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Autore: Beatrix Bonnie    09/01/2014    0 recensioni
Lei mi ascoltò in silenzio, ma alla fine mi fece un'unica domanda che mi tormentò per molti anni a venire: «Sei sicuro che ne valga la pena, Remus?»
Accettare quel posto per pagarmi il liceo avrebbe significato passare la giornata a scuola, per poi attraversare buona parte del centro e raggiungere il porto, dove avrei passato due ore a lavorare; e avrei dovuto ridurmi a studiare e fare i compiti la sera dopo cena, con un pessimo rendimento. Tutto questo, solo per riuscire a frequentare prima il liceo e poi l'università.
Ne valeva davvero la pena?
Era il mio sogno, dopotutto.
Valeva la pena, combattere per i propri sogni?
Sorrisi.
«Sì, mamma, ne vale la pena».

La storia di un giovane ragazzo sognatore che decide di combattere fino alla fine pur di veder realizzati i suoi obiettivi. Un esempio di virtù e costanza, sullo sfondo di un Irlanda che si affaccia faticosa alla modernità industriale.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ciclo di Faerie'
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EPILOGO




Dublino, 2014




Quando terminai il racconto, spiai di sottecchi la reazione di Maryon: sembrava più tranquilla adesso, o almeno sufficientemente calma da non ripiombare in crisi isteriche.
«Un folletto, eh?» mi sussurrò, accennando ad un breve sorriso. Le rivolsi uno sguardo enigmatico: era inutile che si fingesse tanto sospettosa, perché sapevo benissimo che lei era a conoscenza, sul mondo di Faerie, di più segreti di quanti avrebbe mai ammesso. Maryon infatti ebbe il buon gusto di non sfidarmi più a lungo con quella faccia incredula, ben conscia che, se io la avessi costretta a parlare, avrebbe avuto anche lei un bel po' di segretucci da rivelare sui suoi traffici con il mondo fatato. Traffici che io avevo sempre saggiamente ignorato.
Lasciando cadere la questione, Maryon si alzò dal letto e andò a recuperare la vecchia fotografia che aveva lanciato lontano in un scatto d'ira. Rappresentava Eleanor, quando aveva più o meno la sua età. Quando, più o meno, stava per sposarsi anche lei. Con me. «Vorrei tanto che fosse qui» mormorò, osservando i tratti del volto della madre.
Era morta la mia Eleanor, quando non aveva nemmeno compiuto i trent'anni. Leucemia, e non c'era stato niente da fare. Una breve agonia in ospedale e poi lei era volata via, così, lasciandomi vedovo dopo che l'avevo amata a desiderata tanto, solo a crescere una figlia di quattro anni e ad abitare un vecchio faro vuoto.
Avrei mentito, se avessi detto che ormai avevo superato il trauma. Perché erano passati vent'anni.
Balle. A volte piangevo ancora, di notte, pensando a lei che non c'era più. Sì, ero andato avanti, come tutti, e, certo, si poteva sopravvivere a qualsiasi cosa, ma parte di me era volato via con lei, quel giorno in cui mi aveva lasciato, e non sarebbe mai più tornato indietro. Non riuscivo a voltare pagina perché l'avevo sempre amata, anche quando lei nemmeno sapeva della mia esistenza, e non potevo smettere di amarla ora, anche se lei non c'era più, ora che avevo capito che lei mi avrebbe amato per sempre.
E anche io l'avrei amata per sempre.
Rivolsi un sorriso triste a Maryon. «Anche io vorrei che Eleanor fosse qui. Ma... è un po' come se ci fosse, perché finché noi porteremo nel nostro cuore il ricordo di lei e del suo amore, lei vivrà in noi» le risposi e, anche se ero fermamente convinto di quello che avevo detto, perfino a me sembrarono banali frasi di circostanza.
Perché l'essere umano non può bearsi di un'immagine effimera: deve amare un altro essere umano per sentirsi completo. Deve amare un prossimo.
E l'unica persona che avrei mai potuto amare con la stessa intensità con cui avevo amato Eleanor era mia figlia Maryon. Le avevo dedicato ogni amorevole cura paterna, le avevo dedicato tutto me stesso e tutta la mia vita.
Se fossi stato egoista, avrei voluto che non si sposasse, per non lasciarmi qui solo. Ma, davvero, sarei stato troppo egoista. Perché sapevo che quel matrimonio sarebbe stata l'unica cosa che avrebbe potuto renderla davvero felice: leggevo nei suoi occhi quello stesso intenso desiderio che aveva caratterizzato il mio sguardo di innamorato.
Tra l'altro, Maryon stava per sposare Christopher McGregor, il figlio di Alfred. Il destino aveva uno strano senso dell'umorismo: i fili della trama delle nostre due famiglie continuavano ad incrociarsi in modo davvero imprevedibile.
Ma, per fortuna, Chris non assomigliava al padre, né era cresciuto come un marmocchietto viziato: era un ragazzo maturo che sapeva quello che voleva e sapeva come ottenerlo; ma era anche incredibilmente gentile, dolce e innamorato perso della mia Maryon: avevo toccato con mano il fatto che per lei fosse disposto a sacrificare qualsiasi cosa, come non aveva saputo fare suo padre per Eleanor.
Inoltre, io sapevo che anche lei lo amava, e lo sapeva benissimo pure Maryon, ma in quel momento era confusa dalle troppe legittime preoccupazioni che l'avevano assalita e aveva bisogno che qualcuno glielo ricordasse.
Mi alzai dal letto sul quale ero rimasto seduto tutto il tempo e afferrai mia figlia per le spalle, costringendola a alzare il suo viso verso di me. «Maryon, tu ami Chris?» le domandai con intensità, fissando i miei occhi nei suoi.
Lei esitò solo una frazione di secondo, durante il quale sbatté un paio di volte le ciglia imperlate di lacrime, poi rispose con perfetta e piena sincerità: «Sì».
«Allora infilati quel vestito e raggiungilo sull'altare senza un minimo di esitazione. Il resto verrà da sé» le ordinai in tono affettuoso.
Maryon mi rivolse un cenno di assenso, condito da un timido sorriso di ringraziamento, poi mi strinse in un abbraccio.
«Sei ancora in quelle condizioni!» strillò la voce di Jenny, aprendo di scatto la porta della stanza. Sembrava una benshee sull'orlo di una crisi di nervi. «Mi fratello mi ha appena chiamato, dicendo che lui e Chris sono partiti adesso da casa per arrivare in chiesa... e tu sei ancora in quelle condizioni! Arriveremo in ritardo! In spaventoso ritardo! E Chris, emotivo com'è... oddio, quello mi sviene sul sagrato se non ti vede arrivare entro dieci minuti!»
Io alzai le mani in segno di resa e lanciai un'occhiata innocente a Maryon come per dire “amica tua”. Lei si limitò ad uno sbuffo. «E tu fuori di qui!» mi intimò Jenny, spingendomi fuori dalla stanza.
Scesi le scale ridacchiando, al pensiero di Chris che sveniva per il ritardo di Maryon. Soprattutto perché realizzai che avrebbe potuto farlo davvero.
«Oh, fammi vedere la mia nipotina!» esclamò Gween, quando la incrociai per le scale.
Dovetti frenare subito il suo entusiasmo: l'avevo appena salvata da una crisi prematrimoniale, ero certo che un bagno di folla non le avrebbe fatto bene. «Meglio di no, Gween. Anzi, perché tu e gli altri non ci anticipate verso la chiesa?»
Vidi la delusione disegnarsi sul suo volto. Era ovvio che lei e Maryon fossero molto legate: Gween aveva avuto tre figli maschi, e tutti troppo simili al padre David, con quella loro capacità di essere sempre e perennemente inopportuni, indelicati, concreti e, in una parola, maschi. Mentre per Maryon, circondata da troppi uomini (me, zio David, i cugini, il nonno Jeremy) la zia aveva rappresentato per lungo tempo l'unica figura femminile a cui fare rifermento.
Per fortuna Gween era una che capiva al volo. Fece un cenno con il capo e acconsentì a seguirmi di sotto.
In cucina c'era un vero pandemonio. «Oh, il mio bambino si sposa» pigolò mamma, venendomi incontro. Alzheimer, una gran brutta malattia che le aveva fatto perdere il contatto con la realtà.
«Sì, mamma» risposi piano, ben consapevole che era inutile tentare di farla ragionare: meglio lasciarle credere quello che voleva. Era sempre stata una donna così forte e coraggiosa, alla quale dovevo molto di ciò che ero diventato, che mi faceva soffrire vederla in quelle condizioni. Feci un cenno a mio fratello. «David, per favore, porta mamma con te in chiesa» ordinai, cercando di dare un tono perentorio alla mia voce, per tentare di nascondere il mio dolore.
«Neil, smettila di ingozzarti di confetti!» gridò Gween, strappando la ciotola dalle mani del figlio più piccolo.
«Non mi stavo ingozzando» replicò imbronciato Neil. «E comunque Matt ne ha mangiati più di me».
«Non è vero! Justin me li ha dati!» si giustificò Matthew, accusando il terzo fratello.
«A me i confetti del tuo matrimonio non li dai, tesoro?» mormorò la mamma, con un sorriso sognante.
Lanciai uno sguardo disperato a Gween e anche questa volta lei mi capì al volto. «Tutti fuori!» gridò in un tono che non ammetteva repliche. Certe volte c'era proprio bisogno di un tocco femminile.
La casa si svuotò in poco tempo e, quando tutti se ne furono andati, tornò finalmente la pace. Feci per andare a sedermi sul divano quando notai che c'era ancora qualcuno in salotto: Jeremy, fermo sulla sua carrozzina, alla quale era stato costretto per il suo problema al ginocchio.
«Jeremy, sei ancora qui?» domandai, piuttosto sorpreso.
Lui mi rivolse un sorriso tranquillo. «È la mia nipotina, certo che sono qui» rispose con semplicità. «E tu hai l'aria di uno che ha bisogno di un po' di sostegno».
Mi lasciai cadere sul divano al suo fianco. «In effetti» ammisi.
«Sai, ero nel tuo stesso stato quando la mia Eleanor ti doveva sposare. Un padre è sempre follemente geloso della propria figlia e non vorrebbe mai che gliela portino via» mi confessò.
«Io... non sono affatto geloso» provai a dire, ma come unica risposta ottenni una risata divertita da parte di Jeremy. Gli rivolsi un sorrisetto tirato. «Ok, forse un po'».
Jeremy si sporse leggermente verso di me e mi mise una mano sulla spalla con fare paterno. «L'importante è che tu sia convinto che l'uomo che tua figlia sta per sposare sia il migliore per lei» mi rivelò con un sorriso. «Io lo ero».
Mi sciolsi a quella confessione. Certo, Jeremy si era sempre mostrato gentile con me e, da quando Eleanor era morta, lui era diventato come un padre adottivo per me, ma non mi aveva mai fatto una dichiarazione così esplicita.
Posai la mia mano sulla sua e ricambiai il sorriso.
Lo sguardo mi cadde sul vassoio di biscotti al burro che Blinky la sera prima aveva lasciato sul davanzale della finestra. Incredibile, non si era ancora stufato di portarmeli. Ripensai involontariamente al nostro primo incontro e alla sua Benedizione: mi aveva promesso che avrei passato l'esame, sarei uscito con Eleanor e sarei diventato ricco. L'esame l'avevo passato, con Eleanor mi ero sposata e ricco... be', mia figlia almeno non era dovuta andare a lavorare per pagarsi il liceo. Il mio destino si era compiuto.
In realtà, non sapevo esattamente dire se credessi o meno nel destino. Ero certo che ci fosse un qualche disegno, un progetto divino, per cui le cose non accadevano a caso; ma dentro questa trama, ogni uomo era libero di compiere le proprie scelte. Quello che mi chiedevo giorno e notte era se ciò che c'era stato tra me e Eleanor -il mio amore per lei, poi ricambiato, quei pochi anni di felicità e infine la sua morte- fosse parte di un disegno più grande.
La risposta non me la sapevo dare. Ma c'erano alcune certezze indubitabili in quel mare di dubbi: il tempo che mi era stato dato insieme a Eleanor era stato breve, ma meraviglioso. E ciò che ne era nato, Maryon, era una benedizione del cielo.
Non sapevo se si trattasse di un destino o se quello era il risultato dell'insieme delle mie scelte. Ma sapevo che ciò che avevo ricevuto in dono era tanto grande da non farmi rimpiangere nulla della vita che avevo vissuto.
E da darmi la forza di andare avanti.





Ebbene sì, ecco l'epilogo della storia.
Non è proprio l'epilogo allegro che ci si sarebbe aspettati da un racconto leggero come questo, ma ero condizionata dai fatti: questo, infatti, sarebbe una sorta di prequel dedicato ai genitori dei veri protagonisti della saga di Faerie.
Comunque, spero che la storia vi sia piaciuta. Ringrazio chiunque l'abbia letta o dovesse farlo in futuro.
Alla prossima,
Beatrix Bonnie

   
 
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