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Autore: Carlos Olivera    28/12/2013    2 recensioni
Storia partecipante ai contest Ritorno all’Infanzia di Frantasy94, e Il Contest degli Ossimori di Higurashishinko
Tutti corriamo nella vita.
Chi dietro ad un fantasma sfumato tra i meandri dei ricordi, chi verso un sogno di gloria splendente.
E quando afferri la trama sottile del sogno, la costringi a trascendere dall’effimero al tangibile, tra le labbra non rimane che il dolce ma crudo paradosso della fama, tanto da renderlo indistinguibile da una cieca ossessione.
In questo mondo ci sono due tragedie. Una è il non avere ciò che si desidera, l’altra è l’ottenerlo
(Oscar Wilde)
Genere: Drammatico, Fantasy, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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Nota dell’Autore

Eccomi qua^_^

Come poco tempo fa, ancora una volta una nota dell’autore insolitamente posta all’inizio di un capitolo anziché alla fine.

A quanto pare ci ho preso gusto con questi missing moments, queste storie brevi dedicate a personaggi che hanno avuto o hanno tuttora un peso secondario all’interno della trama principale di Tales Of Celestis, ma le cui vite sono importanti ciò non di meno ed aiutano a capire meglio quella società magico-tecnologica venutasi a creare su Celestis.

Il mondo che ho creato si presta bene a questo tipo di storie brevi, nella fattispecie è perfetto per dare vita a racconti che possono per i vari contest ai quali mi diletto a prendere parte.

Nello specifico questa storia breve (che sarà divisa probabilmente in 4 parti) partecipa a due diversi concorsi, ovvero Ritorno all’Infanzia, indetto da Frantasy94, e Il Contest degli Ossimori, di Higurashishinko.

Come accaduto nel caso di I Love You, Kyrador, questa storia è fondamentalmente distaccata dalle vicende che appartengono alla trama principale, il che non rende necessario aver letto l’originale Tales Of Celestis per poterla leggere e comprendere.

Ecco, ho detto tutto.

Spero che vi piaccia.

A presto!^_^

Carlos Olivera

 

PARTE I

 

Sedeva da sola, in quella stanza di cui ormai conosceva ogni angolo, ogni anfratto.

Anche se il titolo non era ancora suo, l’avevano fatta accomodare nella stanza della quale, secondo molti, si sarebbe rimpossessata prima di sera.

Non c’era stato bisogno di sfrattare il suo avversario, visto che le zone assegnate a uomini e donne erano comunque separate, ed ognuna delle due aveva la propria Stanza dei Campioni, ma ovviamente a Warewolf la cosa non doveva fare molto piacere.

Alla sua destra, l’armadietto, dove per tanti anni aveva riposto i suoi oggetti prima di scendere in campo, e subito accanto il rubinetto, per sciacquare via l’ansia alla partenza e lavare il sudore al ritorno. A sinistra un simulatore, poco più di una lattina, in cui provare le ultime combinazioni per accertarne l’efficacia. Alle sue spalle, la Parete della Gloria, dove allineati l’una accanto all’altra capeggiavano le gigantografie dei campioni  degli ultimi dieci anni, trofei al cielo e medaglie al collo.

C’era anche lei.

Il chandra era tutto questo.

Era sport sì, ma anche spettacolo, esibizionismo e tanti, tanti soldi.

Non c’era sport in tutta Celestis che avesse pari successo.

Chiunque entrava in una machina, anche chi la magia non la possedeva di suo, per un istante poteva diventare tutto ciò che aveva sempre sognato; poteva essere un prode guerriero, un abile stregone, un promettente arciere, o un selvaggio lottatore.

Le fantasie che ognuno portava nell’anima, il chandra le rendeva reali. E per chi vinceva, per chi arrivava lassù in cima, c’erano fama, gloria e ricchezze.

Tutte cose che lei aveva saggiato, dopo averle cercato più a lungo di quanto volesse ricordare, e che, indipendentemente dall’esito di quell’incontro, sarebbero tornate a lei, se solo lo avesse voluto.

Ma non sapeva se lo voleva.

Erano successe troppe cose. Troppi eventi si erano accavallati negli ultimi mesi, troppe certezze erano venute meno, troppe illusioni si erano sgretolate.

Non sapeva neppure per quale motivo si trovasse lì. Perché avesse accettato la sfida che il campione, proprio lui, le aveva lanciato.

Poteva scomparire, eclissarsi, isolarsi dal mondo proprio nel cuore della più grande città del pianeta, ma lei restava pur sempre Octavia.

Si chiamava Helena, ma per il mondo era quello il suo nome.

Octavia. La Rosa di Kyrador.

La stampa aveva creato quel nome, e la folla lo aveva fatto suo. Lo sentiva anche in quel momento, invocato senza sosta dal piano di sopra, come un urlo di guerra di un esercito pronto alla carica.

Una voce parve riecheggiare alle sue spalle, misteriosa ma, al tempo stesso, famigliare, quasi amichevole.

 

«Li senti? Chiamano il tuo nome.»

«Chiamano Octavia.»

«E non è forse la stessa cosa?»

«Octavia è solo una parte di me.»

«Una parte della quale ormai non ti puoi più liberare.»

«Una parte di cui farei volentieri a meno.»

«Eppure, mi pare che un tempo non desiderassi altro.»

«Già. Hai ragione. C’è stato un tempo in cui non desideravo altro che questo.»

 

Helena Loyde era nata in un piccolo appartamento di un grande complesso popolare nel settimo distretto.

Non erano le stradacce dell’ottavo o del nono distretto, dove si poteva venire assaliti per pochi kylis nel portafoglio, ma anche lì la vita non era facile.

Suo padre faceva il ferroviere, un mestiere abbastanza decoroso che garantiva alla sua famiglia di che vivere, ma che lo costringeva a lunghi periodi lontano da casa, sballottato da una corsa all’altra in giro per tutto il continente. Sua madre lavorava occasionalmente in un centro per anziani, ma il più delle volte se ne restava chiusa in casa, troppo persa dietro a sogni di gloria mai realizzati per prestare attenzione a quanto accadeva attorno a lei.

I primi anni, sotto il profilo dell’affetto, erano stati difficili, con un padre gentile ma perennemente sempre assente e una madre che, già distratta di suo, spesso la trascurava per il lavoro, e così capitava spesso che a prendersi cura di lei fosse la famiglia Warner, dirimpettaia della famiglia Loyde.

Anche i Warner avevano una figlia, Luna, della sua stessa età, e da che erano nate erano più i giorni che avevano trascorso insieme di quelli spesi l’una lontana dall’altra.

Si consideravano in sorelle, e avevano nel chandra un interesse comune.

Come molti altri bambini della loro età, fin da bambine avevano preso a seguire con passione le sfide trasmesse alla televisione, rimanendo affascinate da ciò che il chandra permetteva di fare a chiunque entrasse in una machina.

Combattere sfide entusiasmanti, misurarsi in scontri all’ultimo sangue dai mirabolanti effetti speciali, sprigionare poteri e abilità che persino il mago più talentuoso nella realtà poteva solo sognarsi, erano tutte cose che accendevano non solo la loro fantasia, ma più in generale quella di chiunque seguisse o praticasse lo sport più popolare e seguito di Celestis.

Ma con il passare degli anni, non fu più solo quello ad entusiasmarle.

Più le due bambine crescevano, più agli occhi di entrambe, e di Helena in particolare, diveniva chiaro come il chandra fosse ben più che un semplice sport. Vedere tutti quegli atleti ricchi, famosi e perennemente al centro dell’attenzione osannati dalle folle fece nascere in loro il comune il desiderio di emergere, di ritagliarsi una fetta di quel mondo dorato che potevano intravedere, in lontananza, tutti i giorni, dai balconi delle loro semplici case.

Da laggiù, i palazzi del centro sembravano un paradiso, un eremo di perfezione dove era possibile conoscere la vera felicità, la stessa che aveva spinto i loro antenati a giungere fin lì dalla Terra.

Tuttavia, sia lei che Luna sapevano di avere un grande handicap; non sapevano usare la magia.

In un mondo come il loro, dove tutto ruotava in funzione della magia, appartenere a quella ristretta minoranza di individui che sapevano servirsene senza l’apporto di qualsivoglia strumento costituiva il primo e principale mezzo con cui raggiungere il cuore di Kyrador, poiché solo a chi dimostrava di poter contribuire alla grandezza e al benessere del mondo era concesso di entrare nel giardino proibito.

La magia era un dono con cui ci si nasceva, e per chi non la possedeva la strada era tutta in salita.

Ma non senza speranza.

Occorreva impegnarsi, e molto, ma la storia gloriosa di Kyrador era piena di persone che, pur non essendo maghi, avevano conquistato tutto quello che Helena e Luna sognavano ogni giorno di riuscire un giorno ad ottenere.

Persino molti chandristi tra i più amati conosciuti in tutto il pianeta erano persone che come loro provenivano da realtà difficili, estranee al mondo di cui un giorno erano riuscite a diventare parte. Era la prova che non era impossibile, e che anche loro potevano avere la loro occasione, se solo l’avessero cercata.

Helena, ogni giorno, passava ore ad osservare quei palazzi, quei fili d’erba bianchissimi che emergevano dalla parte più ricca e prospera di quel grande giardino chiamato Kyrador, affacciata dal suo balcone. E spesso Luna era lì, accanto a lei.

«Ce la faremo, Helena.» disse un giorno Luna, quando avevano appena undici anni «Ce ne andremo di qui, e avremo un futuro grandioso. Avremo fama e gloria.»

«Secondo te è davvero possibile?» domandò Helena, che pur cercando di dimostrare il contrario nel profondo del cuore non credeva sul serio che una cosa del genere fosse alla loro portata

«Senza dubbio. Questa non sarà la nostra vita. Diventeremo ricche e famose, e avremo tutto quello che vogliamo.»

 

«Niente male per una ragazzina delle scuole medie.»

«Allora ero fatta così. Se mi dicevi che una cosa era impossibile da farsi, non mi fermavo fino a che non riuscivo a dimostrare il contrario.

Del resto, quando vieni al mondo in un luogo con così poche prospettive e senza nessuna  certezza per il futuro, vuoi credere che là fuori ci sia sempre qualcosa di meglio.»

«E lo hai trovato qualcosa di meglio?»

«Immagino di sì.»

 

A causa delle ristrettezze economiche della sua famiglia, Helena non aveva potuto permettersi di ricevere regali di compleanno simili a quelli che venivano fatti alla maggior parte delle ragazze della sua età, ma tenuto conto anche della buona media scolastica suo padre, per i tredici anni, una volta tanto aveva voluto regalarle qualcosa di speciale.

Così, quello stesso giorno, lei e Luna erano salite in macchina per una destinazione sconosciuta, e grande era stato il loro stupore quando si erano viste comparire davanti l’ingresso della Magic Arena, il tempio mondiale del chandra.

Sorvolando sul fatto di averli ricevuti in regalo da un collega che era dovuto partire all’improvviso per un lutto in famiglia, il signor Loyde aveva messo le mani su tre biglietti per la finale del campionato mondiale individuale professionistico, che si sarebbe svolto proprio quel giorno.

Per le ragazze entrare nell’arena e sedere tra il pubblico fu un po’ come toccare il loro sogno, anche se solo di sfuggita. Non importava che fossero posti economici, talmente lontani dal ring da far fatica a vedere qualcosa; l’importante era essere lì, nel cuore del giardino proibito, a vedere con i loro stessi occhi quelle persone che, come loro, avevano alle spalle un passato difficile, ma che in qualche modo erano riuscite ad emergere.

Luna voleva trionfare nella vita proprio come loro, e se quello sport che tanto le piaceva era uno dei mezzi per poterci riuscire sarebbe stato sicuramente tutto più facile, oltre che appagante.

L’incontro fu senza esclusione di colpi, assolutamente spettacolare, e vide prevalere Mida, incoronando il primo campione del mondo non caldesiano da tre anni a quella parte.

Ma il meglio doveva ancora venire.

Per poter aspirare sul serio al titolo di campione del mondo, il neovincitore proveniente da Alepto doveva affrontare e sconfiggere l’attuale detentore del titolo, il quasi imbattuto Bastion, chiamato a difendere nuovamente la sua corona per la sesta volta in meno di un anno.

Helena e Luna lo incontrarono mentre erano in coda alla caffetteria dell’arena, circondato da giornalisti e fan in delirio, oltre che dal suo numeroso seguito di agenti di scorta, manager e sponsor, e a forza di bracciate riuscirono a farsi strada fino ad arrivargli davanti.

Anche con lui non era stata particolarmente generosa. Era nato in una famiglia ricca, ma il destino aveva voluto farlo venire al mondo affetto da una grave malattia, tanto seria che ormai sia le sue braccia che le sue gambe erano artificiali.

Lui più di chiunque altro incarnava ciò che il chandra e non solo poteva dare a chi riusciva ad arrivare in alto a dispetto di tutto.

Così, a bruciapelo, Helena sentì di dovergli fare una sola domanda.

«È possibile per chiunque diventare un campione di chandra?»

«Certo che sì.» rispose lui con un sorriso «Se hai forza di volontà, tanta dedizione, e non ti spaventa la fatica, puoi diventare una grande campionessa».

Non aveva bisogno di sentire altro.

Per rabbonire i giornalisti, già propensi a considerarlo prossimo alla disfatta viste le qualità dimostrate dal suo prossimo avversario, Bastion si fece fare una foto assieme alla ragazzina, e da quel giorno quell’immagine, custodita gelosamente tanto nel comunicatore virtuale quanto soprattutto nel cuore, divenne per Helena uno dei suoi più grandi tesori.

Sarebbe diventata una campionessa di chandra.

Senza dubbio.

 

«La foga non ti ha mai fatto difetto. E nemmeno l’intraprendenza. Questo bisogna riconoscertelo.»

«Due ore dopo, Bastion aveva perso il suo titolo. Ma non mi importava. Le sue parole mi avevano toccato.

Potevo farcela.

Potevamo farcela.

Potevamo essere campionesse, e andarcene da quel posto senza prospettive.»

«Tutto perfetto. Se non fosse per un piccolo ma importante dettaglio. Per poter essere campionesse di chandra, dovevate gareggiare. E per poter gareggiare, bisognava far parte di una palestra.»

«E da quelle parti, per nostra fortuna, ce n’era solo una.»

 

Da quel giorno, Helena aveva preso il coraggio a quattro mani, e forte del suo proverbiale spirito combattivo maturato in anni di zuffe per le strade si era decisa ad iniziare la sua carriera di chandrista.

L’unica palestra sufficientemente vicina era il Pugno d’Argento, proprio a metà strada tra il liceo e la sua casa; poco più che uno sgabuzzino, con poche machina di seconda mano per gli allenamenti e una sola arena virtuale, oltretutto con un sistema operativo a dir poco preistorico, per i combattimenti.

La gestiva Boniek, un butterato tutto muscoli con in testa una palla da bowling costretto anni addietro a lasciare il chandra professionistico per un incidente di percorso che ne aveva compromesso la carriera; per tirare al domani aveva dato vita a quella specie di fucina di talenti, ma da che aveva aperto non era mai riuscito a creare un solo campione.

Nel vedere entrare nella sua tana due ragazzine poco più che quattordicenni, lui e gli altri frequentatori della palestra, quasi tutti teppistelli da strada o ragazzotti senza particolare talento, non riuscirono a trattenere una risatina divertita.

Luna, spaventata, corse quasi subito a nascondersi dietro la schiena dell’amica, che di contro non esitò a camminare verso il proprietario in doppio petto e con le mani appoggiate ai fianchi.

«Questo non è un parco giochi, signorine.» disse il proprietario sovrastandole con la sua figura spaventosa

«Vogliamo iscriverci alla palestra».

L’affermazione suscitò l’ilarità generale.

«Ma avete idea di dove vi trovate? Ripeto, questo non è un parco giochi. Qui si fa del chandra. Roba seria.»

«E allora?» replicò Helena con aria di sfida

«E allora!? E allora non è roba per signorine».

Helena rise anche lei, ma in modo ironico.

«310. Alice Mayer vince il campionato nazionale dilettanti. 316. Alice Mayer vince il campionato nazionale professionisti. 318. Alice Mayer ottiene il titolo di campionessa del mondo battendo il detentore del titolo. Sfida conclusa ai punti, risultato finale 2500 a 2000. 320. Eleonore Winslow vince il titolo di campionessa di Fhirland. 323. Judy March vince il titolo nazionale a Ebridan. 330. Ling Watchins vince la prima edizione della categoria femminile ai giochi olimpici di Blazov. Vuoi che continui?».

Boniek la guardò stizzito, masticando nervosamente la gomma che aveva in bocca.

«Hai fatto i compiti, ragazzina. Questo te lo concedo.

Ma teoria e pratica sono due cose diverse. Con quel fisico minuto e senza un briciolo di magia in corpo, non resisteresti neanche un minuto sull’arena. E non ho alcuna intenzione di allenare chi parte già sconfitto, né di starti a guardare mentre ti fai rompere le ossa da avversari grossi il doppio di te.» quindi fece un cenno ad uno dei suoi «Mettile alla porta».

Quello, con modi non proprio da gentiluomo, allungò un braccio verso Helena nel tentativo di afferrarla, ma lei, con uno scatto felino, gli afferrò il polso, glielo storse, quindi, malgrado fosse il doppio di lei, lo scaraventò a terra con una perfetta torsione della schiena.

Nella palestra calò il silenzio, e Boniek non riusciva a credere ai suoi occhi.

Quando si vide nuovamente guardare da Helena, poi, sorrise divertito.

«Sai picchiare. Dove l’hai imparato?»

«Non hai bisogno di saperlo. Allora, ci prendi nella tua palestra o no?»

«Fai la voce grossa, per essere solo una mocciosa. Credi che saper menare le mani sia l’unica cosa di cui hai bisogno in questo sport? Nel chandra ti serve ben’altro.»

«Possiamo imparare. Siamo qui per questo dopotutto».

Di nuovo Boniek sorrise, e fatto qualche passo avanti portò nuovamente la sua imponente figura a troneggiare sopra le due ragazze.

«Trecentocinquanta kylis al mese. A testa, ovviamente.»

«Ma è più del doppio di quello che viene chiesto abitualmente.» riuscì a dire Luna

«Senti tappetta, avete idea di quello che succederebbe se mi venisse un controllo e vi beccassero qui? Come minimo mi farebbero chiudere bottega. Dovrò pur compensare il rischio.»

«Dalle condizioni in cui versa questo porcile» obiettò velenosa Helena «Ho idea che un controllo tu non sappia neanche cosa sia.»

«Non infastidirmi coi dettagli. Allora, ci state o no?».

Helena si prese qualche istante di riflessione. Quanto a Luna, lei le idee le aveva già piuttosto chiare; tralasciando il fatto che quel posto non la ispirava per nulla, più di ogni altra cosa quella che Boniek esigeva era una cifra che per loro era quasi impossibile potersi permettere.

«Helena, andiamo via.»

«Due e cinquanta.» replicò invece la ragazzina senza starla a sentire

«Cos’è, stiamo mercanteggiando?» replicò beffardo Boniek «Non sperare di fare la dura con me, perché non attacca».

Ma Helena non aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro, e seguitò a fissare l’uomo con sguardo di sfida.

Alla fine, tra lo stupore dei suoi allievi, fu lui il primo a desistere, almeno in parte.

«Tre e quaranta.»

«Due e settanta.»

«Tre e quindici.»

«Trecento.»

«Andata. Ma saltate il pagamento anche solo di un’ora, e vi butto fuori a calci.»

«Ci stiamo.»

«Aspetta Helena.» obiettò Luna «Sono un sacco di soldi.»

«Ce la faremo, Luna.» rispose la ragazzina guardandola negl’occhi ed accendendoli con il suo spirito «Questa è l’occasione che abbiamo sempre cercato».

Alla fine, Luna desistette, come al solito del resto.

Non ce la faceva. Non riusciva proprio a non fidarsi della sua migliore amica.

Il tutto si concluse con una stretta di mano.

«Vediamo che sapete fare.»

 

«Come ho già detto, niente male per una ragazzina.»

«Sapevamo che sarebbe stata dura. Quello che non avevamo ancora capito, era quanto potesse davvero essere dura.»

 

Boniek infilò subito le due ragazze all’interno delle machina dell’arena virtuale.

Non era la prima volta che Helena e Luna provavano materialmente l’esperienza del chandra, ma quella sarebbe stata la prima volta in cui avrebbero avuto la possibilità di dare vita al proprio vessel, il proprio alter ego virtuale che da allora sarebbe diventato il loro inseparabile compagno di avventure.

Helena sentì un moto come di orgoglio nel momento in cui, sedutasi, vide il portello della capsula chiudersi sopra di lei, e gli schermi guida di assistenza per la costruzione del vessel accendersi uno dopo l’altro tutto attorno ai suoi occhi.

Finalmente, la sfida che lei e Luna si erano poste anni prima poteva essere intrapresa.

Una machina degna di questo nome avrebbe avuto a disposizione una infinita possibilità di scelta e scrittura, ma i rottami che Boniek e la sua palestra potevano permettersi avevano una tavolozza creativa ridotta quasi all’osso, che limitava di parecchio la libertà creativa.

Entrambe fecero del loro meglio per creare qualcosa che si avvicinasse il più possibile a quanto si erano sempre immaginate, e a lavoro finito i loro vessel comparvero all’interno dell’arena, esposti al pubblico ludibrio.

Luna aveva deciso, contrariamente alla maggior parte dell’uso comune, di dar vita ad un avatar completamente diverso da lei; capelli bianchi lunghi, raccolti in una fluente coda di cavallo e lasciati cadere dietro la nuca, un abito come da chierica bianco e rosso, sandali ai piedi e, come arma, una lancia.

Helena invece sembrava essersi fotocopiata, poiché, nei limiti imposti da quell’obsoleto programma di creazione, aveva creato il proprio vessel ad immagine e somiglianza di sé stessa. Come arma, aveva scelto una spada, una sciabola non troppo lunga con una elaborata impugnatura destinata a proteggere la mano, molto simile a quella che era diventata il marchio di fabbrica del deposto campione Bastion.

Dal momento che la machina era programmata per replicare fedelmente la stazza fisica e la massa muscolare del chandrista facendone l’ossatura del vessel, tanto Luna quanto Helena avevano dato vita a degli avatar che ben testimoniavano tanto la giovane età quanto il fisico non esattamente palestrato, cosa che inevitabilmente costituiva agli occhi degli spettatori un ulteriore motivo di scherno.

«Aspettate a ridere.» disse Boniek vedendo che nessuno dei suoi allievi riusciva a trattenersi dal farlo «Il divertimento inizia ora».

Gli fu sufficiente azionare un comando, e da un istante all’altro Helena e Luna ebbero come l’impressione di venire letteralmente strattonate via dalle poltrone cui erano assicurate, una sensazione alla quale avrebbero finito con l’abituarsi molto presto.

Istintivamente chiusero gli occhi, e quando li riaprirono erano all’interno del proprio vessel al centro dell’arena.

Era qualcosa di stranissimo, quasi inconcepibile.

Sapevano bene che quello in cui si trovavano era un corpo fasullo, un ammasso di dati digitali, eppure non sembrava avere nulla di diverso da uno fatto di carne e muscoli; sentivano l’aria sul viso, la pelle carezzata dai vestiti, la terra sotto i propri piedi.

Prodigi di una tecnologia che era stata capace di fondere gli arcani segreti della stregoneria con i più moderni ritrovati scientifici.

«Allora, avete finito la passerella?» le richiamò Boniek azionando il cronometro «Non è una sfilata di moda. Forza, dateci dentro. Avete dieci minuti per convincermi a non sbattervi fuori».

Quella prima prova di chandra propriamente detto fu, per usare un eufemismo, un colossale disastro.

Helena e Luna si resero conto quasi subito di essere come dei burattinai che cercavano, senza riuscirci, di far muovere un pupazzo dall’interno. I loro corpi erano legnosi, scoordinati, impossibili da controllare.

Tra il momento in cui pensavano ad un’azione e quello in cui effettivamente la compivano passavano anche diversi secondi, e il più delle volte questa non riusciva neppure bene. Se cercavano di colpire ad un braccio finivano senza volerlo per mirare alla spalla, se cercavano di camminare a destra si spostavano invece a sinistra.

Era come essere prigioniere di un corpo mosso da una volontà altrui.

«Ma le conoscete le basi almeno?» domandò spazientito Boniek cercando di sovrastare le risate dei presenti «Più sciolte! Non state a farvi le seghe mentali! Quello che la mente pensa, il corpo esegue! Non è così difficile».

Invece, era anche troppo difficile, almeno per chi un vessel non l’aveva neanche mai comandato.

Il principio infondo era lo stesso che regolava il movimento di un qualunque corpo umano. Nel momento in cui un combattente formulava un pensiero questo veniva interpretato dal computer, il quale lo convertiva nell’azione desiderata. Tuttavia, per quanto la simulazione desse l’impressione che mente reale e corpo digitale fossero virtualmente uniti all’interno dell’arena, si trattava pur sempre di far muovere in sintonia due entità molto distinte, che comunicavano tra loro solo tramite il computer.

A meno di non possedere una mente reattiva, capace di reagire prontamente agli stimoli provenienti dall’esterno, e con sufficiente esperienza da permettere alla macchina di interpretare alla perfezione ogni singolo pensiero in modo praticamente istantaneo, era un po’ come voler insegnare ad un neonato a guidare.

Se si perdeva troppo tempo a formulare un pensiero, o questo non era sufficientemente nitido, il computer perdeva tempo ad analizzarlo, o altre volte finiva per reinterpretarlo a modo suo, con risultati facilmente prevedibili.

Tutto ciò non toglieva che il dolore fosse molto reale.

Le spade, le lance e qualunque altra arma passavano attraverso il corpo senza provocare reali ferite, all’infuori di quelle ricreate dal computer per esigenze sceniche, ma la sensazione di venire colpiti era incredibilmente realistica, ed il suo effetto principale era di rendere il contatto tra la mente e il vessel ancor più debole.

In fin dei conti, era così che si vinceva. Spezzando il legame.

Boniek era talmente deluso che non aspettò nemmeno lo scadere del cronometro, o che una delle due prevalesse sull’altra; già dopo cinque minuti, sbuffando come un getto  di vapore scaraventò le due ragazze fuori dalle machina con l’arresto di emergenza.

«Se non fosse che ci rimetterei seicento kylis, vi darei una caramella, un calcio nel didietro, e vi metterei fuori dalla porta.»

«Miglioreremo.» si affrettò a dire ansimante Helena «Ci alleneremo con tutte le nostre forze. Noi vogliamo diventare delle campionesse.»

«Se i presupposti sono questi» replicò l’allenatore passandosi una mano sulla testa pelata «Il massimo che potrete aspirare a vincere saranno le esibizioni gratuite della domenica nei centri commerciali.»

«La prego.» disse Helena quasi con le lacrime agli occhi, gettando via per la prima volta quella sua aria spavalda e sicura di sé «Non la deluderemo più, promesso».

Di fronte a quell’espressione supplichevole, ma comunque ferma nelle proprie posizioni, indipendentemente dalle difficoltà, Boniek intravide per la prima volta quella determinazione propria di un vero chandrista, restandone atterrito. Chissà, forse in quelle due ragazze, e nella irruente castana dall’aria sbarazzina in particolare, aleggiava davvero lo spirito di una coppia di potenziali campionesse.

Soffiando, prese un fazzoletto dalla tasca, passandoselo sulla fronte sudata.

«Pare proprio che qui dovremo cominciare dal principio».

  
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