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Autore: Gatto Magro    27/12/2013    1 recensioni
- Adesso c’è sangue anche sulla lampada, quella verde in salotto, e sono andata fuori in silenzio però, perché ho pensato che ora dobbiamo accendere la lampada col sangue di Brian sopra e mi è venuto da vomitare.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“You don’t say what music is. It’s a secret no one should know.
We owe it to God and to Prometheus.”
- Benjiamin Hannover, un qualsiasi giorno pari
di un anno futuro.
Ma ora, Inverno 2010
 
- Promettimi che da adesso non avrai più paura. Promettilo anche se sarà una bugia. Promettilo in modo che io ci creda.
È appena sorto il sole, ma la sua luce è troppo debole e rimane addensata fra il cielo e il soffitto come una nuvola tenue, non ferisce le iridi chiare del ragazzo che ha parlato con la voce impastata di sonno.
Sussurra con l’alito acido sulla guancia di un’altra persona ancora addormentata, che respira con troppa cura per esserlo davvero.
- So che sei sveglio.
- Ti puzza l’alito. – mugugna l’altro, girando faticosamente su un fianco e trascinandosi dietro tutta la coperta. E le promesse, poi. Una puzza inestinguibile di vicoli ciechi pieni di occhi iniettati di sangue. Il ragazzo avvolto nel piumone sa bene quanto le promesse facciano male in luoghi invisibili allo sguardo.
- Brian. – riprova il primo ragazzo, sillabando un brivido di freddo. Il cielo appiattito contro la finestra promette ancora neve, e un’indulgente bugia renderebbe quel risveglio perfetto.
- Io la metabolizzo bene la paura, sai. – Brontola il secondo, annaffiando il piumone di vocali che Benjiamin deve immaginare al posto giusto. – Sei tu che dovresti averne.
Il mucchio di coperte ha uno spasmo improvviso e da una fessura un paio di occhi gonfi lo mettono a fuoco.
- Perché non hai paura? – l’apostrofa Brian, interdetto.
Il biondo solleva una mano e la avvicina alla fessura, facendo per allargarla e vedere il resto del viso di Brian, ma questo si ritrae in fretta inghiottito dal piumone, finché non trova un nuovo spiraglio da cui riprendere a spiarlo a metà.
Benjiamin sorride e la mano ricade sul lenzuolo già freddo.
- Perché ho te.
Prima di ricevere una risposta, si alza ed esce dalla camera, pescando una felpa dal cumulo di vestiti sulla poltrona. Quando Brian spinge via le coperte e si tira su, restando a fissare la porta con un’espressione indecifrabile – alterata forse dal sonno, forse dall’esatta impressione del termosifone gelido acquattato sotto la finestra, forse dallo spicchio di luna ancora pendente dal cielo -, Benjiamin è già di sotto, a frugare nei cassetti della cucina alla ricerca di un pacchetto di biscotti al cioccolato, un sorriso a mezza bocca e un’allegra nostalgia del Natale appena trascorso.
- Allora non hai niente.
 
 
Una vecchia bimba dalla gonna viola interrompe un balzo a metà, fluttuando incerta davanti ad una figuretta magra, immobile all’angolo del marciapiede.
- Spostati. - le intima la ragazza, accompagnando la parola con un gesto infastidito.
La bimba si affretta a  raccogliere ordinatamente le balze della gonna, che le ondeggiano attorno alle caviglie ossute, e si apposta di fianco alla ragazza. Le sue ossa scricchiolano con un rumore simile al vento.
- Che spettacolo patetico. – dichiara la ragazza seccamente. Il suo visetto da elfo, scuro e contratto, è rivolto alla porzione di casa che sbuca da sopra un’ordinata siepe di ligustro; sotto il cappuccio della felpa, i suoi occhi d’ombra incrinano il vetro di una finestra al secondo piano.
La bimba solleva il mento per seguirne la direzione, e il suo collo si spezza.
Spalanca la bocca in uno sbadiglio senza suono, e la mascella si stacca dagli zigomi.
Un lamento gorgoglia basso nella sua gola incartapecorita.
- In fondo sono dolci, non trovi?
Le unghie cadono a terra una alla volta, accolte dal marciapiede che si squaglia in cerchi concentrici prima di ingoiarle.
Attratta dal silenzio dell’anima, Sunshine la guarda per la prima volta con gli occhi pieni di disgustata compassione.
- Sei solo di passaggio, vero?
- Come tutti.
Le dita infreddolite accarezzano l’accendino, sul fondo di una tasca.
- Vieni. – le dice, più morbida. – Ti accompagno.
 
Si sta già avviando a passo spedito, seguita dai saltelli da passerotto della bimba, quando un pensiero le fa girare i tacchi e raggiungere la porta d’ingresso della casa, cui bussa educatamente.
Un piccolo stormo di uccelli inizia a fischiare dai rami spogli del melo, coprendo il veloce scambio di battute tra Sunshine e la porta, che si apre verso l’interno incespicando sulle pieghe di un grazioso tappetino verde bosco.
C’è Benjiamin sulle scale, la felpa della tuta che basta appena a coprirgli il fondo dei boxer, un piede a mezz’aria fra un gradino e il successivo, che con il pacchetto di biscotti stretto sotto un braccio le rivolge un goffo cenno di saluto – e un’occhiata allarmata, chissà perché – prima di correre al piano superiore.
- Evan, ti va di uscire? – chiede Sun alla persona che le ha aperto, senza distogliere lo sguardo tagliente dal ragazzo che si dilegua per le scale.
 
Una vecchia bimba-passerotto, che lascia impronte di artiglio sulla neve notturna; due gambette magre, chiuse da un paio di calze trasparenti, che nuotano nei grossi anfibi di pelle nera; un cappuccio orlato di pelliccia sintetica che si affretta per tenere il loro passo bizzarro, cercando al tempo stesso di non finire in mucchi di neve troppo alti e di infilarsi dei guanti azzurro pioggia: la stravagante ronda delle otto-e-qualcosa di una profumata domenica mattina.
- Dove andiamo? – domanda il cappuccio, le guance già arrossate dal freddo che punge la pelle nuda.
Gambette Trasparenti lascia penzolare la risposta tra altri pensieri, distratta dal solco di neve sciolta che si stacca dal cancello di Podmore e corre giù per la via da dove sono venuti. Passerotto tossicchia, docile.
- Voglio farti vedere una cosa meravigliosa. – dice infine Gambette Trasparenti.
- Che cosa? Hai trovato gli scoiattoli con sei zampe di cui mi avevi raccontato?
- No Evan, quelli arrivano gli ultimi giorni di inverno, e sono sempre meno. Ogni anno potrebbero non venire più perché il viaggio è molto lungo, ma no, non parlavo di loro.
Sunshine spinge il ragazzino in una via laterale molto stretta, che sbuca sulla sponda sassosa di un torrente muto; è ghiacciato durante la notte, e sulla superficie scura è posato un strato di neve sottile come zucchero. Una chiazza di erba dura, a pochi metri da loro, ospita il sonno pesante di due o tre cassonetti coperti di ruggine e sporcizia e schizzi di poltiglie strane; attorno alla base respirano accasciati diversi sacchetti di plastica lucida di brina, una scarpa da tennis, le schegge verdognole di una bottiglia di birra, lo schermo sfondato di un televisore e una colonia di preservativi usati.
Gambette Trasparenti si avvicina sicura, calpestando i pezzi di vetro sotto le suole spesse degli anfibi, e si inginocchia davanti ad uno dei cassonetti, mentre Passerotto ed Evan rimangono indietro, titubanti.
- Sunshine?
Con il suo sorriso da gatto, la ragazza lo invita a farsi avanti. I suoi occhi brillano come lampadine al neon e lui sente una vampata di calore pervadergli la pancia.
Si china vicino a lei, le ginocchia dei pantaloni si bagnano subito di fango sciolto.
- Guarda. – gli sussurra Sunshine all’orecchio. – Guarda.
L’accendino di plastica rossa scatta fra le sue dita.
Prima di infilare il braccio sotto il cassonetto, Sun studia l’espressione di Evan, accesa dall’eccitazine.
E non succede nulla, per qualche secondo, tranne il battito furioso del cuore di Evan sotto gli strati di piuma e lana, o i sospiri intermittenti di Passerotto, che zampetta innervosita alle loro spalle.
Poi un’onda di calore denso e bollente investe i due ragazzini accucciati ed Evan ruzzola sui talloni, serrando gli occhi con forza e lasciandosi sfuggire un grido di sorpresa.
In mezzo alle ruote spezzate, istantanee fra i mucchi di rifiuti, scattano lingue di fuoco azzurro e scintille accecanti, che esplodono a contatto con il suo viso col rumore di un muro di mattoni che crolla, e sembrano fargli male, sembrano scottarlo fin dentro il cervello, non riesce a smettere di guardare le fiamme bluastre che gli incendiano la retina, e intanto Sunshine canta o tossisce o recita una preghiera e il ventre di Passerotto si lacera in un grumo di lamenti spessi come sartiame, e vomita per terra una sostanza liscia, immateriale, fluida come plasma, che rimbalza sui sassi in una continua pioggia viscida finché le lingue di fuoco non vi si avventano sopra e la riducono in scaglie di cenere.
Passerotto urla di paura, ma ha finito di esistere ancora prima che le note stridule si disperdano nell’aria, echeggiando contro il retro delle case e scivolando via sul ghiaccio che cementa il fiumiciattolo.
Ventisette briciole di anima impigliate al suo cappello di lana.
Ventisei vengono spazzate via da un turbine di aria invernale che sguscia impazzito da un vicolo.
Venticinque si accendono di scintille e bruciano presto in fumo biforcuto.
Ventiquattro scavano angeli di neve in mezzo alla spazzatura.
Ventitrè è il numero della non esistenza, di una parentesi di sogno dove le ore si contraggono in gocce di pioggia e cori di fiamme; ventitrè briciole di anima risucchiano tutte le altre in un luogo che non verrà mai più alla luce.
 
- Sono quelli avanzati da Natale. – Benjiamin porge i biscotti a Brian, che si avventa sul pacchetto come se non vedesse cibo da settimane. Considerando i suoi zigomi affilati e la foga con cui strappa la carta marrone, Bee decide che dopotutto non è un’ipotesi tanto improbabile.
- Che voleva Sun? – domanda il ragazzo con la bocca piena.
Benjiamin, interdetto, rimane fermo nell’atto di infilarsi sotto le coperte.
- Se ti stupisci per così poco, mi deludi.
- L’hai vista dalla finestra? – Il biondo si scuote dai brividi che gli si sono attaccati alle spalle, e pesca un biscotto dal pacchetto per mangiucchiarlo distrattamente.
- No.
- Hai sentito la sua voce?
- No.
- Va bene.
Brian si irrigidisce al suo fianco, fulminandolo con gli occhi.
- Ma va bene cosa? – lo aggredisce, con la voce punta da una nota acuta. – Benjiamin. Io vedo attraverso le cose. E non vedo solo tuo padre seduto sulla tazza del cesso, con in mano il giornale della settimana scorsa e lo spazzolino bocca. Vedo le sue vene bluastre come se fossero quei cartelli stradali luminosi, e io ci andassi a sbattere contro a velocità disumana. Vedo l’intreccio dei vasi sanguigni e il loro snodarsi dal cervello alle cosce e giù fino alle punte dei piedi nelle sue ciabatte di gomma consumata. Vedo il sangue che gli correrà su una guancia tra qualche minuto, quando si taglierà la barba con la lametta vecchia e farà troppa pressione sulla pelle. Vedo le gocce sulla camicia, che si dovrà cambiare, ma ha finito quelle bianche e allora andrà a rovistare fra la roba appena stirata, facendo innervosire tua madre. E ha il ciclo, lei, a proposito. Ti va bene, questo?
Benjiamin lo ascolta in silenzio, la nuca appoggiata morbidamente alla testiera del letto. Accarezza il bordo sbocconcellato del biscotto, facendo soltanto attenzione alle onde nella voce di Brian.
C’è il mare invernale, nella voce del ragazzo dagli occhi azzurri e pieni di rabbia bollente.
- Va bene. – risponde, quando quello rimane a respirare profondamente, per evitare di urlare.
- Non fare finta di niente, cazzo. Sei così… - Brian fa crollare le braccia sul letto, troppo arrabbiato per insultarlo come si deve. Poco dopo riprende a parlare, soffocando ad ogni parola.
- Stanotte potevi morire. E anche adesso il pensiero ti terrorizza. Perciò non mi devi mentire. Non devi. Noi siamo una cosa sbagliata. Ma esistiamo davvero, quindi per favore, per favore, non fare finta.
Benjiamin smette di fissare il biscotto, per puntare gli occhi in quelli di Brian.
- Se riesci a vedere questa specie di futuro prossimo, puoi renderti conto che anche tu fai finta. Lo facciamo tutti, è nella natura delle cose. Tu mi hai mentito un sacco di volte, e io mi sono fatto piacere le tue parole tranquillizzanti perché, in qualche modo, sapevo che un giorno ti saresti fidato abbastanza per dirmi la verità. Nemmeno le tue bugie sono facili da sopportare. Come il tuo volto, o le tue allusioni, i veli di rancore che ti strappi dagli occhi solo quando ti accorgi che ti guardo. Tenendoti aggrappato a tutti i tuoi segreti, non fai altro che recitare una verità stampata fra il tuo cervello e un posto lontano, di cui la tua mente ha una paura invalidante.
- Avrei voluto tenerti fuori da tutto questo.
Inaspettatamente, Benjiamin allunga una mano e con il dorso di due dita accarezza la guancia di Brian. Il percorso sulla sua pelle bianca è un po’ zoppo; se, immersi nel buio, era stato quasi semplice lasciargli quel bacio sulle labbra sottili, la luce del giorno rende difficile anche solo pensare di avvicinarsi troppo. Eppure il ragazzo si limita a sbattere le palpebre, incerto, torturando il lenzuolo con le unghie. – Forse, - esordisce Benjiamin, distratto dal battito accelerato del suo cuore. – forse non c’è un motivo sbagliato, se è andata così. Esiste il destino, dalle tue parti?
Lo dice con un sorriso così grande che Brian non può fare a meno di ridere, ad occhi chiusi, con il naso arricciato, e Benjiamin se lo trova all’improvviso così vicino che sente le sue ciglia solleticargli una guancia.
- Oh, quello, ma quando mai ci ha lasciato?
 
“You owe me answers.”
Said the caveman to the paint he scratched on the rocks.
 
Dai tetti delle case sfuma via una nebbia strana, mentre Brian mordicchia le labbra di Benjiamin, lasciandole umide e arrossate.
C’è un piano infinito, - gli sussurra sulla bocca, con voce roca – che avvolge il mondo e si dipana in estremità tubolari che conducono alle dimensioni che vi sono sfuggite. In un nodo scuro e pulsante nasce la storia che cercavi ieri sera, dietro gli steli dei lampioni crepati. Se vuoi… se il tuo fato ti dice che è il tempo – Brian ride e lo bacia, la sua lingua pizzica, il suo fiato gli riempie i polmoni – io ti posso raccontare di quando si è sgretolata la gabbia della Fine e i grandi cancelli di fuoco sono piombati sulla Terra, che ne dici? Delle nuvole di piombo appesantite contro le sfere celesti che le hanno fatte scoppiare, dell’intreccio di serpenti lungo il bastone del pastore…
Sono le storie che Benjiamin non sapeva di aspettare, eppure, ora che la persona più impossibile della sua vita gliele sta snocciolando fra le narici e una guancia irruvidita dall’inverno, non coglie neanche metà delle parole. Maledetti baci, e quel sentore di menta e cioccolato nascosto fra gli incisivi di Brian. Sente le palpebre pesanti, ma si impone di vincerle per continuare a vedere la meraviglia liquida fra le ciglia del ragazzo dai capelli scuri.
Poi arriva un momento in cui la sua voce diventa un sibilo e le sue iridi si fratturano e la pelle intorno alle orbite si bagna di viola.
- È un gioco come un altro, Bee. – soffia Brian. – Evan ha appena tirato i suoi dadi.
 
Novembre 2012, la parte che non volete sentire
 
- Non piangere Callie, non importa se ci hanno prese. Non avere paura.
Andrà tutto bene.
Lo dicono nei libri.
No, lo so che non ti piace leggere, ma a me sì, vedi, abbastanza. Se la mia vita fosse come Lunar Park mi piacerebbero di più.
Hai ragione Callie, la mia vita è peggio di Lunar Park.
Callie non lo so quando verranno a tirarci fuori, ma non hanno alternative. Il letto è scomodo e puzza di sudore, ci hanno preso l’accendino e quella cosa lì, ma io e te non vogliamo fare del male a nessuno, vero?
 
S è seduta sull’umido pavimento della cella, all’interno del commissariato – in equilibrio sui talloni, sposta il peso da un piede all’altro per sentire il rumore bagnato della suola delle scarpe che si stacca dai lastroni luridi. Callie detesta gli spazi che separano le mattonelle, ci vede le piste dei ratti e dei germi fluorescenti, così S ha disegnato un nuovo reticolo di inchiostro nero che nasce dai suoi polpastrelli e le restituisce, vibrazione su strappo, i mugolii delle anime intrappolate nella ragnatela.
Callie distribuisce leccate e pizzicotti, raccoglie i denti e semina coltelli, prendendo a lagnarsi quando S cade in un silenzio troppo denso.
Aspetta, odiando gli interminabili sprechi di secondi fra una tappa e l’altra del suo gioco della morte.
Aspetta che i poliziotti smettano di lanciarle occhiate protettive, come se fosse stata un cucciolo perso nella notte. Aspetta che passino le ore e si affrettino i giorni, e rivolge preghiere intimidite ai graffi che ricoprono le pareti, affinché il tempo salti la parte in cui deve arrivare Lui.
La ragnatela schiocca e le anime gemono, investite dal terrore della ragazzina.
Non devo avere paura, non devo avere paura, si ripete ad occhi chiusi. Callie mi protegge e il tempo e il disegno e ciò che ho rubato, lui non può farmi del male, mancano quasi quattro giorni prima che lo trovino morto.
Sboccia un sorriso sulle sue labbra mangiate, ma dura troppo poco: dei passi pesanti, inselvatichiti, suonano per il corridoio illuminato a led, avvicinando l’uomo dei suoi incubi ad un punto in cui può sentire tutto l’odore incandescente della sua rabbia.
La sua voce lacerata e stopposa, vomitata a fiotti dalla bocca, intasa la serratura della porta.
- Lo state facendo di nuovo.
S si stampa una mano sul viso, trattenendo gli spasmi di paura che le fioccano per tutto il corpo ad immaginarlo lì, dietro le sottili sbarre di metallo.
- Mostri.
Nella testa di S si spegne la luce e il buio comincia a sbattere con forza, dall’interno del cranio.
- Non siete degni di vivere. Non meritate di respirare, neanche se foste rinchiusi in una tubatura diecimila metri sottoterra.
Suo fratello non avrebbe serrato gli occhi. Brian gli avrebbe risposto di guardarsi le gambe, le braccia, di trascinarsi davanti ad uno specchio e di provare a riconoscere il proprio volto.
Dopodiché, Lui gli si sarebbe avventato contro, quasi soffocato dall’orrore di vedersi riflesso; Brian avrebbe sopportato i morsi, i tagli, pur di vedere alla fine la Bestia crollare sfinita. Dai muscoli orridi della creatura sarebbero riemersi i lineamenti di Jimmy e per un po’ avrebbero fatto finta che non fosse successo niente di brutto.
- Mi basterà chiuderti in un luogo dove nessuno ti senta gridare.
 
Mi basterà guardare il cielo di notte, dal terrazzo dell’ultimo piano
Per sapere che non c’è davvero nient’altro, in tutto l’universo
che capirà.
Niente quanto un volo contro il cemento nelle notti senza luna.
Io parlo di te con tutti i rumori paurosi che mi prendono alle spalle,
con ogni giornata scura,
con ogni lampione spento.
 
(ma tu dove sei?)
 
Il mondo di Brian è improvvisamente tiepido.
Il ragazzo dagli occhi verdi gli viene incontro attraverso il locale; le bolle di niente scoppiano mentre si sfila il giubbotto, i guanti bucati, il berretto di lana appesantito dalla condensa; scoppiano le bolle agli angoli del sorriso che le sue labbra faticano a trattenere, e la sua pelle è di un colore acceso e vivo che contrasta con le tinte acide e lacrimose che ricoprono tutto il resto, e le percezioni esterne finiscono sotto i piedi di Brian, espulse dal suo corpo da un’improvviso getto di una sostanza più reale dei loro accidenti frantumati. Essere pieno di sensazioni soltanto sue lo lascia disorientato.
Non si pensa, davanti ad un viso come quello di Benjiamin.
Lo si guarda, apparire, illuminarsi, stropicciarsi e collidere con l’atmosfera, deformare lo spazio in lunghi scivoli di sguardi – curva del naso, occhiaie, le guance, la piega delle palpebre.
- Che cazzo di freddo che fa. – battono i suoi denti come una macchina da scrivere.
Scrive l’aria, la voce di Benjiamin, compone la luce che esplode fra i polmoni di Brian.
- Sono dovuto venire in bicicletta. A mia madre non piace questo posto.
- Forse a tua madre piace ancora meno che ci sia io, in questo posto.
- Probabil…- il resto finisce, insieme allo starnuto, nei guanti che Bee sta cercando di sfilarsi dalle dita intirizzite.
E poi si guardano.
E continuano a guardarsi – Bee con un angolo della bocca che trema, l’altro sentendosi crescere dentro un disagio per tutto, tanto che non sa nemmeno dove mettere le braccia – anche quando una cameriera dalla faccia verde chiede loro se vogliono ordinare qualcosa.
- Una birra rossa media. Tu?
- Un tè alla menta. – fa Brian a bassa voce, arresosi a fissare la punta bagnata delle proprie scarpe.
- Un tè alla menta. – ripete Benjiamin, mentre si apre in un sorriso dei suoi, scuotendo leggermente la testa.
- Mi sei mancato. – riprende, quando la cameriera si eclissa.
Brian si agita sulla panca, insofferente. – Puoi smetterla di guardarmi?
- Perché?
- ‘Cause I’m ugly just to see.
A Brian capita, a volte, di dimenticare com’è il suo viso. Ricordarsene in questo momento, pesto per i lividi neri e verdastri, l’angolo della bocca spaccato, lo fa quasi sprofondare sotto il tavolo per la vergogna.
- Tu per me sei bello sempre. – Occhi Verdi adesso ha la gola secca. – E io?
- Tu cosa?
- Se ti sono mancato.
- No.
Adesso potrebbe calare un silenzio rimbombante, partire dalla radio note stonate – subito impigliate fra le bocche spalancate di tutti i presenti, ammutoliti e voltati simultaneamente a fissare i due ragazzi e il mostruoso “no” pronunciato da Brian, sospeso sopra le loro teste come una nuvola di gas. Invece siamo soltanto noi a tendere le orecchie al suono spezzato del cuore di Benjiamin.
- Perché sono venuto a trovarti spesso. Ti ho guardato dormire, soffiando sopra il tuo letto le stelle filanti dei bei sogni.
- Avrei preferito svegliarmi.
- Perché? – Brian alza gli occhi per guardarlo di nuovo, con una lieve smorfia divertita sulle labbra. – Non ti sono piaciuti?
L’altro sta per aprire la bocca e ribattere, ma un’ombra si delinea sul tavolo proprio in mezzo ai loro profili.
- Scusate? Mi dovete dare una mano.
 
Saskia Viskji, le mani piantate sui fianchi morbidi, fa rimbalzare uno sguardo strano da un ragazzo all’altro. Posandosi su Brian, si sporca di curiosità famelica, malia e preoccupazione; staccandosi da lui si fa più limpido, per riscaldarsi di sorpresa negli occhi verdi di Benjiamin.
- Non riesco a far uscire Emma dal bagno… Non dice una parola, non fa un rumore. Vi prego.
- Penso che dovremmo rispettare la sua privacy. – risponde il primo, indifferente. – Non possiamo certo sfondare la porta…
Benjiamin guarda Saskia, perplesso. – La porta? Ma i bagni del League non sono sempre…
- Chiusi.
Brian si alza di colpo, facendo trasalire entrambi. Gli occhi spalancati e fissi sulla ringhiera dietro cui è scomparsa la ragazza, inspira a fondo per cercare il suo odore. Se ci avesse fatto caso, poco fa, avrebbe notato che, mentre il profumo di Saskia era rimasto ben percettibile per tutto quel tempo, quello di Emma era del tutto svanito.
In un secondo balza sul tavolo, lo scavalca e schizza giù per la tromba di scale di legno, intimando a Benjiamin uno “stai fermo dove sei o ti uccido”, che il ragazzo ovviamente ignora per seguirlo a ruota, imitato da Saskia.
È quando il suo piede è sul primo gradino che un pensiero fulmineo attraversa la mente del ragazzo – troppo veloce per essere formulato in parole, troppo veloce per cambiare idea e risalire. Una sensazione schiacciante di pericolo, sorta dall’ombra, si avventa su di lui facendogli perdere l’equilibrio; Benjiamin ruzzola giù malamente, frenato appena in tempo dalla schiena di Brian, indistinguibile dal buio totale in cui si ritrovano immersi.
Due occhi lo fulminano, brillando pallidi della luce fioca che scende dal locale.
- C’è un’interruttore, sul muro. - la voce di Saskia arriva inaspettata e vicinissima, facendolo trasalire.
Mentre Brian tasta il muro alla ricerca dell’interruttore, lo sguardo di Benjiamin è attirato da un movimento alle loro spalle; i gradini, torti nella rozza imitazione di una scala a chiocciola, sono imbevuti di una profonda ombra viola e sembrano quasi pulsare e srotolarsi nell’oscurità. Benjiamin strizza le palpebre, tentando di penetrare il buio – è soltanto legno, si ripete, incredulo della paura che l’ha afferrato senza preavviso, legno tarlato e nient’altro, nient’altro.
Legno vivo?... si insinua nella sua testa; le assi si dilatano come fibre muscolari, divorano lo spazio del pianerottolo sotterraneo fino alla punta delle sue Nike, gorgogliando sorde, annullandogli il battito cardiaco. Batte le palpebre sugli occhi orripilati e quelle sembrano tornare al loro posto, e subito dopo ricominciare a strisciare…
- Brian. Quel maledetto interruttore. – mormora fra i denti, a voce più bassa possibile.
Uno schiocco polveroso, un ronzio discorde e prolungato.
La nuda lampadina che penzola sopra le loro teste si illumina per un secondo, brillando incandescente, prima di fulminarsi in scintille acide, riconsegnando i loro respiri gelidi alle tenebre.
Benjiamin e Saskia trattengono il fiato, irrigiditi, appena confortati dal riuscire a sfiorare i vestiti dell’altro. Un fruscio umido disegna il percorso delle mani di Brian sul muro.
Fsssh…
Fsssh…
Fsssh…
…Stomp.
Compensato povero e scorticato, coperto di inchiostro e schizzi di vodka e piscio.
- A chi con attenzione cerca, sempre sarà data una porta. – Gli occhi di Brian appaiono d’un tratto, iridescenti, gettando una luce biancastra sugli incisivi che sbucano dal suo sorriso, un poco più sotto. – Ricordami di ucciderti, quando usciamo da questo buco.
La maniglia ruota, grattando il foro nel compensato in cui è ficcata. Sbriciola schegge sulla mano di Brian, che spinge con delicatezza la porta verso l’interno.
Benjiamin e Saskia lo sentono prendere un profondo respiro. Due. Tre.
Non c’è differenza fra l’interno del bagno e il pianerottolo: lo stesso buio compatto, la stessa aria pesante, uguali il rumore di minuscole gocce di umidità che rovinano l’intonaco e la muffa annidata inerte in ventagli sul soffitto. Solo il pavimento è diverso, sotto i loro piedi.
Freddo come una lastra di ghiaccio.
Il pavimento respira con un ritmo morto da secoli.
Saskia artiglia un braccio di Bee, scavando la pelle con le unghie, quando il cigolio della porta li coglie alle spalle, chiudendoli dentro.
Benjiamin vorrebbe sciogliersi sul pavimento, tanto sente freddo e vorrebbe trovare una mano di Brian, una soltanto, e dirgli andiamo via ti prego.
- Ho un accendino. – sussurra Saskia. – Lo accendo?
Si fruga nelle tasche, e dopo qualche secondo la piccola fiamma gialla bagna i loro volti in curve e cerchi, calda contro i loro muscoli contratti dall’angoscia.
- Passamelo. – le intima Brian, studiando per un momento i loro volti. – Che vi prende? È soltanto un bagno.
Senza aggiungere altro, si avvicina alla parete, muovendo l’accendino per far luce davanti a sé.
Da quello che gli occhi di Benjiamin districano dal buio, la stanza è rettangolare, piuttosto sformata sulla lunghezza; da un lato, una fila di lavabi sbeccati e resi opachi dalla sporcizia – l’ultimo è stato completamente divelto, lasciando intravedere le tubature come ossa esposte -; quello opposto si apre in cinque porte tutte uguali, che nei primi tempi del League dovevano essere laccate di un grigio uniforme, mentre ora sono incise a fondo da simboli puntuti, rigate di unto e divorate da disegni osceni, sequenze di numeri abbandonati lì con la speranza di essere ricordati – “chiamami solo per parlare, solo per parlare lo giuro, non ho strane malattie, chiamami ti prego”- e smozzichi di poesie senza grammatica scritti con la punta secca di un pennarello rosso, tanto rosso su queste porte crivellate dalle ubriacature barcollanti delle principesse che piovevano quaggiù, a piangere.
Soprattutto su quella al centro, dove le scie inaridite si confondono in forme dense, simmetriche e sensuali come macchie di Rorschach.
Quella a cui Brian si avvicina per ultima, quella che non ruota sui cardini al suo colpetto, svelando un piccolo, squallido cubicolo.
 
(rosse anche le piastrelle su cui avanzate strisciando,
piccoli corpuscoli vermosi, rosso il cielo fuori dietro il muro di nebbia, rosso del pianto delle stelle più vicine,
e rosso il vostro cuore che tengo in bocca,
rosso il liquido che mi scivola sul mento,
rosse le gocce in cui leggerò il vostro destino, e cadono sulla merda che copre il pavimento cadono,
e peccato che non vediate,
rosso il colore che ho scagliato su tutte le pareti
tutte le pareti, perché tu te ne andassi via
via
via.)

 
- Ma quello è sangue. – biascica Benjiamin senza intonazione.
Brian si volta appena, e da Occhi Verdi il suo sguardo scivola ad incontrare Saskia. La ragazza si stringe nelle spalle.
- È una storia vecchia.
- Lo so. – il ragazzo avvicina l’orecchio alla superficie della porta; il suo naso è reso inservibile da qualche strano fenomeno che ha preso dimora nel bagno, ma la traccia di Emma svanisce esattamente nel punto in cui si trova. - È dietro questa porta. – Prova a spingerla, prima leggero, poi a colpi sordi. – Ma è chiusa.
La luce scivola di qualche centimetro, le ginocchia di Brian schioccano quando si piega sul buco della serratura, un disco di metallo ossidato tenuto fermo da un perno. Una piastrina triangolare segna “libero”.
Brian stringe due dita attorno al disco e preme per farlo girare, ma senza riuscire ad estrarlo dalla porta. Raddrizzatosi, si guarda intorno – per quanto sia possibile, tenendo alto l’accendino graffiato di Saskia che ogni tanto li abbandona, sopraffatto da misteriosi spifferi – e muove alcuni passi nel bagno.
Benjiamin e Saskia guardano immobili la sua schiena sfocarsi in un angolo buio. Lo sentono frugare in rumori appuntiti, metallo e ceramica e piastrelle in frantumi, finché ritorna con in mano un tubo coperto di tacche, sottile e lungo più o meno quanto un braccio. Con la piccola fiamma sulle dita annodate, sembra un cavaliere a cui il Fato ha tolto la memoria, e che per gelosia ha rinchiuso sottoterra. Per tenerlo vicino e non farlo innamorare delle orbite astrali.
(Che cosa vi prende? È soltanto un bagno.)
Brian abbatte con decisione un’estremità del tubo sulla serratura, facendo schizzare via il disco che sfiora una guancia di Saskia, regalandole uno zigomo di ruggine. Un roco sferragliare riempie l’aria: proviene dal buco su cui il ragazzo si china nuovamente, intravedendo rapidi e minuscoli ingranaggi incassati nel legno, al posto di una normale serratura.
- Questa qui non si apre. – dichiara, chiudendo un occhio per vedere meglio. – È opera di un Mostro dei Chiavistelli.
- Un... che cosa?
- Un Mastro – si affretta a correggersi Brian. – dei Chiavistelli. Loro fabbricano questi aggeggi, loro custodiscono il segreto per aprirli. – conclude alzandosi.
- E adesso? – sbotta Saskia, basita dall’espressione da “ho fatto tutto quello che potevo fare” sul viso di Brian. – La vuoi lasciare lì dentro?
- Perché, Saskia, che cosa c’è lì dentro? – ribatte Brian, velenoso. Le si para davanti, scrutando nei suoi occhi scuri.
- Non lo so. – mormora la ragazza, muovendo la testa a scatti. – Non lo so, non lo so.
- Bri. – Benjiamin si frappone fra loro, cercando di agganciare lo sguardo di Brian. – Lo sento anche io, che c’è qualcosa di… Di oscuro, qui, è freddo e strano, sembra di stare a chilometri dalla luce e la devi tirare fuori quella ragazza, per favore. È una mia amica.
Brian lo guarda in silenzio. I suoi occhi si spengono. L’accendino si spegne.
- Hai imparato a mentire anche tu.
Ed è buio.
Brian sospira e si volta, il pollice già preme sulla rotellina quando un sibilo gli perfora le orecchie.
Schiocchi nelle pareti, e le unghie di Benjiamin che gli si piantano nel fianco.
Le lampadine che dondolano dal soffitto, nate da nodi di cavi neri, si accendono e spengono per tre volte, in rapida successione, e tra gli sfrigolii dell’elettricità che muore, Benjiamin è quasi sicuro di scorgere due figure dalle lunghe membra pallide.
Nel buio totale, dei colpi sordi si abbattono dall’interno della porta centrale, facendogli schizzare il cuore in gola.
L’aria è spezzata dal grido rauco di Saskia, poi Benjiamin viene spinto violentemente all’indietro, addosso alla ragazza e contro il muro. L’intonaco si sgretola sui loro vestiti.
Rumore di ferro sul ferro, stridente, di pioggia di schegge, di lividi e cadute; loro non possono vedere, ma la porta crolla a terra in un unico pezzo sofferente, il corpo di Brian viene scagliato via, e una figuretta esile fende velocissima l’aria, sputata dal cubicolo. Benjiamin sente lo spostamento farsi strada per schiantarglisi addosso, ma qualcosa lo frena e lui si sente afferrare e tirare su dal pavimento. Saskia raschia la parete alla disperata ricerca della maniglia, e quando la trova spalanca la porta e scappa. Benjiamin viene spinto fuori; tenta di correre e di respirare insieme e le sue ginocchia picchiano sulle scale.
Una sensazione delirante di sollievo lo coglie a tal punto che si mette a tremare.
Il corpo che l’aveva spinto lo supera come una massa cangiante, e lui ripiomba nel panico, carponi sui primi gradini. Non funziona più.
È incastrato nella paura.
- Alzati Bee, alzati alzati alzati alzati…
Il corpo è tornato indietro. Benjiamin non riconosce la voce, ma è un’iniziezione di vita nelle sue vene aride.
Con il cuore che martella nelle tempie, segue la corsa dell’ombra e le onde della figuretta disarticolata che porta sulle spalle.
 
Quando riemergono nel calore del locale, una luce densa ridisegna il volto di Brian. I capelli di Emma frusciano contro la sua felpa.
- Andiamo fuori. – sta dicendo il ragazzo, ansimante, indicando l’uscita con un cenno del capo.
L’aria pungente della sera che gli invade i polmoni è stranamente rassicurante, come il basso muretto scalcinato che racchiude il cortiletto sul retro del League, e le molli altalene dei cavi dei binari del treno, che sfiorano la  loro stessa erba.
- Emma! Emma… oddio…
Saskia ha la gola chiusa, la voce rotta, il trucco sciolto sulle guance. Aspira nervosa dalla sigaretta umida di lucidalabbra e segue con gli occhi tutti i movimenti di Brian, mentre questi posa a terra il corpicino, ma non accenna a muovere un passo verso di lei.
- È viva?
- Sì.
- CHE CAZZO ERA… - l’urlo le si strozza in gola, e prosegue in un mormorio. – Che cosa è successo?...
- Io non lo so. Davvero.
I fari veloci di un’auto illuminano metà dei loro corpi, sfigurandoli con il loro pallore giallastro.
- Sarebbe meglio portarla a casa.
- Le hanno rubato l’auto, oggi, a scuola… E vive distante e io…
- Cerca di stare tranquilla. Respira, va tutto bene.
Anche se non crede ad una parola, la ragazza riesce a controllare il singhiozzo. – La porto a casa con me, vivo negli alloggi studenteschi. Prendiamo il treno.
Le nuvole spesse e la luce arancione.
- Non lasciatemi sola.
   
 
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