Anàmesa Étoi – Across the Years
3 – Obbligo o Verità?
-Da
quanto sei qui?-
Kendeas
abbassò lo sguardo dal ramo sul quale era stravaccato: Saga aveva lo sguardo
sollevato per riuscire a guardarlo, in attesa di una risposta.
Il
ragazzo sollevò una buccia di fico per mostrarla all’altro.
-Vuoi
sapere se te ne ho lasciati?-
Dal
basso Saga sorrise –Mi hai scoperto-
-Ma
certo- Kendeas staccò un frutto ben maturo da un ramo vicino e lo fece cadere.
Saga lo afferrò al volo con una mano –non vorrei mai essere il responsabile
della tua morte per astinenza da fichi-
-E
allora lanciamene un altro, no?-
Kendeas
gli rivolse un mezzo ghigno cospiratore.
Si
sporse appena dal ramo simulando un’aria di superiorità.
-Chiedimelo
con gentilezza-
Vide
Saga mettere su un finto broncio per soffocare un sorriso sul nascere.
Il
Cavaliere dei Gemelli sollevò le mani come per confermare una resa e gli
rivolse uno sguardo implorante.
-Ti
prego, Divino manifatturiero, posso avere l’onore di ricevere un frutto dalle
tue eteree mani?-
Non
riuscendo a mantenere l’espressione composta da vera Divinità Kendeas si
concedette una spontanea risata; staccò due fichi dall’albero scegliendoli con
la massima cura e li consegnò al Saint.
Saga li
soppesò tra le mani, fingendosi sorpreso.
-Addirittura
due? Sono stato graziato-
Kendeas
si sedette sul ramo, stirandosi i muscoli: il legno era un divano piuttosto
scomodo.
Staccò
una foglia che gli pendeva appena sopra la testa e si mise a giocarci
rigirandosela tra il pollice e l’indice in attesa che Saga finisse in pace i
suoi meritati frutti.
Si era
diretto verso l’albero dell’appuntamento un po’ prima del previsto ed era
rimasto in attesa di Saga, immerso nella pace del campo, a riflettere sugli
ultimi giorni trascorsi.
A riflettere
su come si era sentito qualche giorno addietro, quando aveva pensato che Saga
lo stesse accusando di sottrargli il tempo libero a disposizione, anche se dal
tono del Cavaliere si intendeva bene che quelle parole non volevano essere
un’accusa di nessun genere.
E a
riflettere su come, subito dopo, quando Saga gli aveva detto in modo non tanto
esplicito di voler stare con lui, si era sentito liberato dal peso che la prima
affermazione gli aveva fatto crollare addosso.
A
riflettere su cosa significasse tutto quello.
Si
sentiva incredibilmente stupido solo a ripensarci.
Perché
si fosse tanto arrabbiato per un’esclamazione del tutto innocente.
Perché,
ogni volta che si trovava con Saga, qualsiasi cosa facesse gli sembrasse così
fuori luogo e poco adatta alla situazione.
Ed ogni
volta, dopo tutte quelle domande, si chiedeva se Saga provasse le stesse cose o
se le sue erano solo inutili paranoie.
-Terra
chiama Kendeas!-
Riabbassò
lo sguardo: Saga giocherellava con le bucce dei fichi diventate un'unica pallina
appiccicosa.
I suoi
occhi verde-blu lo squadravano in attesa di risposta.
-Cosa?-
-Ti ho
chiesto se hai intenzione di scendere da lì o se hai messo le radici come Daphne-
-Potrei
anche offendermi: ti sembro una ninfa?-
E Saga
gli sorrise ancora –Dammene la prova. Sicuro di non volere aiuto?-
-Lo so,
lo so- Kendeas annuì come ad una raccomandazione ricevuta già dieci volte –se
cado mi faccio male. Me lo hai detto già la prima volta. Ce la faccio, davvero-
Forse
per uno strano scherzo del destino, forse perché l’equilibrio di Kendeas era
peggiorato nel corso degli anni, proprio come la prima volta i due finirono
l’uno sull’altro in uno strano ricordo del loro primo incontro.
Ecco:
adesso Kendeas aveva un buon motivo per sentirsi un perfetto stupido.
Si
sollevò sui gomiti per permettere a Saga, sgraziatamente schiacciato sotto di
lui, di respirare.
-Oh,
diamine!- protestò il ragazzo –E questa è la seconda volta che ti cado addosso!
Si può essere più imbranati…?-
Sentendosi
come se gli avessero dato fuoco alla faccia Kendeas si arrischiò a sollevare lo
sguardo per fronteggiare la sicura ira di un Gold Saint atterrato in meno di un
minuto da qualcuno disarmato, tra l’altro senza la minima intenzione di
metterlo al tappeto.
Si
aspettava che Saga gli dicesse qualcosa, da un gentile “Levati di dosso” ad un
diretto “Preparati a morire”.
Invece
non gli arrivò una sola parola.
Saga lo
guardava, non meno sorpreso ed imbarazzato di lui, con un misto di stupore e
perplessità negli occhi illuminati appena dalla luce filtrante dalle foglie
sopra di loro.
A quel
punto Kendeas avrebbe dovuto scusarsi ed alzarsi sparendo dalla circolazione in
meno di un nanosecondo.
Invece
rimase lì per quella che gli sembrava un’eternità, a guardare da ogni singola
angolazione il viso a pochi centimetri dal suo, e studiare con nuovo interesse
gli occhi, la loro forma, l’azzurro ed il verde che si mescolavano attorno alla
pupilla nero inchiostro, gli zigomi seminascosti da ciocche ribelli, la curva scolpita
del mento fino a soffermarsi più del dovuto sulle labbra.
Cercò
di nuovo gli occhi di Saga e vide che
anche lui lo studiava con insolito interesse seguendo il suo esempio.
I loro
sguardi si incrociarono per un solo istante.
Qualcosa,
nella sua testa, gli diceva di fermarsi e non fare pazzie, alzarsi ed andare a
sotterrarsi da qualche parte.
Non
aveva la minima idea di quello che stava facendo.
Almeno,
non fino a quando la sua bocca non incontrò quella di Saga a metà strada, ed
anche allora non seppe dire se lui si fosse spinto troppo avanti o Saga avesse
messo del suo avanzando a sua volta.
Ma era
mai possibile?
“Staccati”
Kendeas sentì una vocina dentro di sé “cosa diavolo stai facendo?”.
Avrebbe
voluto allontanarsi.
Davvero.
Magari
tra un altro po’, si ripeteva, solo un altro secondo, un altro e basta, e poi
si sarebbe alzato ed avrebbe pregato la terra di inghiottirlo.
Ma quel
momento non arrivava.
Il
momento in cui avrebbe dovuto rimettersi in piedi e sfrecciare via scomparendo
per sempre alla vista del Saint dei Gemelli si faceva sempre più lontano, si
perdeva nella sensazione e nei brividi che le labbra di Saga gli provocavano,
ogni volta in cui si schiudevano tra le sue, ad ogni respiro sul viso,
rimandava l’azione ad un “dopo” non meglio specificato, un puntino appena visibile
nelle sue priorità.
La bocca
del Saint di Gemini era l’unica, vera
cosa reale di quel momento, le sue labbra lisce, zuccherate a causa dei frutti
mangiati poco prima, e non sapeva se calde per natura o per le stesse emozioni
che adesso affollavano l’animo di Kendeas in un continuo turbine di incertezze
e nuove responsabilità.
Mai,
neanche nei sogni, il ragazzo era riuscito a provare una tale quantità di
sensazioni tutte diverse, contrastanti, alle quali seguivano pensieri
contraddittori che non facevano altro se non aumentare la sua confusione.
Sentiva
una mano di Saga tra i capelli.
Un
sospiro, o forse il Saint che pronunciava il suo nome.
Kendeas
si allontanò di scatto, avvertendo quel suono come un rimprovero, un invito ad
allontanarsi, smetterla, rispettare i loro ruoli.
Mentre
riprendeva fiato studiò il viso di Saga: non sembrava arrabbiato o contrariato,
più che altro sorpreso, sembrava cercare qualcosa da dire.
Non
gliene diede il tempo.
Si alzò
con un unico movimento rischiando di perdere l’equilibrio e cadere di nuovo e
fece alcuni passi indietro passandosi d’istinto una mano sulle labbra.
Saga si
alzò a sua volta.
Aprì la
bocca per parlare, ma non ne ebbe il tempo.
Kendeas
gli voltò le spalle e corse via senza più guardarlo.
***
Amore.
L’amore
è un sentimento di profondo affetto, complicità a rispetto che viene a formarsi
tra due persone.
È un
vero e proprio impulso a cui tutti i sensi rispondono, attirandoci verso
qualcuno.
Stimola
complicità, passione fisica, a volte persino dolore, tutto d’un tratto, tutto
insieme, sorprendendoti quando meno te l’aspetti.
Questo
ed altro Kendeas aveva appreso sull’amore, questo ed altro gli veniva in mente
da quando, due giorni prima, si era lasciato Saga alle spalle convinto di aver
osato troppo, di essersi preso una libertà preclusa a qualcuno come lui; da
quando, quella notte, si era svegliato più di una volta perché il sogno di quel
bacio azzardato dato al Saint d’Oro si era fatto fin troppo vivido e
dettagliato, tanto da fargli credere di essere ancora nel frutteto, ancora
sopra Saga, ancora una volta combattuto tra la vergogna che quel suo gesto gli
provocava ed il piacere che gli veniva reso in cambio.
A
questo, poi seguivano altri sogni, strani, impossibili, da non seguire o
ricordare una volta sveglio.
In
ognuno di questi, Saga lo chiamava.
Non con
rabbia.
Non con
rimprovero.
Era
solo la sua voce, il più delle volte, la sua voce profonda, solo un sussurro, spensierato,
forse addrittura… dolce?
“Kendeas…”.
-Kendeas!-
La voce
di sua nonna lo strappò via dalle braccia di Saga regalandogli un brusco risveglio.
Kendeas
rispose qualcosa di incomprensibile da sotto le coperte, rigirandosi su un
fianco per dare le spalle alla finestra, sgradita fonte di luce.
-Santo
Cielo, che ti prende, ragazzo? Sono già le dieci e tu non sei in piedi. Stai
male?-
Lui si
arrischiò a sollevare un braccio per scrutare la donna in piedi di fronte al
letto: di piccola statura, gracile ma con una forza insospettabile, il viso
spigoloso; indossava un vestito color indaco e sopra un grembiule bianco.
Scosse
la testa rimanendo però sommerso dalle coperte, sperando che la nonna non
partisse con uno dei suoi interrogatori.
-Hai
dormito di nuovo con la finestra aperta, non è vero?- ecco, era tardi –Certo
che poi stai male-
La
donna avanzò e chiuse le imposte.
Kendeas
voleva dirle che la finestra non c’entrava nulla, anzi, quella era l’ultimo dei
suoi problemi, ma poi avrebbe dovuto dire troppe cose.
Come si
giustificava?
“Ho
baciato uno dei Sacri Guerrieri di Athena ed ora aspetto che una folgore
punitrice mi colpisca”?.
No, era
meglio far credere alla nonna di stare male, almeno fino a quando non avesse
trovato una scusa più credibile per quella sua improvvisa fiacchezza.
-Io e
tuo zio andiamo in città questo pomeriggio- lo informò lei –ma se non ti senti
bene potrei restare con te-
Le
vendite in città rendevano molto di più, per questo motivo Ifighéneia e Kostas
vi si recavano almeno una volta al mese.
Kendeas
rimaneva al villaggio perché qualcuno doveva pur badare alla casa ed al lavoro
al tempo stesso, ed i parenti non avevano più la vitalità di una volta.
-No- si
degnò di riemergere da sotto il lenzuolo –sto bene. Andate pure-
-Sei
sicuro?-
-Assolutamente-
La
nonna lo studiò a lungo, pensierosa, ma infine annuì e lasciò la stanza.
Kendeas
gettò le coperte da un lato e rimase disteso a fissare il soffitto a lungo,
perso negli ultimi residui di un sogno ormai non troppo chiaro.
L’unico
dettaglio rimaneva lui.
Saga.
Amore.
L’amore
romantico ha un significato differente dal profondo affetto verso di una
famiglia o un oggetto.
L’amore
romantico è quello che lega due persone attraverso un profondo senso di
passione e fedeltà, indissolubile anche a distanza di anni.
Pothos, era il termine esatto.
Ciò che
si desidera.
Ciò che
si sogna.
E lui
sognava Saga.
E,
aveva paura di ammetterlo, anche solo di pensarlo, ma lo desiderava.
Lo
desiderava da quando aveva poggiato le lebbra sulle sue, anzi, da molto prima,
da quando le loro mani si erano sfiorate l’un l’altra ed aveva avvertito quella
strana scossa interiore alla quale non aveva fatto caso se non in quel momento.
In
pochi giorni la sua vita era stata scandita da una serie di termini
fondamentali, pochi ma concisi.
Saga.
Amore.
Pothos.
Desiderio.
Era
assurdo.
Saga
non avrebbe voluto neanche più vederlo dopo ciò che era successo.
Perché
continuare ad illudersi o giustificarsi attraverso lo studio della lingua?
Kendeas
si alzò di malavoglia, si vestì, non pensò neanche di mangiare qualcosa e si
chiuse nel laboratorio dello zio.
Prese
un nuovo blocco di argilla, non potendo fare a meno di guardare la scultura di
Saga, quella che rappresentava Athena, ricordando quando il Saint gli aveva
detto di tenerla, e scherzando lo aveva sfidato a venderla a qualcuno.
Si
sedette, guardando il grigio monotono del materiale tra le sue mani.
Lavorare
l’aveva sempre distratto.
Alzò un
piccolo scalpello, ed incise la prima linea.
Rimase
lì a lungo, incideva in automatico e quasi non vedeva ciò che le sue mani
andavano via via creando, rincorrendo pensieri lontani e diversi nel tentativo
di distrarsi.
Prese
una decisione: già il giorno prima non si era diretto verso l’albero dei fichi,
e si era ripromesso di non farlo mai più.
Non
voleva affrontare Saga, neanche dopo diversi giorni dall’accaduto, ed in fondo
non credeva neanche che il Saint l’avrebbe più cercato.
Erano
pari.
Era
stato un incontro come gli altri, un’amicizia che da quel momento in poi
sarebbe durata a distanza o si sarebbe spenta con il passare del tempo.
Fine.
Lavò la
nuova scultura quando ormai era quasi ora di pranzo, ed alla fine le diede la
prima, vera occhiata.
Quella
che si trovava tra le mani era la statua in miniatura di un ragazzo dal fisico
perfetto, eretto in piedi, il peso poggiato su una gamba come uso degli efebi di Policleto.
Quel
ragazzo aveva i capelli lunghi, sciolti sulla schiena, incredibilmente
realistici.
E
sorrideva.
Quella
che si trovava tra le mani era una statua di Saga.
Era
perfetta, molto più di qualsiasi lavoro fatto fino a quel momento, ed era
incredibile constatare quanto fosse riuscita bene senza neanche un modello al
quale fare riferimento.
Ma
Kendeas non ne aveva bisogno.
Conosceva
Saga alla perfezione nonostante si fossero frequentati per pochi giorni.
Sorrise
alla statua.
Ed un
pensiero non meno strano di quelli precedenti si fece avanti con incredibile
spontaneità.
“Pothos. Saga, amore mio”.
***
Bussavano
alla porta.
I suoi
parenti se n’erano andati già dal pomeriggio prima, improbabile che Kostas
fosse tornato dopo così poco tempo.
“No…
per favore”.
Kendeas si rotolò con fare pigro sul letto,
chiedendosi chi mai potesse bussare alla sua porta a quell’ora di pomeriggio;
di solito i negozianti si rinchiudevano nelle rispettive abitazione per
riposarsi un po’ prima del lavoro pomeridiano.
Altri
colpi, stavolta più decisi.
Kendeas
si tirò in piedi sospirando, dirigendosi verso la porta.
“Spero
che tu abbia un buon motivo per venire a disturbare la gente a quest’orario
indecente!”.
Rimase
per un po’ con la mano sulla maniglia, incerto se aprire o far finta che in
casa non ci fosse nessuno.
Fu
tentato dall’idea: se le persone prendevano l’abitudine di far visita a tutte
le ore, addio tranquillità.
Ma
poteva sempre essere un potenziale cliente a cui serviva un’ ordinazione urgente.
Si
arrischiò ad aprire uno spiraglio necessario a vedere chi mai fosse il disturbatore
e se valesse la pena di proporgli una ripetizione gratuita di come funzionasse
l’orologio.
Quello
davanti a lui non era un disturbatore qualsiasi, men che mai qualcuno che
volesse commissionare qualche lavoro.
I suoi
occhi cangianti lo scrutavano attraverso la porta semiaperta; sembravano
preoccupati.
-Kendeas?-
-S-Saga…
ma cosa…?!-
Il
Saint scrutava ancora all’interno dell’abitazione quasi cercasse qualcuno
nascosto nell’ombra.
Lo
guardò perplesso, forse appena risentito.
-Scusa
se sono venuto fin casa, però… volevo sapere come stavi-
-Come
sto?- ripeté lui senza capire –Come dovrei stare?-
-Lo
sai, no?- gli occhi di Saga gli chiedevano con insistenza il permesso di
entrare –Non sei più venuto al nostro appuntamento. È da un paio di mattine che
ti aspetto, e non ti sei fatto vivo. Pensavo stessi male, così sono venuto a
controllare-
“Non
prenderlo come un rimprovero per non esserti più fatto vivo”.
Si
ammonì Kendeas cercando disperatamente qualcosa di valido con cui ribattere.
Nessuna
scusa –forse proprio perché era una scusa e non corrispondeva alla realtà-, gli
sembrava reggere più di tanto, e lo sguardo di Saga in attesa della sua
risposta non facevano altro, anche se in modo involontario, se non aumentare la
sua agitazione.
Amore.
L’amore
era anche quello: rimanere impacciati e boccheggianti davanti alla persona
desiderata.
Così,
come spesso faceva in più occasioni, rinunciò alle menzogne e decise di dire la
pura e semplice verità.
-Ho
pensato fosse meglio sparire. Tutto qua-
-Sparire?-
Benché
ormai al massimo dell’imbarazzo, Kendeas fece cenno al Cavaliere di entrare in
casa: non era il caso che qualcuno li vedesse a complottare.
Si
sedettero in cucina, uno di fronte all’altro, Kendeas teneva gli occhi puntati
sul legno chiaro del tavolo ovale con un’ostinazione straordinaria.
-Che
cosa vuol dire sparire?-
Chiese
Saga rompendo il silenzio della stanza.
Lui
alzò gli occhi indugiando tra le iridi acquamarina di fronte a lui e
l’arredamento della sala.
Inspirò,
trattenne l’aria e la rigettò via sotto forma di un lungo sospiro.
-Dopo
quello che è successo. Al frutteto. Io… credevo fosse meglio così-
-Vuoi
dire dopo il nostro bacio?-
L’essere
Saint impediva l’uso di mezzi termini.
Kendeas
si sentì avvampare.
-Già
che sono qui, vorrei parlare anche di questo-
L’artigiano
si strinse nelle spalle desiderando che il pavimento si aprisse per
inghiottirlo e scaraventarlo nell’Ade, o in qualsiasi altro luogo lontano da
lì.
Abbassò
di nuovo la testa con un unico scatto deciso.
-Kendeas-
si sentì sollevare il mento dalle dita di Saga in un tocco privo di rabbia o
violenza. Era calmo, e questo lo faceva sperare in bene –voglio che mi guardi
in faccia, quando ti parlo. Intesi?-
Titubò,
annuì reprimendo di nuovo l’istinto di nascondersi a quello sguardo dolce e
fiero allo stesso tempo.
-Ascolta…
fin da quando sono arrivato al Grande Tempio sono stato addestrato per farmi
valere in qualsiasi situazione e con qualsiasi avversario. Mi sono dimostrato
da subito uno tra i combattenti più dotati da molti, troppi anni, e dal mio
primo combattimento tutti hanno iniziato a rispettarmi, più del dovuto. Alcuni
mi venerano addirittura. Mi chiamano Dio, Santo, la mia nomina di eroe si è
diffusa persino nei villaggi più remoti. Sono sempre stato il Saint dei Gemelli,
almeno fino a quando non sei arrivato tu. Tu sei l’unico che riesce a vedere il
mio lato umano ed a trattarmi come tale, non una riverenza, non un timoroso
rispetto reverenziale. Con te ho un rapporto normale, come lo potrebbero avere
due comuni ragazzi della nostra età. Non fraintendere quello che sto dicendo,
ma… vorrei che la mia reputazione di Cavaliere non rovini quello che c’è tra di
noi. Mi hai sempre considerato un uomo comune e mi hai offerto quello che
nessun’altro al mondo si sarebbe mai sognato di darmi: la tua amicizia, il tuo
relazionarti con me non tenendo conto del mio ruolo. Questo mi fa sentire bene.
Mi fa sentire come se potessi prendere parte anche io della tua vita normale,
se posso definirla così. Per cui ti chiedo solo una cosa: non smettere di
trattarmi così adesso. Mi ci sono appena abituato, e vorrei continuare a farlo-
Non
c’era ombra di sarcasmo nella sua voce, né Kendeas ne trovò sul suo viso.
Bene.
Era il
suo turno di dire qualcosa.
Se solo
fosse riuscito a mettere in ordine le lettere dell’alfabeto in modo coinciso e
coerente.
Era
troppo quello che gli passava per la mente in quel momento: dalle sue parole
Saga gli aveva fatto capire di volerlo ancora come amico, confidente, e non si
era dimostrato affatto infastidito dal loro accidentale bacio nonostante non
l’avesse detto in modo esplicito.
Allora,
cos’avrebbe potuto rispondere, lui?
Cos’avrebbe
potuto dire, di sensato, che rassicurasse Saga?
“Non si
è arrabbiato, calma, già questo è un grande vantaggio”.
Ma lo
era davvero?
Non poteva
fare a meno di indugiare con lo sguardo sulle labbra del Saint senza che il
desiderio di rifarle sue non si facesse avanti.
-Va
bene- disse infine, quantomeno per far capire di aver inteso il senso del
discorso –va bene, se è questo che vuoi lo farò-
Vide
Saga annuire appena, sollevato.
Il
Saint fece scivolare una mano sul tavolo e si mise a giocherellare intrecciando
le sue dita a quelle del ragazzo.
Sembrava
pensare a qualcosa mentre i suoi occhi alternavano brevi occhiate alle loro mani
vicine e sguardi fugaci alla ricerca delle iridi verdi di Kendeas.
-Bene-
sospirò infine. Un lieve sorriso amichevole gli era spuntato sulle labbra –cosa
si fa il pomeriggio, da queste parti?-
-Non
c’è molto da fare in realtà. E non credo tu abbia voglia di passare quattro ore
in laboratorio-
-A
creare altri mostri? No, grazie dell’offerta-
-Cosa
ne dici di giocare ad obbligo o verità?-
E
quella proposta da dove saltava fuori?
Era di
gran lunga la più ridicola che Kendeas avesse mai fatto.
Saga si
mostrò interessato: gli rivelò di non avere più fatto quel gioco da quando era
arrivato al Tempio.
-D’accordo,
comincia tu- gli disse Kendeas –cosa scegli?-
-Verità-
Quello
era il momento giusto per porre un punto finale alla domanda che assillava il ragazzo
da giorni, e non voleva lasciarselo scappare.
-E’
vero che non mi ucciderai per quel piccolo incidente del frutteto?-
Saga
rise, sotto le onde dei capelli le spalle sussultavano dando vita a quel fiume
azzurro –E’ tutto perdonato, fidati. Quante volte ancora devo ripetertelo?-
-Era
per essere sicuri. Bene, ora tocca a me-
-Scegli
pure-
Kendeas
ci pensò su.
Obbligo
o verità?
Cosa
voleva che succedesse in seguito ad una delle due scelte?
La cosa
bella di quel gioco era il fatto di poter approfittare delle circostanze per
chiedere cose che nella vita normale non ti sogneresti neanche.
C’erano
un’infinità di cose che Kendeas avrebbe potuto scoprire tramite semplici domande,
ma non era nella sua natura giocare sporco.
E non
scelse nessuna delle due ipotesi.
Si
illuminò prima, ricordando all’improvviso qualcosa che aveva visto quella
mattina su uno scaffale della sua stanza.
-Ho
qualcosa per te-
Saga lo
guardò incuriosito –Davvero?-
-Vieni-
Lo
guidò lungo il corridoio ed aprì l’ultima porta a destra.
Entrò
nella stanza e si rigirò nervoso la statua di Saga tra le dita, cercando di
pensare a cosa lui avrebbe detto una
volta che l’avesse avuta tra le mani.
Non
sapeva neanche perché l’avesse conservata in camera sua.
Forse
perché Kostas avrebbe potuto scambiarla per qualcosa da vendere, invece Kendeas
aveva tutta l’intenzione di tenerla per sé.
O di
darla al legittimo modello.
-Lo so,
mi prenderai per matto- si sedette sul suo letto sempre guardando Saga
osservare stupito la sua riproduzione in miniatura –chiamala se vuoi
ispirazione Divina-
-E’…
perfetta-
“Come
te”.
Saga
guardava la scultura con un sorriso quasi affettuoso, passava la punta delle
dita sulla superficie levigata a regola d’arte come se accarezzasse qualcosa di
unico e prezioso.
Kendeas
avrebbe voluto trovarsi sotto quelle dita anche solo il tempo di un tocco.
-Puoi
tenerla, se vuoi-
-Dici
sul serio?-
Si
accorse di sorridere –Ma certo-
-Allora
la porterò con me quando vado via- e Saga la appoggiò con estrema delicatezza
sulla mensola di prima –hai scelto?-
Kendeas
aveva fatto la sua scelta subito dopo che si era alzato dalla sedia della
cucina.
Aveva
deciso di arrischiarsi nella parte più ignota del gioco e subirne le
conseguenze a testa alta.
Cercò
gli occhi di Saga per la prima volta dopo giorni interi passati a desiderare di
vederli di nuovo.
-Obbligo-
Il
Saint avanzò verso il letto riflettendo sulla scelta, il capo inclinato a
destra.
Si
sedette a sua volta vicino all’altro studiandolo da ogni singola angolazione,
attento e pensieroso come mai Kendeas l’aveva visto.
Contro
le costole il cuore del ragazzo cominciò a battere con più insistenza.
Quell’attesa
era qualcosa di misterioso ed ignoto, nessuno avrebbe potuto dire cosa mai si
celasse dietro il silenzio del Saint di Gemini.
Saga
schiuse le labbra.
-Dammi
un bacio-
Si era
ripromesso di non farlo, eppure Kendeas non riuscì a trattenere un’esclamazione
di stupore.
Ecco,
quello che aveva pensato, forse sperato, sin dall’inizio in un misto di timore
e trepidante attesa.
Una
richiesta che pensava non sarebbe mai arrivata.
Saga
non si scompose alla sua reazione.
-Mi hai
sentito, no? Ti ho detto che non sono arrabbiato per quello che è già successo.
Ed ora voglio che tu rispetti le regole del gioco-
Quella
volta non c’era nessun ramo a giocare il ruolo principale per dare il via a
tutto.
Una
distanza molto più breve di quella della prima volta li separava, e questa
volta fu il turno di Kendeas di avanzare per fare in modo di rendere la
richiesta di Saga, quello che tante volte aveva visto nei suoi sogni, qualcosa
di concreto e di nuovo tangibile.
Ogni
fibra del suo corpo si tese.
Il
contatto più dolce e volontario con le labbra di Saga non arrivò a scatenare di
nuovo la paura dopo la raffica di emozioni iniziali, quella volta era tutto
diverso, non era più una legge proibita che lui aveva violato, era stata una
domanda, una semplice domanda.
“Me
l’ha chiesto lui. E’ quello che vuole lui. E’ quello che voglio io”.
Saga
gli poggiò una mano sul petto spingendolo con dolcezza fino a farlo distendere
del tutto sul materasso, le sue dita scivolarono sotto la stoffa leggera della
maglietta, sull’addome, a provocare lunghi brividi lungo i fianchi e la
schiena.
L’indumento
scivolò via ad un altro movimento del Cavaliere; Saga si staccò da lui il tempo
necessario per sfilargli del tutto il tessuto di dosso.
Era
inginocchiato su di lui, vicino come solo un’altra volta, i suoi capelli
scivolavano sul viso e le braccia del compagno facendogli il solletico ad ogni
minimo movimento.
-Allora,
Kendeas? Obbligo o verità?-
Avrebbe
dovuto essere lui a rispondere.
Saga
aveva saltato un turno ben sapendo quello che faceva.
Voleva
una risposta, un qualcosa che gli indicasse cosa fare arrivati a quel punto,
voleva sapere se lui condivideva quel suo nuovo approccio o se voleva
stroncarlo lì sul nascere.
-Verità-
-Vuoi
che mi fermi?-
Pothos.
Era
desiderio quella scintilla accesa negli occhi del Saint del Gemelli, desiderio
puro e semplice.
Poteva
sentilo fremere d’impaziente attesa, scalpitante come un cavallo in attesa di
lanciarsi al galoppo.
E lui
stesso non voleva tirarsi indietro.
-No-
Intravide
un sorriso aleggiare sulle labbra di Saga; il Saint si chinò di nuovo su di
lui, si liberarono dalle vesti gettandole alla rinfusa su tutto il pavimento
della stanza.
Il
tocco di Saga era leggero, delicato, incerto, le sue labbra tremavano appena
nella serie di lenti baci e carezze sul viso, il collo ed il petto.
Sentirlo
entrare in lui fu un’esperienza che Kendeas non avrebbe mai più dimenticato.
Le
leggere spinte di Saga si facevano man mano più sicure, seguivano il ritmo
scandito dai sospiri che avevano riempito la stanza, una cadenza via via sempre
più conciata, dolce ma impaziente di trovare l’apice del loro desiderio comune.
Kendeas
lo teneva stretto, le mani sulle sue spalle, il viso del compagno nascosto
nell’incavo del suo collo.
Sentiva
la sua pelle coperta da un leggero strato di sudore.
Continuò
così per un indefinibile lasso di tempo fino a quando Kendeas non si rese conto
di essere completamente inarcato, proteso verso Saga, le braccia intorno al suo
collo, le ginocchia strette ai suoi fianchi.
Si
lasciò di nuovo andare seguendo i movimenti di Saga con incredibile naturalezza,
fino a quando entrambi, esausti, si strinsero l’uno nelle braccia dell’altro
dopo un ultimo bacio.
***
Era di
nuovo mattina.
Il
tempo sembrava essere volato, dopo il pomeriggio precedente.
Kendeas
aveva riaperto gli occhi e guardato subito la stanza quasi per accertarsi che
ciò che era successo non fosse stato solo un sogno.
Accanto
a lui Saga si mosse, rigirandosi verso di lui e rivolgendogli un sorriso
assonnato.
Cercando
di dissimulare l’imbarazzo, Kendeas si tirò il lenzuolo addosso quel tanto che
bastava per coprirsi, prendendo alcuni profondi respiri, fissando ora i vestiti
sparsi per terra, adesso cercando fugacemente lo sguardo di Saga per poi
distoglierlo dopo solo pochi attimi.
Appoggiò
la schiena al cuscino, fissando qualcosa di invisibile dritto davanti a sé.
-Saga…?-
Chiamò
dopo aver preso coraggio.
Si
sentì il suo sguardo addosso, era in attesa della domanda.
-Avevi…
avevi mai…?-
-No-
Kendeas
si sentì a disagio.
La
risposta era stata immediata ma pacata e carca di spensieratezza.
Si
voltò in cerca degli occhi del Saint.
-Abbiamo
sbagliato….?-
Saga si
sedette a sua volta tenendo fermo il lenzuolo con una mano per impedire al
tessuto di scivolare del tutto via, riflettendo sulla domanda.
Incrociò
gli occhi dell’artigiano quel tanto che bastava per poter leggere con chiarezza
la sua incertezza.
-No-
gli rispose con sincerità –non credo ci sia nulla di male nel provare dei
sentimenti per qualcuno. E tu? Credi che abbiamo sbagliato?-
Kendeas
sospirò.
Provare dei sentimenti aveva
detto.
Amore.
Non
c’era nulla di sbagliato nell’amare qualcuno.
Anche
se quel qualcuno era un Saint di Athena.
Prima
di essere un Cavaliere era un uomo, non doveva dimenticarlo, un uomo qualunque,
e tutti gli uomini hanno bisogno d’amore.
-No,
non credo-
-Promettimi
che non te ne farai una colpa-
Era
serio.
Kendeas
non aveva alcuna intenzione di fare della situazione un dramma.
Non
quella volta.
-Te lo
prometto. E tu promettimi un’altra cosa, Saga-
Si
strinse a lui, colto da un’improvvisa ansia ingiustificata; sentiva il bisogno
di un contatto fisico più di ogni altra cosa, il bisogno di sentirlo lì, vicino
a lui, reale e sicuro.
Le
braccia del Cavaliere lo circondarono e Kendeas sentì le sue labbra sfiorargli
la fronte.
Attendeva
la sua richiesta senza forzarlo.
-Non
lasciarmi- riuscì a dire. Sollevò gli occhi in cerca dell’azzurro di quelli di
Saga –me lo prometti questo?-
Saga lo
strinse ancora di più in una silenziosa rassicurazione –Te lo prometto-
Quell’improvvisa
agitazione sembrò attenuarsi.
Kendeas
chiuse gli occhi e restò in ascolto del battito regolare del cuore del
compagno.
Sorrise,
ripensando al suo desiderio di averlo ancora accanto, ringraziando ogni singolo
Dio per aver esaudito le sue preghiere.
Ricordò
ai suoi pensieri a riguardo, alla statua, a quello che era appena successo.
Guardò
di nuovo Saga perché quelle parole bramavano per uscire già da troppo tempo.
-Saga,
amore mio-
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Heilààà! Come va gente?
Dopo giorni e giorni sono riuscita a partorire anche questo
capitolo, quasi non ci credo.
Le cose iniziano a movimentarsi, tocca a voi indovinare come
procederà fino al prossimo aggiornamento ;)
Creamy_Lisa: Shhiaoo *-*
Succederà qualcosa, hai ragione, infatti è successo ^^ e questo
è solo l’inizio…
Haha, povero Saga, abbiamo censurato le scena ma inizialmente ha
cercato di far ingoiare il blocco di argilla al suo caro Kendeas xD
Spero ti sia piaciuto questo capitolo, al prossimo! J