Angolino
di Sofy:
Guten
morgen guys!!!!!!! Finalmente siamo tornate con il secondo capitolo di
questa
magnifica, entusiasmante, bellissima (modestia a parte) storia. Voglio
leggere
molte recensioni , e buon anno (in ritardo) a tutti.
Un
saluto , Sofy.
Angolino
della Whitlock:
Kalimera
neaniai!!! XD
(Dal tedesco al greco… Sopportateci! <3) Allora, mi
aspetto come Sopy
miliardi di recensioni visto che abbiamo zappato letteralmente per
stendere e
ristendere questo capitolo. Per i piantagran…
Ehmm… Per chi è dotato di un
grande senso dell’osservazione, si accorgerà
subito che quasi all’inizio del
capitolo è riportato, un po’ modificato, un
paragrafetto de “La lettera
scarlatta” (cambio pure
colore XDXDXD)
di Nathaniel Hawthorne, più in là
c’è una formula “magica” de “L’orrore a Red
Hook” di Lovecraft e poi vi
sono
delle terzine dell’ “Inferno”
di Dante. Preciso che non sono affatto plagi ma,
anzi, sono
tributi a grandi autori che vi permetteranno (osservatori speciali,
dove siete?
In voi confido e soprattutto confido nell’attentissima e
inimitabile Konnichiwa
<3) di svelare il mistero della trama. Ora, prima che Sophy mi
incenerisca,
vi auguro buon anno <3
Baciotti,
Rita
<3<3<3
Wyrd-Destiny
Capitolo 2-POV Crystal
Braccia protese
verso l’Oceano, moli di
legno marcio immersi nell’infinito tumultuoso delle acque, le
barche dei
pescatori attraccate a poppa, con le assi incrostate di sale e cigolanti al vento. Correvo.
A piedi nudi sul prato:
l’azzurro del cielo, stranamente sgombro dalle nuvole gonfie
di veleno divino ,
rifletteva come un cristallo la luce e il
calore dell’Astro diurno. Il sole sulla pelle, lo sfrigolio
lontano di migliaia
di rami nella foresta e il canto dell’erba piegata dalla mia
felicità. Il blu,
il verde e il rosso dell’umano, della natura e di un fiore
stretto tra le
labbra: ero felice e la risata affiorava e sfociava come un fiume, un
torrente
giocoso ed incontrastato, nella gioia pura e folle , il sapore della
libertà.
Correvo verso il porto, laggiù, dove il tramonto, il fuoco
della luce sfiorava
languido le onde per il mero piacere di vederle brillare come spose
adorne si
rarissima bellezza, cinte dalla semplicità disarmante
dell’amore. Dove, da
centinaia di anni, l’odore di salsedine
s’infiltrava tra le strette finestre
del castello Doonagore, la mia casa… Arrivai in paese e, per
evitare di inciampare
nei ciottoli sconnessi del corso principale, rallentai la mia andatura
fino a
fermarmi ad ascoltare Doolin nella fervente dinamicità del
mezzogiorno: il
fabbro che batteva l’acciaio fuso delle spade
sull’incudine, i cavalli che nitrivano,
le voci quasi lamentose dei commercianti che invitavano la gente a
comprare la
loro mercanzia,le urla dei bambini che si rincorrevano, il
chiacchiericcio
delle comari inglesi… Quelle donne di antico sangue
anglosassone erano fatte di
una fibra molto più rude della mia: infatti, nel corso degli
anni, ogni madre
aveva trasmesso alla figlia un sangue più mite, una bellezza
più delicata ed effimera
e un corpo più sottile ma non uno spirito meno forte e
sicuro. Erano, in altre
parole, le copie perfette di quella regina, la traditrice Elizabeth I:
tutte
della stessa razza, nutrite di birra e
di carne di bue, né il tono dei loro discorsi era di gran
ché più raffinato.
Normalmente, cercavo di non rivolgere loro nemmeno un cenno del capo ed
esse facevano
lo stesso, pettegole e acide com’erano: ma la giornata era
così bella che mi
ispirava così tanto buon umore da spingermi addirittura a
salutarle con un
insolente sorriso che si addiceva alla perfezione sul mio viso.
«La figlia del
Maligno…» Sussurrarono facendosi il segno della
croce. Bigotte: io ero figlia
di mio padre e non del loro Diavolo! Non risposi e prosegui verso il
Doonagore
ma la gente continuava a fissarmi come se fossi nuda e mi additava
senza
vergogna: «Il peccato l’ha generata!»;
«Che Dio ce ne scampi!»; «Ma chi
è?»;
«La figlia di Mefistofele che dissacra la terra del
Signore…» La mia felicità
stava pian piano svanendo: cosa diamine volevano?! Io ero la figlia di
Sir Emmett
McCarty ed esigevo rispetto! Peccato che lui odiasse metodi come la
forca o il
rogo… D’un tratto la vecchia signora Hibbins (che
aveva fama di strega oltre
che di distinta nobildonna sfondata di soldi…) mi si
avvicinò per la prima
volta in vita sua: era vestita di velluto scarlatto, con un cappello a
cono e
una gorgerina inamidata con quello strano amido giallo consigliatole
dalla sua
cara amica Anna Turner, prima che fosse impiccata per il feroce
assassinio di suo
marito. «E così, milady» mi chiese la
megera «ritorna dalla scogliera? Mi
avvisi quando vi ritornerà, potrei esserle utile con la
presenza oscura che
abita le Cliffs of Moher.» Montai su tutte le furie:
cos’erano ai quei
discorsi?! «Lei è una bugiarda, una maledetta
stronza! Vada all’inferno, lei e
la sua presenza!» Urlai fuori di me. «Ah!
Ahahahahahah! Certo che parla così in
pieno giorno, milady! Ma sa benissimo che il suo nome (assieme al mio)
è
vergato con il sangue sul libro dei dannati!» E si
allontanò. Come mai quella
giornata di felicità si era trasformata in una lista di
infamità gratuite?
Ripresi a correre, prendendo a gomitate la folla di gente che si era
radunata intorno
a me e che sussurrava menzogne con tono velenoso e
strascicato… Sembravano serpenti…o
demoni. Arrivai con le lacrime agli occhi di fronte al rifugio
inespugnabile
perfino dal tempo, il mio bel castello di roccia granitica, e la mia
tristezza
si dissipò come una nuvola cattiva. Il sole splendeva alto e
ogni cosa, ogni
dettaglio, era specchio per rimirare il proprio riflesso:
l’erba, il mare
stranamente in bonaccia, l’aratro abbandonato dai contadini,
le armature dei
soldati in vedetta, gli occhi infiniti di mio padre che avrei rivisto a
momenti… Un momento! Era davvero lui quell’uomo
con le gambe penzoloni
nell’acqua seduto sulla banchina? Certamente le spalle
imponenti erano le sue,
la chioma corvina spettinata al vento anche e avrei scommesso in
aggiunta pure
i bellissimi occhi scuri che avevo solamente immaginato alla sua
vista… Gli
corsi incontro, desiderosa di conforto dopo le cattiverie della gente:
«Padre,
padre!» lo chiamai allegramente, cercando di attirare la sua
attenzione: lui
non rispose e non si voltò nemmeno. Lo raggiunsi e lo
scrollai per le spalle:
«Ahahahahahah! Volete scherzare, eh? Ma non fate come quella
gentaglia oggi in
paese che diceva… Bè… Insinuava che
fossi figlia del diavolo! Che sciocchezza,
vero padre?» Dissi
attirandolo a me: lui
cadde come un fantoccio tra le mie braccia, quasi fosse stato di paglia
e non
di carne, non ne sentivo il peso. La testa ciondolò
paurosamente e io la voltai
in modo che potessi osservargli il viso: inorridii. Buttai il suo corpo
ai miei
piedi, il cuore in gola per l’infernale visione del suo
volto, una maschera
livida e avvizzita come se il suo capo fosse stato messo a seccare al
sole, gli
occhi inesistenti, due orbite vuote e nere. La sua bocca, poi! Una
freccia gli
aveva trafitto la gola scheletrica e le gengive, ritiratesi al massimo,
mostravano denti lunghissimi e marci. Urlai come un’ossessa
di fronte a quella
visione: stavo impazzendo, non poteva accadere davvero! D’un
tratto un vento incredibile
si alzò dalle acque e le nubi ricoprirono il cielo: le onde
manifestarono
subito tutta la loro potenza infrangendosi contro la banchina,
l’aria puzzava
di sangue ,nuvole nere
si
formavano all’orizzonte e ogni cosa presagiva
una tempesta. L’oscurità
della coltre di nubi impediva alla luce di manifestarsi: sembrava notte
e fonda
e la cosa più inquietante era che invece della pioggia
venivano giù cascate di
sangue scarlatto e risa diaboliche riempirono il mare, quasi fosse una
stanza
vuota ed immensa… Le acque bollivano e cadaveri di ogni
specie affioravano
dall’oceano e demoni ridevano e gridavano:
«O
compagna e amante della notte, tu che gioisci
quando
ululano i cani (un ululato spaventoso mi
fece
tremare dalla testa ai piedi) e il caldo sangue
è
versato (grida
morbose, gorgoglii indescrivibili)
tu
che vaghi con i fantasmi tra i sepolcri (un sibilo)
che
hai sete di sangue e trafiggi con gelido terrore
il
cuore dei mortali (grida acutissime da cento gole)
Gorgo
(ripetuto
in risposta), Mormo (ripetuto in
estasi),
luna dai mille volti, volgi propizio il tuo
occhio
al nostro sacrificio!»
E
in quel momento sembrò che il cadavere di mio padre
riprendesse vita e la sua carne prese fuoco da sola, quasi fosse
carbone: ero
immobilizzata dal terrore… Ma poi una voce di donna che non
avevo mai udito (tuttavia
il cuore mi diceva che quella donna mi apparteneva…),
disse dolce e
malinconica:
«
Io venni in loco d'ogne luce muto,
che
mugghia come fa mar per tempesta,
se
da contrari venti è combattuto.
La
bufera infernal, che mai non resta,
mena
li spirti con la sua rapina;
voltando
e percotendo li molesta.
Quando
giungon davanti a la ruina,
quivi
le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian
quivi la virtù divina.
Intesi
ch'a così fatto tormento
enno
dannati i peccator carnali,
che
la ragion sommettono al talento.»
Il
tono delle sue parole mi commosse ma l’inferno aveva
spalancato le sue porte e opprimeva troppo il mio cuore per non provare
altro
che un senso di puro raccapriccio e desiderio di fuggire. Allora, un
cadavere
raggiunse la banchina e con una mano viscida a fredda
cominciò a trasportarmi
verso le acque ribollenti. «PADREEEEEEE!» Urlai
mentre affogavo tra le fiamme.
Il
tocco delicato e fresco, profumato come una rosa, di una
mano piccola e morbida mi riportò alla luce:
«Milady, perché si agita tanto? Mi
fa spaventare se continua ad urlare…» Disse una
dolce voce femminile a me
sconosciuta. Aprii gli occhi di scatto e mi misi subito a sedere sul
grande e
comodo letto a baldacchino in cui mi trovavo. La stanchezza impediva al
mio
cervello di lavorare in maniera accettabile: la mia mente vagava ancora
tra cadaveri, risa
diaboliche, tempeste…
«Cosa è successo?» Biascicai con la voce
impastata dal sonno. «Milady, non ricorda?
Siamo alla taverna “Calon Cymru”, dove ci siamo
fermati la notte scorsa, essendo
la strada troppo buia e dissestata per proseguire. Milord Carlisle non
vuole
correre rischi soprattutto ora che c’è
lei!» Cinguettò la donna di prima.
Era seduta su una seggiola accanto al mio letto e mi fissava
preoccupata, tenendo sulle ginocchia un vassoio d’argento con
una ricca
colazione: dall’aspetto sembrava molto giovane (forse aveva
passato da poco i
vent’anni) e ogni dettaglio del suo fisico magro ma non
esile, suggeriva
un’aria materna e allo stesso tempo una grande forza
d’animo. I suoi lineamenti
erano nobili e raffinati, incorniciati da una bellissima chioma color
caramello
al pari degli occhi grandi ed espressivi: avrei scommesso che fosse una
signora, magari una duchessa, e rimasi di sasso quando mi disse di
essere la
governante di quel Carlisle Cullen. «Esmeralda, milady, ma
lei può chiamarmi
Esme.» Aggiunse con un sorriso. Cullen, Cullen…
Chi diavolo era? Non riuscivo a ricordare altro che gli
orrori di quello
che si era rivelato solo un sogno, quando ad un
tratto i raggi del sole
rischiararono anche i miei pensieri.
Ma certo! La sera
prima lo spirito di mio padre aveva appena raggiunto i Campi Elisi
sulle note
del mio violino e all’improvviso uno sconosciuto mi aveva
abbracciato, farneticando
a proposito di “non lasciarmi sola” o cose del
genere ed io come una stupida avevo
accettato di seguirlo anche dopo che mi aveva detto di essere un lord
inglese!
Che traditrice del mio sangue… La disperazione
rende gli uomini ciechi e
dimentichi della loro grandezza individuale e li costringe a vendersi
ad un
destino aberrante… Eravamo partiti quella notte
stessa sul calesse personale
di Cullen, trainato dai miei due purosangue arabi, Fire e Ash: tutti i
ricordi
erano maledettamente confusi ma rammentavo chiaramente il luccicare
dello stemma
d’argento sullo sportello, un leone rampante
d’argento su sfondo blu (o rosso?)
alla luce lunare… Non avevo nemmeno salutato Elizabeth ed
Edward! In un moto di
follia balzai dal letto urlando: «Io devo tornare a Doolin e
SUBITO!» Esme
saltò in piedi e mi bloccò le braccia, mentre
cercavo di buttare all’aria tutta
la stanza: «Milady, non può tornare a Doolin!
Siamo quasi arrivati a Leap
Castle nel centro dell’Irlanda e…» Mi
afflosciai: «CENTRO DI CHE…?»
«Dell’Irlanda.» Ripeté
paziente. Caddi di nuovo sul letto,
la testa affondata nel cuscino: stavo per svenire. Disegnai idealmente
nella
mia mente la cartina dell’Irlanda: Dublino ad Est, Doolin
sulla stessa retta ma
sulle Cliffs of Moher, ad Ovest e a miglia e a miglia di distanza dallo
sconosciuto Leap Castle… «Che cosa ho
fatto?» Sussurrai atterrita, ponendo la
domanda più a me stessa che a lei. «La cosa
giusta: milord ha molto a cuore il
suo avvenire.»
«Credi?»
«Certo!
E sono sicura che suo padre ne sarebbe felice!»
Ne
dubitavo fortemente: già vedevo il suo sguardo, di solito
tranquillo, turbato da un’ombra di disappunto, gli occhi spenti nel buio della
delusione… Aguzzai lo
sguardo verso al parete di mattoni nudi che avevo di fronte, riuscivo a
vedere
la calce che si sbriciolava e andava a formare piccoli mucchietti di
polvere.
Che strano… L’immagine di papà era
stata così reale, avrei potuto giurare di
aver sentito la sua marsina sfiorare la parete…
Siamo fatti della stessa
materia di cui sono fatti i sogni: Shakespeare
riaffiorò tra le pieghe
della mia memoria dolente: e se avessi potuto rivederlo come Amleto? E
se
avessi potuto vendicarlo come fece egli stesso assassinando lo zio
Claudius? Il
calore del pensiero mi lacerò il cuore, una goccia salata
attraversò il volto
fino alle labbra, seguendo il percorso lasciata da un solco che le
precedenti
avevano scavato, quasi fosse, la mia pelle, terra bagnata da lavorare
come
creta… Padre… Quanto mi manchi…
«Non puoi saperlo.» Replicai con voce rotta dal
magone.
Esme
chinò il capo
accennando un inchino: «Io non pretendo di sapere,
milady… Io so di non
sapere ma una donna sa quando una ragazza che le
potrebbe esser figlia
si trova in pericolo o nelle mani di un uomo di sangue puro e
nobile!» La mia
anima era consapevole che Esme aveva ragione ma, allo stesso tempo, la
mia
razionalità si sentì oltraggiata: creatura
pressoché cinica, il mio orgoglio
non si piegava ai sentimenti… Scoppiai in una risata
sarcastica, il sapore di
una lacrima ancora sulla lingua: «Sangue?! SANGUE?! Che ne
sai tu di
stirpe e di famiglia? Io, il cui onore deve essere insozzato da un
inglese, uno
che è fratello dell’assassino di mio padre! Ti
rendi conto? Io lo disprezzo
perché la stessa terra ha generato lui e quel bastardo
omicida! Che vada al suo
castello senza di me! Io ho un uragano dentro di me che potrebbe radere
al
suolo l’Inghilterra e tutto il continente!Sbriciolarla ,
bruciarla , cancellarla!
Non mi piegherò alle lusinghe di…» Non
riuscii a terminare i miei vaneggiamenti
perché in quel momento qualcuno bussò alla porta
e la aprì quel tanto da permettere
ad Esme di esclamare: «Lord Cullen!» Il suo profilo
era ancora seminascosto fra
le ombre e il suo volto mi era ancora sconosciuto, nonostante
l’avessi già
incontrato la sera prima. «Ehm… Buongiorno
Esmeralda… Che milady e che voi
possiate perdonarmi per questa mia intrusione così contraria
al buon costume ma
vi chiedo umilmente il permesso di entrare.» La voce,
però, me la ricordavo
bene: era dolce senza essere falsa o melensa, gentile ed educata con un
lieve
accento londinese, i toni pacati e tenorili… Non era
possibile che, così
perfetta, appartenesse ad un corpo ma piuttosto a qualche
entità ultraterrena.
La governante si alzò e visibilmente imbarazzata disse:
«Ma si figuri, milord:
la sua è presenza imponibile per quanto
lietissima…» Spinse finalmente la porta
e, nel momento in cui varcò la soglia, la stanza essere
priva d’aria e si restrinse
fino a diventare uno sgabuzzino. Rossa di vergogna per essere stata
sorpresa a
sparlare di lui, rimasi completamente a bocca aperta ad ammiralo. Il
suo fisico
era magro ed asciutto, era alto almeno due spanne in meno di mio padre
ma non
per questo perdeva di imponenza e fierezza. Aveva capelli biondo
dorato, lustri
e pettinati che scivolavano in avanti fino a costituire le lunghe
basette: era
sbarbato (a differenza di papà) e la pelle del viso era pura
e diafana come
quella di un bambino. Il naso lungo e dritto, le labbra sottili, le
guance
perfettamente modellate davano un’idea di assoluto equilibrio
delle forme e di
un’età al massimo aggirabile intorno ai
trent’anni. Ma ciò che mi turbò fino a
perdere il senso della realtà, furono i suoi occhi: poco
allungati ma non
tondi, erano di un eccezionale verde smeraldino che “ti
penetra e ti distrugge,
arde e cade in una liquida combinazione di passione, orgoglio e
determinazione”.
Edward… Lui disse così dei miei occhi
e devo ammettere che all’epoca
(quanto tempo in realtà? Un mese o due? Eppure sembrava una
vita…) sarebbe
sbocciato un amore se io non gli avessi riso in faccia solo
perché mi
vergognavo troppo… Amore… Se lo avessi avuto
adesso, Edward! E, ora, quello
sconosciuto aveva i miei stessi occhi…
Razionalità, razionalità…
Dov’era
quando serviva? Era tutto così assurdo: come…
Perché… Cioè… Era una cosa
demoniaca! Non potevo lasciarmi portare via gli affetti della mia vita
da un
uomo con la mia stessa anima, se era vero che “gli occhi sono
lo specchio dell’anima”
(come dicevano i bambini di quattro anni quando volevano sembrare
grandi…),
Cullen poteva essere la mia versione maschile…
Arrivò finalmente quel briciolo
di ragione che avevo invocato poco prima e una vocina rise nella mia
testa: “E
se tu appartenessi davvero a lui? Perché
sei qui altrimenti?” Scacciai
quel pensiero con forza e lo sguardo mi cadde sul suo abbigliamento:
calzoni di
velluto nero infilati negli stivali lunghi fino alle ginocchia, una
marsina di
seta verde ricamata in mille ghirigori d’oro, lasciata
completamente sbottonata
su una camicia bianca piena di volant… E io? Una
“misera” vestaglia di lino: se
non si vedeva tutto, almeno la maggior parte… Mi ritirai le
coperte addosso di
scatto, non sapevo se fosse più rossa la mia pelle o i miei
capelli. E in quel
momento l’aria sembrò ritornare nella modesta
stanza da letto: Carlisle (porca
puttana perché mi veniva spontaneo chiamarlo per nome?!),
cioè, Cullen, voltò
la testa verso la porta, mormorando una scusa.
«Non si preoccupi Sua Signoria, non sono
importanti gli sguardi ma le
intenzioni che essi celano: quali sono le sue?» Gli chiesi
caustica, evitando
di guardarlo negli occhi. Lui
prese la
sedia che aveva lasciato Esme qualche minuto prima e vi si
accomodò con aria
grave e risoluta: «Fare il tuo bene, Crystal: ecco le mie
intenzioni.»
Scoppiai a ridere,
una risata quasi demoniaca, per quanto fosse triste: «Milord,
le darò del tu
perché lei lo ha fatto, quindi… Dicevo?
Ahahahahahah sì! Ho imparato da anni
che gli angeli benefattori non esistono o, al massimo, sono demoni
pentiti e
l’istinto mi dice che Carlisle Cullen ha molti scheletri
nell’armadio o, come
preferisco dire, nel cuore.» Sbiancò dalla testa
ai piedi per un solo istante-
il necessario per accorgersene- e poi riprese il controllo di
sé in modo straordinariamente
rapido: «Cosa te lo fa pensare?» Mi sistemai
seduta, fingendo di leggere le
parole sul soffitto a volta: «Oh, l’elenco
è lungo: 1) Perché tu, padrone di un
castello del centro Irlanda ti trovavi all’estremo Occidente
dell’isola, in uno
sperduto paesino di mare, chiamato Doolin?; 2) Io non ti conosco: per
qual
motivo dovrei fidarmi di te?; 3) Cosa rappresento per un Lord di stirpe
inglese
che trasuda accento londinese ad ogni parola e che dovrebbe odiarmi ?;
4) Cosa
si nasconde dietro la tua facciata di santo martire?; 5) Chi mi dice
che non
sia stato proprio tu ad uccidere mio padre, ieri sera?» Misi
enfasi sull’ultima
domanda, sentendomi soddisfatta, soddisfatta ferocemente come un leone
che
gioca con la propria preda prima di sbranarla nel modo più
crudele che conosce.
Cullen, invece, aveva il volto coperto da una maschera di antica
tristezza… Una
MASCHERA appunto…
«Non
lo ucciso io… T’imploro: fidati di me.»
«No.»
Conclusi laconica.
«Se
la pensi così, il tuo cuore è di pietra
come…»
«COME
IL TUO!» Tuonai. «NON MI DAI ALCUNA SPIEGAZIONE,
APPARI COME UNO SPIRITO DOPO UN ASSASSINIO (DI CUI FORSE SEI
RESPONSABILE),
DOPO CHE HO PERSO MIO PADRE E COSA MI DICI? “Fidati di me,
Crystal, fidati…” TU
PER ME NON SEI NIENTE! NIENTE! E SE HO UN MALEDETTO CUORE DI PIETRA
È PERCHÉ LA
VITA. FA. SCHIFO!!!» Tremavo, per la prima volta dopo anni,
anni che erano trascorsi
come veleno instillato nella mia anima goccia dopo goccia, tremavo di
terrore.
E l’aspetto più crudele e sinistro era che, le
cause di quell’inquietudine, non
venivano dall’esterno, dagli scherzi sadici del Fato, ma da
dentro, affondava
le sue radici nella parte più oscura e terrificante del
cuore. Ero spaventata
dalle parole che si erano appena riversate dalla mia bocca in modo
incontrollato,
senza che potessi catturarle e imprigionarle nel Tartaro con i
Titani… Gli
occhi bruciavano ma non avrei pianto, avrei retto fino alla fine con
stoicismo.
Eppure se… Se la durezza con Carl… Carlisle aveva
portato in me un turbamento
inumano, potevo davvero continuare a comportarmi così
freddamente, addirittura
accusandolo di omicidio (l’istinto mi diceva che non poteva
essere vero, tuttavia
avevo detto quelle calunnie…)? E poi
quei tremori incontrollati si
calmarono con le carezze di un demonio
che aveva sempre abitato in me: l’Egoismo. Lui
mi aveva spinto a
prendere in giro Edward per mesi e mesi, gettando legna sul fuoco del
suo amore
per me, rifiutandolo con cieco cinismo le sue attenzioni. Lui aveva
generato la
mia apprensione quando il castello venne preso dagli inglesi, mi aveva
fatto
versare lacrime amare sul volto esanime di Emmett McCarty, il padre che
non
avevo mai voluto perdere. Tutto perché? Perché
ero una bambina viziata la quale
voleva evitare la propria sofferenza al costo di sembrare egoista e
stupida. E
ora? Uno straniero mi aveva raccolto dal gelido terreno
della disperazione come un fiore d’estate
abbandonato tra tormente e bufere invernali e io lo respingevo, lo
rifiutavo
come se fosse un mostro… L’Egoismo, malefico,
sussurrò: “Smettila, sciocca!
Così perderai un porto sicuro… Dove andrai quando
questo Lord si stancherà dei
tuoi capricci e dei tuoi vaneggiamenti?Del tuo essere te stessa sempre
e comunque?
Almeno, anche se non vuoi amarlo, usalo, sfruttalo!» E allora
capii che il mio
terrore era paura di perdere Carlisle. Fui finalmente riscossa dalle
mie fantasie
dalla sua voce tetra che diceva: «Anche la morte fa schifo,
come dici tu. È
così squallida, putrida, sudicia, viscida e maligna che i
suoi artigli ti si infilano
tra le pieghe più nascoste dell’animo, lo
infettano, lo rendono capace di farti
desiderare nient’altro che oblio, che altra morte uccida i
gli altri uomini,
anche chi ami. Godi della sofferenza come un demone, ne desideri in
quantità
sempre maggiori, quasi come se il buio nutrisse il tuo spirito di
ambrosia… La
brama di sangue ti consuma se non ti rendi conto che la vita
è fede, volontà di
combattere e di guarire dal tuo stesso dolore… Vuoi
diventare un abominio
Crystal? È questo che vuoi? Vivere nell’ombra e
all’inferno?»
«Io
sono già un abominio ma non voglio peggiorare.»
Mormorai, non rendendomi conto fino in fondo del significato delle sue
parole.
Il volto di Carlisle si distese in un sorriso luminoso come il sole:
«E allora
accetta il mio aiuto, soprattutto non farti domande. Non sei costretta
ad
amarmi e nemmeno ad odiarmi: pensaci.» Non ci pensai,
l’istinto rispose per me:
«D’accordo.»
«Mi
rendi così felice che la mia mente vola troppo in alto,
non riesco a mantenerla a terra qui con te.»
«Fai
pensieri più pesanti.»
«Cosa?»
«Niente,
lasciami sola.» Dissi, recuperando la mia solita
acidità nei confronti di un inglese, soprattutto.
Uscì come un gatto, senza far
rumore, i suoi piedi sembravano non toccare terra e io sprofondai con
la testa
nei cuscini, furiosa con il mondo. Schiumavo di rabbia per la perdita
di mio
padre, per la gentilezza ingiustificata di Cullen, per la mia
stupidità: ero
così stanca… E poi, come una fiamma che, prima di
spegnersi dà il massimo del
proprio calore e della propria bellezza, l’immagine di un
violino accanto ad un
cadavere riempì i miei sensi, il mio cuore fino a farlo
scoppiare di domande…
Dov’era il mio strumento? E il corpo di papà
giaceva ancora supino sui tappeti
della sala, a marcire e nutrire vermi? Oppure qualcuno si era preso la
briga di
seppellirlo? E soprattutto… Il suo assassino! Era ancora in
fuga? Perché aveva
agito? Ma chi era? Un inglese o un sicario irlandese pagato da qualche
malfattore fedele alla Corona? E con la forza pressante di questi
interrogativi
decisi di alzarmi e di vestirmi: non sarebbe servito a molto restare a
piangere
tutte le mie lacrime su un cuscino di piume d’oca, dovevo
combattere, accendere
il fuoco della speranza e della fede e andare avanti per cercare di
salvare le
uniche ancore che ancora mi tenevano strettamente legata alla vita ,
lasciare
il passato e pensare al futuro… Nella modesta stanza
c’era solo una piccola
cassettiera, il letto a baldacchino, un comodino e una sedia:
un’ampia finestra
faceva filtrare nella camera fasci di luce dorata attraverso una spessa
tenda
drappeggiata di blu. Era impossibile che dei vestiti da donna, anche se
non ricchi
e voluminosi, potessero essere stati piegati e stipati
all’interno di quei
minuscoli cassetti… Sbuffando mi diressi verso la porta e mi
affacciai sul
minuscolo corridoio claustrofobico, tanto buio da dover essere
illuminato dalle
torce nonostante fosse giorno. Mi feci coraggio e sussurrai:
«Esme…» La donna
sembrò spuntare dal nulla e quasi caddi
all’indietro per lo spavento , boccheggiando:
in realtà era seduta proprio accanto alla porta e io, come
una sciocca, non
l’avevo notata. «Milady, mi dispiace di averla
turbata ma avevo pensato che,
forse, restando accanto all’uscio avrei potuto esserle
più utile che dall’altra
parte della locanda.» Mi rassicurò lei con il suo
elegante inchino poco accennato.
Era sempre così gentile, così dolce…
Positività e bellezza trasudavano dal
sorriso che leggermente increspava le sue labbra, dagli sbuffi di
capelli color
caramello che, ribelli, rifiutavano di essere completamente raccolti
sotto la
tipica cuffia bianca da governante, dai suoi occhi castano
dorato… Il fuoco
della speranza mi disse che se dovevo combattere avevo bisogno di
alleati ed
Esme sarebbe stata una di quelli.
Le dissi di non
preoccuparsi e brevemente esposi il problema dei vestiti: lei si
allontanò per
qualche minuto e ritornò con un pesante baule intarsiato
d’argento e stoffa
blu, mi ricordava vagamente lo stemma sulla carrozza… Quando
lo aprimmo rimasi
a bocca aperta: tulle, seta, gemme e raso costituivano quegli abiti
bellissimi,
lavorati e ricamati dalle mani degli angeli, tanto erano perfetti e
stupefacenti…
«Sono bellissimi.» Boccheggiai incredula. Non
vedevo qualcosa del genere da
quando avevo sei anni! Mio padre da allora non mi aveva fatto mancare
niente ma
non aveva più potuto permettersi capi così
preziosi… «Lord Carlisle ha pensato
anche a questo, milady: mi invita a porgerle le sue scuse, inoltre, in
quanto
erano abiti di sua moglie. Per ora non ha avuto tempo di commissionarne
altri,
milady, ma li avrete molto presto.» Io ero ancora
frastornata: «Va benissimo…
Cioè… No, non si preoccupasse, possiamo farci
spedire i miei da Doolin… E… Io…
Non vorrei che Sua Signoria milady si offendesse per aver preso in
prestito
questi capolavori…» Cincischiavo cose senza senso,
presa dall’imbarazzo e
dall’euforia: Carlisle era davvero troppo gentile. Esme fece
un sorriso mesto:
«Non credo che milady Lilian possa volerli restituiti: vede,
lei non è più su
questa terra da ormai sedici anni…» Mi
crollò il mondo addosso: Carlisle, così
buono ed altruista come sembrava, non meritava una sciagura simile. Chissà
come aveva amato e rimpianto quella donna, chiunque fosse… Forse
la maschera
di antica tristezza era per la sua morte, così come le sue
elucubrazioni su
quanto la fine della vita fosse terribile. Compassione, ne ebbi
compassione
perché mi ricordava straordinariamente la storia di mia
madre, la quale
raggiunse il paradiso per darmi alla luce… «Mi
dispiace.» Mormorai. «Cosa
potrei fare per milord?» Chiesi più a me stessa
che ad Esme. Ma lei si illuminò
e rispose: «Accettare questi vestiti: li prenda come se
fossero un dono e non
un prestito.»
«Lo
farò di buon grado.»
«La
ringrazio, milady. Posso darle un suggerimento?»
«Certo.»
«Indossi
l’abito rosso scarlatto in fondo al baule, quello
tempestato di topazi e rubini. Le starebbe d’incanto e milord
resterebbe senza
fiato.»
Mi adoperai subito per tirarlo fuori da lì con delicatezza: era fatto di purissima seta orientale, la scollatura a V era vertiginosa ma non troppo “provocante”, il disegno semplice esaltava, una volta indossato, le mie forme poco pronunciate , mi calzava a pennello come se fosse fatto su misura. Era il cosiddetto “abito da dea”: era praticamente dritto, come una sottoveste e poteva essere indossato solo da chi era molto giovane e non fosse troppo in carne o troppo magra. «È divina, milady!» Esclamò Esme estasiata. «Vado a prendere il mantello da viaggio, così sarà pronta per partire.» E sparì. Mi sentivo forte, una fiamma guizzante che avrebbe potuto incendiare il mondo se fosse stata lasciata libera, un potere sconosciuto sembrava scorrere nel mio sangue , mi sentivo potente… Aprendo un cassetto, trovai uno specchio. Lo misi di fronte a me, volendo verificare se davvero Esme avesse ragione. Ma lo specchio non rifletteva nessun volto, nessun vestito… Non c’era nulla se non l’immagine della parete alle mie spalle. Caddi svenuta in preda allo shock.
http://www.youtube.com/watch?v=LGNlAIEbtGw
http://www.youtube.com/watch?v=aRZMHXoOK5g
Per una lettura
più "celtica" si consiglia l'ascolto delle due tracce a
basso volume