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Autore: Himenoshirotsuki    11/01/2014    4 recensioni
Lo sconosciuto aveva chiuso gli occhi. Quando li aveva riaperti, le era parso di vedere due fessure color cremisi, di un rosso simile a quello delle fiamme vive: – Io ho tanti nomi. Mi attribuiste i connotati di un serpente e la colpa della vostra caduta dal paradiso terrestre, e durante gli anni dell'Inquisizione mi cercaste negli uomini più arguti e nelle donne che preferivano vivere in isolamento, tentando di scacciarmi da questo vostro mondo. Mi chiamaste Memnoch, Belial, Belzebù, Mefistofele e mi nominaste re dei caduti e nemico di Dio. Ma poco importa cosa rappresento per voi: io sono l'alfiere della luce, io sono Lucifero. -
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2

Dammi una chance

 

“Che disastro, che disastro...” 
Micael si rigirò il foglio tra le mani, rileggendo più volte quei numeri preoccupanti.
“Italiano è ok. Sì, insomma... è un 6 tirato, ma è pur sempre un 6. Matematica ed elettronica vanno alla grande, quindi non mi devo fare problemi. Però... il resto... è uno sfacelo. L'ultimo compito di informatica è stato un genocidio per tutti i miei compagni, però se non recupero non mi ammetteranno alla maturità e dovrò rimanere un altro maledetto anno qui dentro!” pensò furioso, “E non potrò portarla via da questo posto...” accartocciò il foglio e poi si prese la testa tra le mani, in preda a un'improvvisa tristezza.
Si era impegnato dall'inizio di quel quinto anno, cercando di conseguire il meglio in tutte le materie, si era ripromesso che non si sarebbe fatto distrarre da nulla e che avrebbe passato l'esame finale se non con il massimo, almeno con 90, così da poter accedere a una delle università migliori della sua città e andarsene finalmente via di casa. In principio tutto era filato liscio, persino i suoi genitori si erano congratulati per l'impegno che ci stava mettendo, felici che finalmente avesse messo la testa a posto, ma poi...
Micael si alzò dal divano e cominciò a camminare per il salotto, soffermandosi a guardare i mobili di cedro, la tappezzeria a fiori e i quadri che suo padre aveva comprato all'asta per delle somme folli. Sotto i suoi piedi, il gelo di quell'inverno fin troppo freddo veniva bloccato dallo spesso tessuto multicolore del tappeto persiano. Si accostò alla mensola vicino al caminetto e passò delicatamente le dita su un vecchio soprammobile in argento raffigurante un uomo e una donna, stretti l'un l'altro durante una romantica danza. Da quando si era imposto quei propositi, la sua vita era diventata tutta casa e scuola. I suoi amici non lo riconoscevano più e, dopo pesanti e insistenti domande, avevano smesso di chiedersi il perché di quell'improvviso cambiamento. Aveva rinunciato anche alla vela, la sua più grande passione, tutto perché lei fosse fiera di lui, per dimostrarle che all'occorrenza sapeva prendersi le responsabilità delle sue azioni.
Accarezzò le labbra argentee della ballerina, tracciandone i contorni con i polpastrelli. Anche quelle di lei erano sottili come quelle della donna in miniatura, ma molto più morbide, calde e appetitose. 
“Lei è sempre appetitosa...” pensò, rigirandosi il suppellettile tra le mani, “bella e appetitosa.” 
Un rombo improvviso lo fece sobbalzare. Si avviò verso le finestre e scostò le tende di broccato. Delle nubi minacciose avevano invaso il cielo, oscurando i freddi raggi di quel sole dicembrino e ora una pioggia scrosciante imperversava sulla città. 
“Meglio. Almeno i miei torneranno ancora più tardi del solito e avrò un po' di tempo da passare con lei.” 
Un altro tuono rimbombò nel silenzio della casa, gettando una luce spettrale in quell'ambiente saturo dell'odore del legno. Tornò a guardare la statuetta e sorrise, pensando a quanto quella ballerina del colore della luna assomigliasse a sua sorella, la sua amata sorella.
Era sempre stato innamorato di lei, fin da quando erano bambini, e la proteggeva da tutti gli altri bulli. Erano sempre stati assieme, da quel che ricordava, dall'asilo fino alle medie, e ogni volta che qualcun altro provava a mettersi in mezzo nel loro rapporto veniva liquidato da gelide occhiate. Quando però avevano cominciato le superiori, la sua attenzione si era rivolta verso ben altro, o almeno aveva dovuto fingere che l'interesse per sua sorella fosse stato smorzato dalla nuova vita da liceale. Studiava quel minimo sindacale per arrivare alla sufficienza, cercando di uscire il più spesso possibile per non vedere quella ragazza dai capelli color del grano che girava per casa con aria sempre sognante. 
Un fulmine squarciò il cielo, distorcendo il volto del Gesù crocefisso in un'espressione grottesca, simile a un sorriso di diabolico compiacimento. Micael fissò il volto del Redentore e i suoi occhi gli parvero pieni di severità e biasimo, come quelli di suo padre quando gli diceva che era un fallito e che nella vita non sarebbe mai diventato nulla. In quei momenti sua madre distoglieva lo sguardo da lui, da quel figlio degenere, non capacitandosi di dove avesse sbagliato. Solo sua sorella non si era fatta scrupoli ad affrontare a viso aperto quelle silenti insinuazioni, difendendolo a spada tratta nonostante il fratello trascorresse la maggior parte del suo tempo a fingere di ignorarla. 
Da quando però al solstizio d'inverno lei si era apertamente dichiarata a lui, Micael non aveva più potuto reprimere i propri sentimenti. Si era avvicinato a sua sorella e aveva raccolto le stille luminose che le rigavano il volto, senza mai distogliere gli occhi da quelli leggermente arrossati di lei. Poi, tremando, l'aveva baciata con gentilezza, stringendo con delicatezza quel corpo sottile, quasi temesse che si potesse spezzare da un momento all'altro. Quella notte di poco più di quattro mesi prima, sebbene i genitori non fossero in casa, non avevano fatto sesso. La luna attraversava le tende leggere della stanza di sua sorella, e Micael, in quell'atmosfera onirica, piena di rarefatta voluttà, si era perso nei suoi occhi. Avvolti in quell'alone di compiuta pace, con i rumori del mondo che lentamente si fondevano in una tenue voce corale, si erano addormentati l'uno accanto all'altro, stretti, vicini. Entrambi sapevano che il loro amore era proibito e che il giudizio e l'opinione comune lo avrebbe etichettato come ripugnante. Erano i presunti colpevoli di un crimine che prima o poi avrebbero commesso, un crimine che li avrebbe trascinati all'inferno, precludendo loro le porte del regno riservato ai puri. 
“Ma ciò non importa, perché saremo assieme.” 
Micael scostò nuovamente la tenda, scrutando attraverso quella miriade di gocce i volti dei passanti. 
“Ma dove diamine è finita? Doveva essere qui mezz'ora fa...” 
Afferrò il cappotto dall'appendiabiti e se lo mise addosso, dirigendosi verso la porta di casa. Si concesse un'ultima occhiata al crocefisso, allo sguardo austero e inflessibile del figlio di Dio.
Se dunque il tuo occhio destro ti fa cadere nel peccato, cavalo e gettalo via da te; poiché è meglio per te che una delle tue membra perisca, piuttosto che vada nella Geenna tutto il tuo corpo...*” recitò nella sua mente. 
- E allora vienimi a strappare il cuore, bastardo, - sussurrò sogghignando. 
Poi uscì sotto la pioggia battente, maledicendosi poco dopo per aver dimenticato l'ombrello.
Schermandosi con un braccio, si fece largo tra la folla e procedette per le strade in direzione della scuola di lei, mentre l'acqua gli penetrava fin nelle ossa.
Al semaforo dell'incrocio si fermò in attesa che scattasse il verde. Il suo giubbotto era ormai irrimediabilmente zuppo, come anche gli altri abiti, perciò anche se si fosse messo a correre per fuggire a quelle lacrime celesti non sarebbe cambiato nulla. 
Improvvisamente, sentì qualcuno toccargli il braccio. 
- Mi scusi, buon giovanotto, saprebbe dirmi che ore sono? - 
Micael si era voltato rimanendo piuttosto sorpreso dall'aspetto bizzarro del suo interlocutore. L'uomo che gli aveva appena rivolto la parola indossava un farsetto di raso bianco con una giacca a coda di rondine e un paio di pantaloni aderenti in satin crema, e In testa portava un lungo capello a cilindro di pelle nera. Micael osservò quello strambo signore per alcuni istanti, chiedendosi se avesse tutte le rotelle a posto per vestirsi in quel modo. 
- Uhm... - alzò il polso, scoprendo la manica del giubbotto, - No, mi spiace, ho dimenticato l'orologio a casa. -
Lo sconosciuto sorrise accondiscendente. 
– Male, ragazzo, male. Alla tua età bisognerebbe sempre tenere sotto controllo il proprio tempo. - gli piantò un paio di occhi nero pece addosso, occhi simili a quelli di un predatore. 
Solo in quell'istante Micael si accorse che una cicatrice lunga e distorta gli attraversava la parte destra del volto. I lembi di carne sembravano essere stati ricuciti molto tempo prima, ma i punti di sutura risaltavano lividi su quella pelle cianotica e bluastra.
- Ho qualcosa che fa al caso tuo. - infilò una mano nella giacca e con noncuranza ne estrasse un orologio da taschino. Tenendolo per la catenella dorata glielo porse. 
Il quadrante che recava le ore in numeri romani era stato finemente lavorato con oro e altri metalli, la cassa invece era stata arricchita con vari smalti preziosi. 
Micael indietreggiò, preso da un'improvvisa angoscia. Si strinse nella giacca e si guardò ansiosamente attorno, strabuzzando gli occhi: intorno a lui tutti i passanti erano svaniti come se non fossero mai esistiti, le macchine erano ferme nella strada. Nessun suono, nessun rumore riecheggiava in quel silenzio assoluto, opaco. Il tempo e il mondo erano immobili. L'unica cosa che si percepiva era il continuo e insistente ticchettio delle lancette.
Tic tac, tic tac...
Come attratto da una forza magnetica, Micael prese l'orologio e se lo rigirò tra le mani. Sul dorso, a lettere di fuoco era stata incisa una frase: “Il tempo ti appartiene.”
Alzò lo sguardo, cercando quello del suo interlocutore, quando qualcuno lo urtò.
- Ehi, che diavolo fai fermo qui? Non vedi che la gente ha fretta? - 
Micael si riscosse. L'uomo che gli era venuto addosso indossava un lungo cappotto nero e portava sottobraccio una ventiquattrore. Lo scostò con malagrazia, borbottando qualcosa riguardo all'educazione dei giovani, e attraversò la strada.
“Ma... ma cosa è successo?” 
Micael si guardò a destra e a sinistra. Chi camminava con tranquillità, chi parlava al telefono, studenti di ritorno da scuola che correvano a casa. La città era tornata immersa nel solito via vai. Tastò il freddo metallo del coperchio con i polpastrelli, senza più capacitarsi di cosa fosse successo: l'uomo, quella voce suadente, il vuoto attorno a loro...
“Non può essere accaduto...” pensò, mentre si infilava in un vicolo, lontano dalla calca. Poggiò la testa contro il muro e lasciò che l'acqua corresse sul suo viso, che gli lavasse via l'inquietudine e il ricordo di quegli occhi neri, profondi come l'abisso.
Portò l'orologio vicino al volto. Le lancette segnavano le 17.30.
“Magari funziona... magari il tempo è davvero mio ora.” 
Premette il tasto sulla sommità della cassa, fermando la loro folle corsa. Nel momento stesso in cui il ticchettio si interruppe, ogni rumore cessò. Micael guardò verso l'alto: sopra di lui, come immortalate in un dipinto, stavano immobili le gocce di pioggia. Sfiorò una di quelle stille cristalline e questa si sfaldò tra le sue dita. 
- Ma allora... - corse in strada con il cuore in gola. 
Tutte le persone erano ferme, lo sguardo rivolto verso la direzione che stavano percorrendo. Micael vi passò accanto e i loro occhi non si mossero, le loro orecchie non lo udirono. Il respiro dell'universo era stato smorzato da un semplice pulsante.
Si passò le mani sul volto, mentre una risata isterica scaturiva dalle sue labbra. Alzò il volto al cielo e urlando per la gioia esclamò: – Finalmente non avrò più alcun problema! Non sarò più un fallito! - guardò il quadrante dell'orologio con sguardo trionfante, - E adesso si balla! -
Tenne premuto il tasto per alcuni istanti. Come una pellicola cinematografica, tutta la realtà cominciò a riavvolgersi su se stessa. L'uomo che l'aveva urtato tornò al semaforo e dopo averlo spinto ricominciò a camminare indietro fino a sparire in lontananza. E così gli studenti, le macchine, tutti coloro che gli stavano attorno si mossero meccanicamente verso le loro precedenti direzioni, passando da un'espressione all'altra in meno di un battito di ciglia. In pochi istanti il giorno e la notte si alternarono in un folle gioco di luci ed ombre, mentre le lancette percorrevano più e più volte il quadrante delle ore.
Mano a mano che tornava indietro, rivide tutta la sua vita passata, soffermandosi rapidamente su alcune scelte che ora sapeva a quale risultato lo avrebbero fatto approdare e che col senno di poi aveva rimpianto: il colloquio di lavoro andato male, un violento litigio che aveva avuto con genitori, il precedente compito in classe che gli aveva quasi precluso l'accesso alla maturità. Dopo aver infilato il bigliettino delle risposte nell'astuccio del suo lui del passato, guardò l'orologio con aria compiaciuta.
“E' fatta.” 
Nascosto sotto il porticato della sua scuola, si rigirò quell'oggetto miracoloso tra le mani, assaporando il sapore della vittoria. 
“Ora come torno nel presente?” si chiese. 
Una voce simile a un sibilo emerse dalla sua mente, una voce arcana che pareva sussurrare alla sua stessa coscienza: – Basta che premi due volte il tasto... è così facile! -
Micael rabbrividì. Nonostante fosse più gutturale e raschiante, non poteva non riconoscerla. – Come fai a...? -
- Oh, io sono ovunque, ragazzo. Anche nella tua testolina bacata. - sghignazzò divertito, – E ho visto un paio di cosucce che trovo parecchio interessanti, sai? - 
Una mano si strinse improvvisamente attorno alla gola di Micael, mentre una lingua ruvida e calda percorreva il profilo del collo. 
– Che pensieri sconci che hai fatto sulla tua cara sorellina... sei un peccatore nato. La gente come te, quando viene mandata a casa mia, brucia viva per tutta l'eternità. -
Il ragazzo tentò di divincolarsi, ma le dita si strinsero ancora di più, scavando dei solchi profondi nella pelle. Non poteva vedere chi fosse il suo assalitore, ma sentiva di conoscerlo, come una preda conosce il suo antico, sadico aguzzino.
- Quindi è per questo che hai preso l'orologio, per poter portare via la tua amata sorella da casa e sbattertela in libertà! - qualcosa di affilato sfiorò l'orecchio di Micael, mentre un fiato caldo e mefitico si condensava nell'aria.
- Chi... chi sei in realtà? - balbettò, la voce strozzata dalla paura.
- Io? Davvero non hai ancora capito chi sono? - un'unghia nera e arcuata accarezzò delicatamente le sue labbra, ridacchiando sommessamente, – Io sono colui che ti ha portato via la cosa più importante e presto, molto presto, te ne accorgerai. -
L'assalitore lasciò bruscamente la presa. Micael cadde in ginocchio, massaggiandosi la gola e respirando a stento, mentre un fumo nero si disperdeva nel vento gelido. Si volse, cercando l'uomo misterioso, ma non vide nient'altro che un muro di mattoni. 
“Che cosa avrà inteso con 'la cosa più importante'?” un lampo gli attraversò la mente, “Sorella!” 
Preso da un'improvvisa inquietudine, schiacciò due volte il tasto. 
Come poco prima, il tempo si contorse su se stesso per poi riavvolgersi.
“Fai in fretta, fai in fretta!” il battito impazzito del suo cuore copriva qualunque altro suono. 
Se era vero quel che quell'essere gli aveva detto, a quest'ora lei poteva anche essere ferita o peggio, morta.
Quando sul quadrante apparvero l'ora e la data esatte, Micael smise di fare pressione e cominciò a correre a perdifiato verso casa. La pioggia battente che aveva abbandonato giorni o istanti prima lo riaccolse, penetrandogli nelle ossa, sferzandogli gli occhi come mille spilli. 
Sbatté contro un signore che procedeva nella direzione opposta, buttandolo a terra, ma non si fermò. L'aria gli bruciava nei polmoni, le gambe gli dolevano per lo sforzo, la vista gli giocava brutti scherzi. Vedeva nei passanti il ghigno dell'uomo che gli aveva dato l'orologio, sentiva addosso i suoi occhi neri, scuri, ferali. E più cercava di andare in fretta, più la strada pareva allungarsi all'infinito in quella realtà distorta e confusa. 
Arrivò davanti al portone, cercò le chiavi, ma sbagliò più e più volte. Qual'era la chiave? Perché ne aveva così tante? All'ennesimo tentativo, trovò quella giusta. Girò e si fiondò su per le scale, facendo i gradini cinque a cinque fino al terzo piano. Si buttò sulla maniglia e questa si piegò, facendolo volare dentro l'ingresso di casa.
“Era aperta! Era aperta, dannazione!” 
- Sorella! Sorella! - senza più forze, annaspò verso la camera di lei in fondo al corridoio. 

* Bibbia, Matteo 17-29

  
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