter contare sulla sua presenza, qualunque fosse il motivo, mi agitava, ma non volevo allarmarmi così in fretta, né fare sentire lei in colpa: in fondo, qualche malanno d’amore affliggeva tutti, prima o poi, e che il mio fosse così insopportabile, così come l’assenza di Louis, era solo un caso, una prova in più da superare.
Stephanie aprì la bocca e poi la richiuse, muovendosi lentamente per avvicinarsi al tavolo e appoggiare i gomiti su di esso, protesa in avanti verso di me. «Devo andare da Brian.»
«Da Brian? Ma…»
«È ancora alla base – mi interruppe, abbassando lo sguardo. – Mi aveva detto che sarebbe rimasto lì per due settimane, poi si sarebbe imbarcato. Devo andare da lui e, ti giuro, piuttosto rimango fuori da quella stupida base anche di notte, ma devo vederlo. Non mi muoverò da lì fin quando non accetterà di vedermi.»
Spalancai gli occhi e non cercai nemmeno di nascondere il sorriso spontaneo che mi inarcò le labbra. Non riuscivo a credere alle mie orecchie: possibile che Steph si fosse decisa ad uscire dalla sua paura e a svincolarsi dalla sua incapacità di gestire i propri sentimenti? Che stesse davvero per partire e accamparsi di fronte alla base di mio fratello solo per fargli capire che anche lei lo amava, a modo suo e nonostante i vari errori commessi?
In qualche modo mi ricordava Louis: li accomunavano gli stessi timori, anche se erano provocati da fattori diversi, e i loro comportamenti schivi e contraddittori erano ugualmente irritanti e talvolta incomprensibili. Loro due erano fragili, come non volevano dare a vedere e come in pochi riuscivano a capire.
Quando mi resi conto di essere tornata sull’argomento Louis, chiusi gli occhi e scossi la testa.
«Per favore, di’ qualcosa» mi spronò Steph, assumendo un’espressione supplichevole. Evidentemente quella decisione le costava molto e aveva bisogno di supporto, di forza.
Sorrisi e lei fece lo stesso, anche se in modo più esitante. «Giuro che se ti fa rimanere lì fuori lo uccido» la rassicurai in tono scherzoso, ma più serio di quanto credesse. Brian si era innamorato di Stephanie, la conosceva forse meglio di me e sapeva a cosa andava incontro: era semplicemente arrivato all’esasperazione, a causa di accumuli di errori e menzogne, ma lei si era davvero pentita ed era finalmente riuscita ad ammettere tutto ciò che gli aveva tenuto nascosto, persino i propri sentimenti. Questo non valeva più di tutto? L’amore non aveva il potere di perdonare molte più cose di quante ne potesse sopportare?
Voleva dire che anche io avrei dovuto perdonare Louis?
Vicki, smettila.
«Quindi faccio bene?» chiese Steph, salvandomi di nuovo inconsapevolmente.
Annuii e bevvi un sorso di thè, ormai raffreddatosi. «Sai, credo di conoscere abbastanza bene mio fratello da sapere che probabilmente ti sta aspettando dal momento in cui ha lasciato Londra» esclamai divertita, ripensando al cipiglio frustrato di Brian nel momento della sua partenza e al suo sguardo, che vagava per la strada sperando di posarsi su una Stephanie trafilata e di corsa, pronta a salutarlo e a dirgli che sì, lo amava anche lei.
«Io invece credo che mi odi» borbottò lei, raddrizzando la schiena e sbuffando. Nei suoi occhi verdi e nei suoi modi sempre controllati e calmi, era facile – con un po’ di attenzione in più – seguire la lotta tra le sue paure e la sua reale volontà.
«Oh, smett-»
«Ed ora, il momento tanto atteso! – mi interruppe la voce del presentatore radiofonico, facendomi perdere il respiro. – Louis Tomlinson, membro degli One Direction, si è alzato presto, stamattina, solo per venirci a trovare! Sono convinto ch-»
«Vicki, sei sicura che sia una buona idea? Non credo che ti faccia bene» chiese Stephanie, sovrastando la voce leggermente metallica che riempiva la stanza. Io mi riscossi e la guardai soltanto, pensando che finalmente aveva espresso quel suo dubbio. Non era mai stata una persona invadente, né insistente, e proprio per questo motivo mi lasciava libera di agire secondo ciò che ritenevo più giusto – entro certi limiti, ovviamente. In quel momento, però, aveva fatto uno strappo alla regola.
Non ebbi il tempo di rispondere, perché fui completamente rapita da qualcos’altro. Qualcun altro.
«Eccolo qui, Louis Tomlinson! Benvenuto!» esclamò entusiasta il presentatore di nome Charles.
Trattenni il fiato e chiusi gli occhi.
«Hey Charles, come va?»
«Oh, bene, grazie! Immagino che sia stato spiacevole essere buttato giù dal letto a quest’ora, o sei una persona mattutina?»
No, non lo è. Per niente.
«No, non lo sono per niente. E mi tocca precisare una cosa, detto in confidenza: odio mettere fine alla nostra storia, ma devo ammettere che l’idea di vederti non era allettante come avrebbe dovuto, stamattina. Harry ha quasi dovuto tirarmi una secchiata d’acqua addosso, per farmi svegliare. Le vedi, le occhiaie? Proprio qui.»
«Così mi spezzi il cuore! Pensavo che ti fossi sacrificato per me!»
Illuso. Probabilmente nemmeno ti sopporta.
«Sì, be’, ecco, mi dispiace.»
Di sicuro sta scuotendo la testa con un mezzo sorriso sul volto.
«Ma immagino che sia normale, no? Ormai quasi tutti i fan e non degli One Direction sanno che il tuo cuore è già impegnato!»
Cambia argomento, ti prego.
«E, Louis, lasciatelo dire: è anche una ragazza molto bella. Si chiama Victoria, giusto? Come vanno le cose tra di voi? Sembra una cosa abbastanza seria.»
«Le cose vanno bene, sì. E grazie per il complimento, anche se non te ne concedo altri. Chissà che per la delusione di un mio rifiuto tu non decida di vendicarti provandoci con la mia ragazza.»
«Beccato. Ci ho provato! Ma lasciamo da parte i miei piani di vendetta, e passiamo al nuovo album che state preparando: quando potremo ascoltarlo?»
Smisi di ascoltare in quell’esatto momento. Le dita bianche per quanto forte stavo stringendo la tazza tra le mie mani e la mascella serrata fino a far male. Lo sguardo preoccupato di Stephanie su di me e il mio completamente assente.
Avevo il respiro accelerato e le labbra che tremavano per la rabbia e il dolore.
Quattro giorni. Quattro fottuti giorni di silenzio, di assenza e di lacrime. Io che avevo pianto e mi ero chiesta più di un milione di volte perché fosse successo tutto quello, perché Louis mi avesse tradita e in cosa avessi sbagliato. E lui? Lui, dopo essere sparito e dopo non essersi nemmeno preoccupato di chiedere scusa o di pronunciare un patetico “mi dispiace”, osava presentarsi con un sorriso strafottente in un programma radiofonico, comportandosi come se nella sua vita andasse tutto bene: e ok, era il suo lavoro – doveva farlo -, ma il pacchetto non comprendeva le menzogne. Non comprendeva il mentire davanti a tutta l’Inghilterra e davanti a me, il fingere che tra di noi le cose fossero grandiose e lo scherzare con il suo intervistatore come in un giorno qualunque.
Perché io non ero capace di fare lo stesso? Perché io non riuscivo a fingere? Perché ero costretta a sentirmi un’illusa e una stupida, in attesa di qualcosa in cui avrei dovuto smettere di sperare? Perché sentivo il cuore a pezzi mentre lui era capace di prendersi gioco di tutto e tutti?
La possibilità che per Louis fosse tanto semplice perché di me gli interessava meno di quanto io credessi e sperassi, mi provocò un dolore lancinante al petto.
Mi alzai, sbattendo la tazza nel lavandino e superando Stephanie e le sue domande appena mormorate. Raccolsi la borsa dal divano e cercai le chiavi della macchina.
«Lasciami sola» dissi a denti stretti, prima di uscire di casa.
 
 
Louis.
 
Rubai altri pop-corn dalla busta che Niall teneva in mano e che stava divorando senza pietà, controllando velocemente che non me ne fossero caduti addosso. Ormai era diventata una specie di gara, tra me e il mio amico: rasentavamo il disgustoso, mentre cercavamo di capire chi riuscisse a fare entrare più pop-corn nella propria bocca.
«Che schifo che fate» ci rimbeccò Harry, ridendo e scuotendo la testa. Le mani a cercare l’iPhone per scattare una foto a chissà cosa nella stanza, che nella sua mente aveva di certo un certo fascino, mentre Zayn gli chiedeva su quale social network l’avrebbe pubblicata, quella volta.
Il salotto di Liam era più incasinato del solito e forse lo eravamo anche noi. Io, lo ero di sicuro.
Mancavano pochi minuti a mezzanotte e, dopo aver passato la serata chiusi in studio di registrazione, avevamo deciso di berci una birra in santa pace, lontani dalle urla delle fan e da qualsiasi contatto con il mondo civile che ogni tanto ci stava troppo stretto. Liam aveva offerto la casa, Niall i soldi per comprare da bere e Paul il coraggio di scendere dall’auto per entrare da Tesco e prendere tutto il necessario – ma solo in cambio di una birra.
«Mi viene da vomitare» mugugnò l’irlandese al mio fianco, alzandosi dal divano con una mano a coprirsi la bocca piena e una risata trattenuta, solo per non rimettere tutto sul pavimento.
Cercai di contenere l’ilarità, mentre seguivo Niall con gli occhi, e masticai a fatica la quantità vergognosa di pop-corn che ero riuscito ad infilarmi in bocca. Prima che potessi scoppiare a ridere, Liam rientrò in salotto.
«No, non è qui – esclamò, con il telefono attaccato all’orecchio e un’espressione preoccupata sul volto. – Ora glielo chiedo» disse subito dopo.
Fece qualche passo in avanti, ignorando Harry che si toglieva la maglietta perché “che cazzo, amico, sembra di essere ai tropici, in questa casa”, e puntò il suo sguardo su di me. «Louis, hai sentito Vicki? O l’hai vista?» mi chiese, facendomi spalancare gli occhi.
Il solo suono di quel nome mi impediva di pensare lucidamente e non potevo permettermelo. Strinsi i pugni e scossi la testa, chiedendomi il perché di quella domanda.
Liam annuì e alzò un sopracciglio, passandosi una mano tra i capelli.
«No – disse semplicemente, sospirando. – Sicura?» continuò, come se fosse stato interrotto. Di nuovo mi guardò in un modo che mi stava mandando fuori di testa. Che stava succedendo? E perché mi chiedeva di Vicki?
Stavo per aprire bocca e dare voce a tutti i miei dubbi, ma proprio in quel momento il mio amico salutò chiunque fosse dall’altra parte della cornetta e chiuse la chiamata.
«Allora?» domandai, evidentemente spazientito e irrequieto.
«Era Stephanie, l’amica di Vicki» cominciò Liam.
«Stephanie? Perché Stephanie ha il tuo numero?» si intromise Harry, con un sorriso furbo sul viso.
«Questo ora non è importante – rispose l’altro, tra l’imbarazzato e il divertito. Poi tornò ad assumere una maschera di serietà che non mi piaceva per niente. – Dice che Vicki è sparita. Stamattina è uscita di casa per rimanere da sola, e a quanto pare è colpa tua, ma su questo non si è soffermata più di tanto, anche perché era troppo impegnata ad insultarti. Fatto sta che stasera doveva vedersi con una loro amica, una certa Clarissa, ma non si è fatta viva e non è ancora tornata a casa: non risponde al cellulare. Voleva sapere se tu l’avessi vist-»
«Che diavolo significa che è sparita?» lo interruppi, alzandomi in piedi di scatto. E che diavolo significa che è colpa mia?
Zayn che, dall’altra parte del salotto, mi guardava preoccupato e allo stesso tempo cercava di farmi capire che anche lui non ne sapeva niente. Io che sentivo le mani tremare.
«Louis, sta’ tranquillo. Ha detto di voler rimanere sola, magari-»
«Magari un cazzo, Liam – protestai a denti stretti, mentre sentivo la paranoia invadermi del tutto. Sapevo che probabilmente stavo esagerando, ma era anche possibile che le fosse successo qualcosa. – Sono passate più di dodici ore» continuai, più rivolto a me stesso che a lui, come se stessi valutando la situazione per vagliare tutte le possibilità.
E mentre i miei amici si abbandonavano alle loro ipotesi e rassicurazioni, io tiravo fuori dalla tasca il telefono per chiamarla. Quel maledetto telefono che avrei dovuto prendere in mano molto tempo prima.
 
Non mi era interessato di quante proteste avesse fatto Stephanie, né delle osservazioni di Liam riguardo l’eventuale poca voglia di Vicki di vedere proprio me. Stephanie era finalmente riuscita a parlarle al telefono, ma solo perché la sua amica era rimasta a secco e aveva bisogno di un passaggio a casa, visto che non si era resa conto di essere in riserva, mentre girovaga per Londra senza una vera e propria meta: appena avevamo saputo dove si trovasse, io mi ero precipitato fuori dalla porta, senza preoccuparmi di cambiarmi i jeans neri che iniziavo a non sopportare o la t-shirt grigia sulla quale Niall aveva rovesciato qualche goccia della sua birra. Avevo detto a Liam che ci avrei pensato io, che sarei andato io da Vicki al posto di Stephanie e che spettava a me farlo. Solo a me.
Appena avvistai la sua auto sul ciglio della strada, con le quattro frecce accese e lei che stava appoggiata con la schiena allo sportello del guidatore, accostai bruscamente a qualche metro di distanza. L’auto dietro di me imprecò per la mia manovra improvvisa con il suono prolungato del clacson e, mentre io cercavo di smaltire quelle emozioni troppo forti da sopportare e che in genere non mi facevano mai bene, Vicki si accorse di me. Probabilmente pensò di scappare via, ma era a secco e non aveva altre opzioni se non quella di rimanere lì, con me.
Scesi dall’auto con i pugni chiusi e la mascella serrata, fissando la sua figura buia e rigida, a causa della mia presenza. Aveva i capelli sulla spalla destra e in disordine, un semplice maglione a proteggerla dal freddo dell’una di notte e i pantaloni del pigiama. Mentre mi avvicinavo sempre di più e avevo l’opportunità di studiarle il viso serio e falsamente coraggioso, segnato dagli occhi gonfi e dalle labbra secche, mi chiesi perché l’avessi ridotta in quello stato.
«Ma che cazzo pensavi di fare?» le urlai contro, arrivandole troppo vicino anche per me e sbattendo la mano destra sulla carrozzeria dell’auto. Vicki respirava velocemente, a testa alta e con una sfida negli occhi.
Volevo dirle che in quell’ora mi aveva fatto passare le pene dell’inferno, ma anche prima, fin dall’inizio, e che lei stessa era il mio inferno, ma ero arrabbiato e dovevo liberarmi dalla preoccupazione e dal senso di colpa.
«Come ti viene in mente di sparire per un giorno interno?» continuai,  con gli occhi fissi sul suo viso e la voglia di baciarle le labbra, morderle per dispetto e poi baciarle ancora.
Vicki abbozzò un sorriso di arrendevolezza che mi colpì come uno schiaffo, obbligandomi ad indietreggiare di pochi centimetri. «Ora ti preoccupi per me? – domandò, con la voce bassa che mi era mancata come non sarei mai riuscito a dire. – Dov’è la tua Eleanor? Perché non ti occupi di lei?»
Inspirai profondamente e diedi un altro colpo contro la carrozzeria dell’auto.
«Quando la smetterai di parlare di Eleanor?» sputai a denti stretti, tentando con tutto me stesso di controllarmi.
«E tu quando la smetterai di essere bipolare?!» gridò lei di rimando, stupendomi. Le iridi arrossate perché stava cedendo e perché era di nuovo colpa mia. Era facile carpire ogni briciola di esasperazione che scuoteva il corpo di Vicki: non lo davo mai a vedere, ma ormai la conoscevo a memoria. Sapevo perfettamente come rabbrividisse ad una mia particolare carezza, quali sorrisi fossero di cortesia e quali invece nascondessero qualcosa di più, come si socchiudessero gli occhi per una risata trattenuta e come le tremassero le mani per la rabbia. Sapevo perfettamente come potesse rompersi di fronte a me – come era successo a casa mia, solo quattro giorni prima – e, di conseguenza, sapevo anche che si fosse appena sgretolata un po’ di più, sotto i miei occhi.
«Io non sono bipolare – le assicurai, provando a moderare il tono di voce. – Sei tu ch-»
«Fammi indovinare: sono io che non capisco? – sbottò, interrompendomi e spingendomi con le mani sul petto, in modo da allontanarmi da sé. – È sempre così, non è vero? Sai dire solo questo! Eppure non vedo come io possa aver frainteso qualcosa, dato che hai anche scelto delle ottime parole: di’ un po’, com’è stato scopartela?!»
Quelle parole mi gelarono il sangue nelle vene, proprio come era successo quando erano uscite dalla mia, di bocca. Per un attimo dovetti concentrarmi sul mio respiro, perché avevo paura di reagire in modo sbagliato, come sempre.
«Santo cielo, com’è possibile che tu sia così cieca?!» ribattei, ancora con un tono di voce troppo alto.
Non capivo perché non riuscissi ad ottenere la sua fiducia. Sapevo di non essere perfetto, di aver sbagliato mille e più volte e di meritare meno di quanto Vicki mi avesse mai dato, ma ci stavo provando: per lei, avevo cambiato tutto ciò che più mi rendeva sicuro, buttandomi in qualcosa che mi logorava e di cui allo stesso tempo non potevo fare a meno. Eppure, nonostante tutti gli sforzi, lei sembrava soffermarsi solo sui miei errori: innumerevoli, sì, ma sempre accompagnati da motivazioni e sforzi per rimediare, da sacrifici per me più impegnativi di quanto si pensasse. Perché Vicki doveva continuare a mettermi in dubbio in quel modo? Perché, al posto di puntare subito il dito contro di me, non aveva pensato a quanto rancore Eleanor potesse avere nei suoi confronti e a quanto desiderasse fargliela pagare?
Perché tutto quello che avevo fatto non era stato abbastanza, di nuovo?
«Cieca?! Io sarei cieca?! L’hai detto tu, che te la sei scopata! Sono venuta da te e mi hai confermato di essertela scopata!»
La prima lacrima le solcò il viso e io dovetti trattenermi dall’urlare a pieni polmoni. Tutto di me sembrava essere un macchinario perfetto per farle del male.
«Smettila di ripeterlo!» le ordinai. Cosa aspettavo a dirle che non era vero? Che io, Eleanor, non l’avevo sfiorata nemmeno con un dito? Che non avrei potuto farlo neanche volendo, perché Vicki era come una persecuzione in ogni respiro che compivo e in ogni minuto che passava? Che era stupida a pensare che avrei anche solo potuto toccare qualcun altro, dopo tutto quello che avevo cercato di fare per lei?
Forse dovevo solo riuscire a gestire le numerose e contrastanti emozioni che mi stavano divorando, prima di poter effettivamente dire qualcosa a riguardo. Alla fine era sempre stato quello, il mio problema: dare la precedenza all’impulsività, alla più piccola goccia di dolore che qualcuno mi procurava, al nervosismo e sì, anche alla paura.
«Perché dovrei? Ti senti in colpa, per caso? Eppure non mi sembra che tu te la sia passata tanto male, o sbaglio? In fondo in questi quattro giorni non ti sei nemmeno degnato di farti vivo, di parlarmi o anche solo di sbattermi in faccia la verità per la seconda volta! Anzi, sei riuscito anche a vantarti di quanto le cose vadano bene con la tua ragazza, ad una stupida intervista radiofonica di fronte a tutta Londra! Quindi ora non venirmi a dire cosa devo o non devo fare, perché a me non interessa! Sono stata costretta a ripetere nella mia testa quelle tue cazzo di parole fino alla nausea negli ultimi giorni, e vorrei che tu sentissi lo stesso dolore che provo io, invece sembra che tu non ne sia nemmeno capace!»
Vicki stava crollando davanti ai miei occhi ed io la stavo seguendo. Ad ogni sillaba pronunciata da quelle labbra, ad ogni lacrima che brillava grazie alla scarsa illuminazione di quella strada appena fuori città, io sentivo qualcosa dentro di me cedere inesorabilmente. Era riuscita a farmi a pezzi semplicemente sbattendomi in faccia la realtà, e la consapevolezza di averle procurato tutto quel dolore era insopportabile. Era su questo che si fondavano tutte le mie paure, tutte le mie riserve: Louis Tomlinson non sapeva fare altro che ferire qualsiasi persona gli si avvicinasse, e ormai me ne stavo convincendo sempre di più. Per quanto cercassi di evitarlo, tutti i miei sforzi mi portavano sempre a ciò che più rifuggivo.
Non potevo sopportare la vista di Vicki in quello stato e non ero nemmeno in grado di formulare una frase, perché ero sconvolto dalle mie stesse azioni e da mille altre cose che dovevo ancora distinguere, così feci l’unica cosa che pensavo avesse potuto trasmettere più di qualsiasi parola: mi avvicinai a lei con un solo passo, portando le mani fredde sul suo viso, e le baciai le labbra, con un’enfasi che sapeva più di disperazione. E mentre lei si ribellava a quel contatto, provando a spingermi via con i pugni sul mio petto, io glielo dissi. «Non sono andato a letto con Eleanor. Non l’ho fatto, cazzo, hai capito?» le dissi, prima di ricevere una spinta più forte delle altre e indietreggiare di riflesso.
«Come… Come ti aspetti che io ti creda?» domandò, con le mani tra i capelli e il petto che si muoveva velocemente seguendo i suoi respiri irrequieti.
Io serrai la mascella e finalmente abbassai la voce. Dovevo farlo per lei, e quindi anche per me. «È questo il punto – quasi sussurrai, per la stanchezza e la rabbia. – Tu non mi credi. Qualsiasi cosa io faccia, tu la metti in dubbio.»
«Ma cosa pretendi, Louis? Dopo tutto quello che è successo tra di noi, come pretendi che io non abbia nemmeno un dubbio?» ribatté lei, tirando su con il naso ma increspando le labbra per un singhiozzo. Si tirò le maniche sulle mani e si strinse nelle spalle, probabilmente per il freddo. Era così bella che mi faceva impazzire.
«E tu come pretendi che io faccia tutto da solo?! – sbottai, perdendo di nuovo l’autocontrollo. – Credi che sia difficile solo per te?! Ho cercato di fare tutto il possibile  per superare le mie fottute paure, per darti almeno un quarto di quello che meriteresti, anche se pensavo di non esserne capace, eppure tu sembri dimenticartene! Sai perfettamente quanto sia dura per me, eppure non importa quanto io mi sforzi, quanto ci provi e quanto cerchi di dimostrarti, perché ti concentri solo sui miei errori ed io ogni volta devo ricominciare da zero! E perché, appena Eleanor arriva da te e ti racconta qualche cazzata, tu non esiti e darla per scontata! Cosa devo fare per essere abbastanza?! Cosa vuoi che faccia?!»
Dopo quelle mie parole, entrambi rimanemmo in silenzio. Io a vedermela con l’affanno e il tremore che mi invadevano il corpo per quello sfogo inaspettato ma anche necessario, e lei a confrontarsi con i miei pensieri più profondi, che a quanto pare la colpivano più di quanto io credessi.
Vicki aprì la bocca per dire qualcosa ed io feci lo stesso, ma nessuno dei due parlò. Poi distolsi lo sguardo dal suo, perché in fondo faceva male e perché stava ancora piangendo, e con la coda dell’occhio mi sembrò che avesse fatto un piccolo passo avanti.
«Louis – mi chiamò, flebilmente. Chiusi gli occhi e inspirai l’aria fredda che ci circondava. – Ho bisogno di sapere se-»
«No – risposi, prima ancora che finisse la frase. – Non l’ho nemmeno toccata» aggiunsi, tornando a guardarla con i pugni chiusi, sia per la tensione sia perché le mie mani fremevano per raggiungere il suo corpo, sfiorarlo e consolarlo.
La osservai mentre tratteneva il respiro e non si opponeva alle lacrime meno frequenti che le bagnavano il viso, mentre arretrava lentamente fino ad avere di nuovo la schiena contro la carrozzeria della sua macchina e mentre abbassava lo sguardo sul terreno ai suoi piedi, immobile.
«Devi credermi» aggiunsi flebilmente, diminuendo la distanza tra di noi. Ci divideva circa un metro, ma sembravano chilometri. Vicki continuò a non guardarmi, a proteggersi nel suo maglione scuro, ed io avevo solo bisogno di incontrare i suoi occhi, qualsiasi cosa loro volessero esprimere.
«Tu… Allora perché? Perché mi hai detto di-»
«Perché tu sembravi esserne certa: ti ho dato solo quello che ti aspettavi. E stavo impazzendo al pensiero di averti deluso di nuovo, di aver deluso me stesso» ammisi dopo qualche secondo, a bassa voce e aspettando che mi concedesse di nuovo le sue iridi scure, anche se arrossate.
Quando lo fece, deglutii e attesi che si sfogasse. Sembrava trattenere così tante cose dentro di sé, che non capivo nemmeno come facesse a sopportarle.
«No – disse semplicemente. – No, l’avresti negato. E poi in quei giorni eri così strano... Chi mi dice che tu non stia mentendo ancora?» Pronunciava le parole come se fossero un fiume in piena, come se riflettessero il groviglio di pensieri con cui doveva confrontarsi.
Sentii distintamente la delusione prendere il sopravvento: per l’ennesima volta, mi stava mettendo in dubbio. Eppure, mi costrinsi a pensare lucidamente: dovevo tener conto della situazione in cui si trovava. Nonostante le motivazioni che mi avevano spinto a farlo, io le avevo urlato contro di essere andato a letto con la persona che lei temeva di più e per quattro giorni non mi ero fatto vivo. Era normale che fosse restia a rielaborare il tutto.
«Te lo dico io, Vicki – le assicurai, facendomi ancora più vicino. Mi aveva respinto così tante volte, negli ultimi minuti, che temetti potesse farlo di nuovo. Invece si limitò a fissarmi attentamente ed io le diedi il rispetto che meritava, rimanendo ad una distanza che fosse accettabile per lei e non troppo dolorosa per me. – E mi fa incazzare il fatto che tu abbia davvero creduto che io fossi andato a letto con lei, ancor prima di saperlo con certezza, ma te lo giuro: Eleanor ti ha mentito.»
Non era convinta, glielo si leggeva in faccia, e c’era solo un modo per farle cambiare idea, per farle capire che io non sarei mai stato capace di farle del male volontariamente, nonostante la mia impulsività dimostrasse il contrario.
«Vuoi sapere perché ero strano? – domandai allora dopo qualche secondo, con tono esitante. Ero a disagio, perché il suo sguardo mi destabilizzava, perché continuavo a chiedermi se potessi azzerare quell’insopportabile distanza che ci divideva e perché, per l’ennesima volta, mi stava costringendo a mettermi a nudo. Odiavo sentirmi così esposto, quasi fossi alla mercè di qualcuno, ma glielo dovevo. – Ti ho sentita. Quella sera a casa tua, quando mi hai detto che credevi di amarmi, io-»
«Stavi dormendo» mi interruppe lei, allarmata e – chissà – imbarazzata, mentre il suo corpo si irrigidiva.
Mi venne spontaneo addolcire lo sguardo, al pensiero di quelle sue parole sussurrate, anche se – subito dopo – un brivido diverso mi percorse la schiena. «No – la corressi. – Mi ero svegliato, ma ho continuato a tenere gli occhi chiusi, perché… Perché volevo che tu continuassi ad accarezzarmi in quel modo, pensando che io non me ne accorgessi» spiegai, corrugando leggermente la fronte e abbassando per un paio di secondi lo sguardo.
Vicki non rispose, non subito almeno, e potevo avvertire il suo respiro farsi sempre più lento, nonostante fosse ancora disturbato da qualche sporadico singhiozzo. «Hai avuto paura?» chiese poi in cerca di una conferma, talmente piano da farsi quasi sovrastare dal rumore di sottofondo causato dalla vita della città e dal passaggio di qualche macchina.
Io serrai la mascella e rimasi in silenzio. Solo dopo poco, mi concessi di andarle incontro e di aiutarla a capire. «Sapere che tu possa provare qualcosa del genere per me… Vicki, questo cambia tutto. Ho pensato che se avessi sbagliato in qualcosa avrei causato più danno di quanto avrei potuto sopportare e tu… Mi sono allontanato perché sono il solito codardo, ma alla fine tutte le mie paure si sono realizzate lo stesso. Guardaci ora». Desideravo chiederle se mi amasse davvero, ma non mi sembrava il momento e forse temevo anche una sua possibile risposta negativa.
Quando Vicki aveva confessato i suoi sentimenti, nonostante pensasse che io stessi dormendo, il mio stomaco si era accartocciato su se stesso. E non solo perché, che diavolo, una persona come lei non poteva amare uno come me, ma anche perché era un pericolo: ero convinto che prima o poi avrei commesso qualche errore, e il solo pensiero di cosa avrebbe significato per lei mi faceva impazzire. Non riuscivo a pensare alla possibilità di ferirla – nonostante poi quella stessa possibilità si fosse tramutata in realtà poco dopo – e, mentre cercavo di interporre delle distanze tra di noi, non riuscivo neanche a lasciarla andare, perché sì, anche io la amavo.
Forse avrei dovuto confessarglielo. Forse avrei dovuto essere più coraggioso, per una sola volta, e dirle che l’amavo più di quanto riuscissi a sopportare o di quanto io credessi. Che non sapevo quando me ne fossi reso conto, ma che era come se fosse sempre stato così. Che mi era impossibile respirare, se lei non era al mio fianco o se sapevo di non poterla vedere per più di ventiquattro ore, o forse meno. E che, cazzo, avrei fatto di tutto per lei, nonostante fossi un totale fallimento e nonostante l’avessi delusa più quanto una persona dovesse accettare. Ma non potevo farlo lì, sul ciglio di una strada e nel bel mezzo di un litigio: non volevo che quelle mie parole fossero scambiate per un tentativo di farmi perdonare.
«Avresti dovuto dirmelo – sussurrò, mentre vedevo il suo corpo rilassarsi. – Anzi, no, avresti dovuto rimanere con me, invece di allontanarti. Ti ho già detto che è normale avere paura, che anche io ne ho e anche tanta, ma tu sembri non capirlo. Quando smetterai di scappare? Di scappare da me?»
Era arrendevolezza, quella nella sua voce? Stanchezza?
Aveva ragione, lo sapevo bene, eppure era più facile a dirsi che a farsi: se fossi riuscito a dimostrarle i miei sentimenti, avrebbe capito che l’amavo così tanto da esserne paralizzato e forse anche che ogni mia azione dipendeva da lei. Persino il mio allontanarmi era lo specchio del mio tentativo di darle il meglio.
«Mi dispiace, Vicki – mormorai, mettendo da parte quel fastidioso orgoglio e avvicinandomi impercettibilmente a lei. Le sue labbra continuavano a tentarmi e non sapevo fino a che punto avrei resistito. – Per tutto» aggiunsi, pensando che sarebbe stato troppo lungo elencare tutti i miei sbagli uno alla volta. Erano banali e scontate, ma quali altre parole avrei potuto utilizzare?
Lei chiuse gli occhi per qualche istante e mi posò una mano sul petto, delicatamente. «E a me dispiace di non averti capito fino in fondo, di essermi lasciata influenzare da Eleanor quando avrei dovuto soffermarmi un po' di più su quello che io e te abbiamo costruito. – Fece una pausa ed io contai i secondi. - Mi dispiace… Di averti fatto credere di non essere all’altezza dei tuoi sforzi. Ma non basta» disse lentamente, provocando un’anomalia nel ritmo del mio cuore. Cosa intendeva?
«Tu mi hai mentito e mi hai urlato contro di esserti… scopato la tua ex ragazza, solo perché eri ferito e arrabbiato. L’hai fatto di proposito, per farmi del male e magari farmi sentire esattamente come te, e, come se non bastasse, per quattro giorni sei scomparso. Non-»
«Avevo bisogno di riflettere – la interruppi, cercando di giustificarmi e di farle capire tutto ciò che doveva. Il fatto che si ostinasse a ripetere le esatte parole che io le avevo urlato contro a casa mia era un segno di quanto ne fosse rimasta colpita. – Ero stanco di provare a dimostrare qualcosa a te e a me stesso, senza ottenere dei risultati. Ero stanco di non essere mai abbastanza e di non aver ottenuto la tua piena fiducia. Avevo solo bisogno di pensare, e sì, anche di sbollire la rabbia, perché era inconcepibile che per te fosse così facile credere ad un mio tradimento. E stamattina… Vicki, ho mentito solo perché non voglio che la nostra storia diventi il titolo in prima pagina di una stupida rivista di gossip, ma questo non significa niente. Mi serviva del tempo p-»
«E cosa è cambiato da allora? Il fatto che io sia sparita per un giorno interno? Non l’avresti nemmeno saputo se Stephanie non avesse chiesto a qualcuno dove fossi, perché ci scommetto che è stata lei ad avvertirti. Quindi ora cosa è cambiato? Non sei più stanco o arrabbiato? Se io oggi fossi tornata a casa prima, per quanto ancora tu saresti rimasto lontano, lasciandomi credere di avermi tradita con Eleanor?»
Fece una pausa, respirando lentamente.
«Cosa stai cercando dire? Non vuoi… Mi stai lasciando?» domandai, spiazzato da quell’eventualità che temevo più di qualsiasi altra. Il suo discorso sembrava terribilmente negativo.
Vicki corrugò leggermente la fronte. «No, io… No, non ti sto lasciando – rispose, tranquillizzandomi. – Ma ho bisogno di stare lontana da tutta questa storia e da te, almeno per un po’. Per schiarirmi le idee.»
«Vicki, per favore-»
«Louis, sono io a chiedertelo per favore. Fino a pochi minuti fa ero convinta che il mio ragazzo mi avesse tradita e che di me gliene importasse così poco da non sforzarsi nemmeno di venirmi a parlare, né per chiedermi scusa, né per infierire un po’ di più. E credimi, avrei accettato anche quello. Adesso, invece, ho scoperto che no, non mi ha tradita, ma mi ha mentito di proposito solo per farmi soffrire come lui stava facendo, senza preoccuparsi di dirmi che alla fine non era vero. Quindi no, non insistere. Per favore.»
Sbattei le palpebre più volte, incapace di rielaborare a pieno il tutto. Aveva ragione ed io dovevo accettarlo, ma l’idea di starle lontano mi torturava. Sì, io stesso per tutto quel tempo mi ero tenuto a distanza, ma era stata colpa dell’orgoglio, della delusione e del rancore, della consapevolezza di aver di nuovo sbagliato, per l’ennesima volta: in quel momento, invece, avevo paura che Vicki potesse arrivare una conclusione definitiva.
Combattuto  tra l’istinto che mi implorava di convincerla e la ragione che invece mi spingeva a rispettare lei e le sue decisioni, nemmeno tanto assurde, rimasi in silenzio. Le labbra socchiuse e la fronte corrugata.
Feci un passo indietro e tornai a respirare l’aria che la vicinanza a Vicki mi rubava.
«Devo chiamare Stephanie, così può darmi un passaggio. Tornerò domani a prendere la mia macchina» sussurrò, voltandosi per prendere il telefono dall’abitacolo della sua auto e – se non avevo le allucinazioni – per nascondere gli occhi che erano di nuovo lucidi.
«Ti riaccompagno io» le assicurai, osservandola in ogni suoi più piccolo movimento.
«No, non fa niente.»
«Vicki, posa quel telefono» le ordinai, irritato. Il pensiero di doverle stare lontano mi innervosiva e quelli erano i risultati. Lei fissò lo sguardo su di me e sembrò ammonirmi, poi avviò la chiamata e parlò con Stephanie.
«Sta arrivando» mi informò subito dopo, riponendo il vecchio Nokia sul sedile.
Prima ancora che potesse voltarsi, le afferrai un polso e la tirai a me, stringendola finalmente tra le mie braccia. Sentii il suo corpo adattarsi al mio dopo qualche istante e percepii la sua sorpresa, sostituita subito dopo da un senso di familiarità che ormai ci apparteneva: con la guancia appoggiata alla sua testa, premuta contro il mio petto, chiusi gli occhi e respirai il suo profumo. Solo quando le sue mani si aggrapparono alla stoffa della mia maglia in segno di resa, potei sentirmi davvero sollevato. Avevo così bisogno di quel contatto e, semplicemente, non avevo potuto rimandare oltre.
«Mi sei mancata in questi quattro giorni – sussurrai tra i suoi capelli, cercando con tutto me stesso di parlare con la sincerità che mi era concessa. – Non devi pensare il contrario. Mi manchi anche ora, mentre sei qui, e ti chiedo scusa. Di nuovo».
E ti amo, ma questo non lo dico perché ti amo troppo e perché non è il momento giusto.
 
Passarono quindici minuti circa, prima dell’arrivo di Stephanie. Quindici minuti di assoluto silenzio: Vicki seduta al posto del guidatore, con lo sportello aperto e lo sguardo basso, ed io seduto a terra, con la schiena appoggiata allo sportello dei sedili posteriori. Avrei voluto dirle così tante cose, che alla fine non ero riuscito a pronunciarne nemmeno una.
In quel momento, Vicki si stava avvicinando all’auto della sua amica, che continuava a lanciarmi sguardi minacciosi senza troppi problemi, ed io la stavo seguendo non solo con gli occhi ma anche fisicamente.
Appoggiai una mano alla carrozzeria della macchina, sporgendomi nell’abitacolo mentre Vicki abbassava il finestrino e si allacciava la cintura. Diedi un’occhiata a Stephanie, che con la sua presenza mi metteva leggermente a disagio, poi cercai quegli occhi che conoscevo così bene e che stavano cercando me allo stesso modo.
«Me l’hai promesso – sussurrai, avvicinandomi al suo viso per rendere quelle parole un po’ più private. – Resta con me» aggiunsi, con il cuore che si dimenava nella cassa toracica per implorarla.
Vicki si limitò ad increspare le labbra come se avesse voluto dire qualcosa, ma non rispose. Deglutì ed inspirò profondamente, prima di posare un bacio prolungato e leggero sulla mia guancia, al quale io chiusi gli occhi.
Non sapevo se prendere quel gesto come una promessa o come un qualcosa di molto meno piacevole, ma non protestai e la lasciai andare.
Mentre la loro auto si allontanava lungo la strada, mi chiesi se sarei stato capace di darle il tempo e lo spazio di cui Vicki necessitava: la risposta, per quanto cercassi di cambiarla, era un categorico no. Avevamo troppe cose di cui parlare, problemi dei quali discutere e verità da svelare: era semplicemente impossibile che io la lasciassi sola senza prima averle detto tutto, o almeno averci provato. Senza contare che ero sempre stato un po’ egoista: dovevo semplicemente ammettere che non volevo passare un altro giorno lontano da lei.
 

 

 
ANGOLO AUTRICE
 
Buoooooooooooooooooooooooooongiorno e scusate per il ritardo!
Allora: da dove cominciare? hahahaha Cavolo, questo capitolo è stato un parto!!!
Premetto che l’ho scritto tutto ieri, di getto, quindi non sono stata a modificarlo più di tanto:
è molto lungo, ma spero di non avervi annoiate! Non potevo tagliare delle parti per ovvi motivi!
Scrivere di questo Louis è un’impresa, non ne avete idea hahah E devo ammettere che
ogni tanto mi veniva voglia di cambiare POV e parlare dal punto di vista di Vicki, perché
mi sembrava di averla lasciata “da sola” a confrontarsi con Louis (queste sono mie pippe mentali…).
Ma comunque: piccolo appunto su Stephanie e Brian. Finalmente Steph ha preso in mano
la situazione e ha deciso di fare una piccola “pazzia” (: Lascio a voi i commenti!!
Quella parte in realtà serve anche per introdurre l’intervista radiofononica - ovvio – (spero
sia venuta abbastanza bene (?), ho cercato di dipingere un Louis un po’ scherzoso e sassy (????))
e per far notare quanto Vicki faccia ruotare ogni suo pensiero e ogni cosa che la circonda intorno a Louis!
Poi, poi, poi: il tanto atteso POV LOUIS!!!!!!!!!!!! Io l’ho sempre detto che è complicato,
giusto per non dire complessato ahahaha Spero di avervi svelato quanti ragionamenti,
paure, attenzioni e problemi si celano dietro ogni parola di Louis, dietro ogni minuto che passa con Vicki.
E anche la sua impulsività: non so se ci sia riuscita, ma ho provato a dimostrare come la sua testa
dica una cosa e la sua bocca vada per tutt’altra strada ogni tanto, guidata dalle emozioni!
Facciamo il punto della situazione: Vicki pensa che Louis l’abbia tradita, ovviamente, ed è ancora
più incazzata per il fatto che per quattro giorni lui non si sia fatto vivo e che riesca a mentire
spudoratamente in un’intervista mentre lei passa le giornate a deprimersi.
Louis, invece, non è andato a letto con El (sono felice che la maggior parte di voi l’abbia capito già
dallo scorso capitolo jdsk), ma l’ha detto solo perché era come se dovesse essere così:
Vicki non aspettava altro e lui l’ha accontentata, anche perché era molto arrabbiato con lei che
non si fidava e con se stesso che ancora una volta aveva fallito. Ah, aveva sentito il “credo di amarti”,
e questo ha peggiorato un po’ tutto: il suo ragionamento è stato “a prescindere dai miei sentimenti,
voglio che lei stia bene: ora che so che i suoi, di sentimenti, sono ancora più forti, sono fottuto,
perché vuol dire che ogni mio sbaglio sarà amplificato mille volte. Faccio meglio a tenere
un po’ le distanze”! Ripeto, è complicato hahahah
E i quattro giorni di silenzio sono dovuti un po’ alla rabbia, un po’ al senso di colpa, un po’
al suo darsi del coglione da solo e magari dare della cogliona anche a lei (??).
Fatto sta che questi due vivono la stessa storia ma da prospettive molto diverse ahhahaa
Ecco, vorrei spendere qualche parola a favore di Louis: è un deficiente, questo si sapeva già, orgoglioso
e chi più ne ha più ne metta, ma è anche molto fragile. Immaginate una persona come lui
che continua a provarci, che continua a fare di tutto per rendere felice Vicki anche se ha paura
di non riuscirci e anche se, questa stessa paura, lo porta inevitabilmente a ferirla (un cane che si morde
la coda!). E immaginate come debba sentirsi nel momento in cui si rende conto di non aver fatto
abbastanza: su questo ha un po’ ragione, insomma, per quanti sbagli abbia fatto c’è anche da dire
che si è impegnato a modo suo. Vicki avrebbe dovuto approcciarsi alla questione in maniera diversa,
nonostante tutto: anche lei, però, ha le sue paure… Ma oddio, sto parlando davvero troppo ahahahahha
In sintesi: Vicki è comunque ferita dal suo comportamento e decide di prendersi del tempo per sé.
Cosa ne pensate di tutto questo? È un casino, vero??? D:
Spero davvero che mi facciate sapere cosa ne pensate, perché in fondo è un capitolo abbastanza
importante! (ah, mi sono dimenticata una cosa: anche lui la ama – ma dddddai? hahah – e secondo
voi ha fatto bene a non dirglielo? Vicki se lo aspettava?)
 
Detto questo, grazie infinite per tutto, davvero!! Non so più come ringraziarvi :)))))
Mancano pochissimi capitoli alla fine di questa storia e io non posso crederci DDD:
Un bacione,
Vero.
 
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