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Autore: bipolarry    15/01/2014    2 recensioni
Carpe diem, pensò Louis, il ragazzino dagli occhi grigi aveva catturato la sua attenzione ormai già da qualche ora, ed era così ubriaco che qualunque cosa fosse successa, non l’avrebbe mai ricordata. E non era certo colpa sua se Harry barcollava e ogni minuto che passava erano sempre più vicini.
“Dio, devo bere di meno” farfugliò Harry, più a se stesso che a Louis.
***
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Heal their brokenness.


Dal bancone in legno del Jack aveva la visuale completa dell’intera sala, osservava le persone sedute ai tavolini, intente a soffocare nelle proprie abitudini, a stringersi nelle proprie vite; con un ghigno sulle labbra si arrotolava le maniche della camicia nera fino al gomito, agitava la testa per aggiustarsi i capelli, si passava il dorso della mano sulla fronte, sbuffava, era irrequieto, ma quella non era una novità; la novità stava entrando proprio in quel momento dalla porta principale, concentrata in un corpo impacciato, nascosta tra le ciocche ricce dei suoi capelli e intricata tra le venature verdi dei suoi occhi, la novità poteva vederla nell’aria tormentata che non aveva mai fatto parte di Harry, nelle sue mani che tremavano e nello sguardo che lo cercava come un cieco cerca la luce.
Si sentiva morire dentro, ogni momento che passava si sentiva privato di qualcosa di essenziale, andava in giro trascinandosi una perenne risata, la sua perenne attitudine al sarcasmo, e nessun cenno di cedimento, mai, fuori dalle mura di casa, aveva concesso a qualcuno di cogliere le sue ferite; aveva raccolto i pezzi e ci aveva costruito un muro.
“Non so perché sono qui.” Louis non vedeva nulla se non confusione nell’espressione del più piccolo.
“Sambuca?” gli offrì, lasciando che un sorriso gli scoprisse i denti.
Il più piccolo si accigliò, cercando di fare ordine tra il caos che aveva dentro. “No.”
“Come non detto, come posso aiutarti?”
“Volevo, volevo parlare, credo.” Si guardava attorno, per la prima volta chiedendosi cosa diavolo ci facesse in quel bar, realizzando che quella di andare lì era stata la scelta più stupida che potesse fare.
“Sono impegnato adesso, magari un’altra volta?”
“Io– io non sarei dovuto venire qui.. magari un’altra volta, si.” le unghie grattavano la superfice in legno del bancone, alimentando la sua frustrazione.
Non appena Harry voltò le spalle, il peso che premeva sul petto del più grande sparì. Si passo entrambe la mani sulla faccia, inspirò e si ricompose, mordendosi il labbro inferiore, ancora tormentato internamente dal ragazzino.
Non appena fu fuori, l’aria pungente gli tolse il respiro, per istinto incrociò le braccia stringendosi nelle spalle, provando a raccogliere il suo stesso calore; ma per quanto lo volesse, non riusciva a muoversi, era sempre stato troppo testardo, troppo ostinato per lasciare che qualcun altro vincesse una partita, si guardò attorno, scrutando la stessa strada desolata in cui cinque mesi prima aveva trascinato un ragazzo fin troppo gentile nel disastro che era la sua vita. E non sarebbe affondato da solo, non avrebbe mollato la presa così facilmente, si sarebbe aggrappato a Louis fino alla fine, ne avrebbe tirato fuori i lati peggiori se fosse stato necessario, ma non gli avrebbe permesso di voltargli le spalle.
Rientrò con le idee meno chiare di prima; aspettandosi il peggio ed augurandosi il meglio. Ricoprì l’intera sala in una manciata di passi, ostentando una sicurezza che non gli apparteneva.
“Ho dovuto farlo, mi dispiace.”
Fece un respiro profondo prima di alzare lo sguardo, il disastro, il ragazzino fin troppo incasinato era dispiaciuto, soffocato da quell’aria desolata e tormentata, pietosa. “Dispiace anche a me.” Replicò il più grande.
“Sai che mio fratello è–”
“Dispiace anche a me.” Ripetè.
“Sto cercando di darti una spiegazione!” Quasi si lamentò di non essere ascoltato.
“Sto lavorando! Va’ via, non mi interessano le spiegazioni.” Impostò la voce, per la prima volta più alta del solito, quella reazione sorprese sia se stesso che Harry, che fece un passo indietro, stranito, realizzando per la prima volta di non avere avanti agli occhi la stessa persona che gli accarezzava i capelli prima di andare a dormire. Aprì la bocca per ribattere, ma fu fermato da uno sguardo che non ammetteva repliche; mise le mani in tasca, imbarazzato, e andò via.
Louis aveva le mani sudate, tremanti, la schiena rigida e un nuovo peso sulle spalle.
 
 
Vedere la figura di Liam poggiata sulla portiera della sua macchina fu un caso più unico che raro; fasciato in un trench nero, lo sguardo puntato verso il basso sui propri stivaletti scuri; Louis gonfiò il petto e si avvicinò, consapevole della sua scarsa presenza fisica e di quella dannata costituzione che faceva degli Styles una famiglia di uomini con fisici fin troppo imponenti.
“A cosa devo l’onore?” Louis, come al solito, eccedeva in sarcasmo.
Il viso indecifrabile di Liam si sciolse in un’espressione inquieta, umiliato. “Quel maledetto incosciente ha deciso di partire.”
“Come, scusa?”
Ignorò la sua domanda, “Non lo capisco quando fa così; so che riesci a gestire quelle sue maledette scene da ragazzino viziato molto meglio di me, quindi digli di restare.”
C’erano almeno trenta cose in quella frase che non gli erano chiare, e l’espressione accigliata che si dipinse sul suo volto anticipò la sua domanda, “partire?”
“Si, non ti ha racc– ” certo che non gli aveva raccontato nulla, ovviamente, era di Harry che stavano parlando, quel ragazzino non avrebbe mai raccontato nulla, e capì in quell’istante quante bugie fosse in grado di raccontare quel maledetto incosciente. “Lui non ti ha detto nulla?” Espirò incredulo.
“Uhm, no. Io e Harry non parliamo..” Louis alzò le spalle ancora accigliato e ancora confuso dalla presenza di Liam, ed era seccato dalle impronte che le sue mani stavano lasciando sul finestrino della macchina. Incrociò le braccia, esasperando la totale assenza di volontà nel voler affrontare quella discussione.
“Mio– nostro padre è stato convocato, per lavoro, in Francia, resterà lì fino al prossimo anno, e avevo bisogno che Harry tornasse a casa, non volevo che mia– nostra madre rimanesse sola, e gli ho chiesto di stare con lei, di far parte della vita di casa, ma ovviamente, quel maledetto incosciente non fa che rendere la mia vita ancora più complicata.” Cercò di giustificare in quel modo la sua presenza.
Partire?” Ripeté. Massì, perché no? Che altro? La sua vita era fin troppo facile ultimamente, per fortuna quel ragazzino non tardava mai a compiere qualche cazzata che immediatamente lo riportava con i piedi per terra.
“Sapevo che non avevi frequentato l’università, ma non credevo che un concetto del genere ti risultasse così difficile da assimilare.” Liam sputò veleno.
“Sta’– sta’ zitto.” Non aveva prestato attenzione ad una singola parola, tutto ciò che aveva attirato il suo interesse era la parola partire, ‘bene’ pensò, si ripeté che non gli importava, perché era quello faceva da mesi, ripetersi che non gli importava.
Aveva visto Harry poche ore prima, consumato dall’imbarazzo, irrequieto, testardo come sempre, ma nulla gli aveva lasciato credere che avesse potuto prendere una decisione del genere, eppure era sicuro di aver imparato a leggere ogni suo gesto.
“Da quanto non lo vedi?” Chiese Louis, velando la preoccupazione con una finta curiosità.
“Due giorni.”
“Oggi era al Jack, se dovesse tornare gli dirò che lo cerchi.” Si strinse nelle spalle, indifferente.
Liam piegò la testa, sapendo che avrebbe potuto fare molto di più. “Avanti..”
“Che altro vuoi che faccia?”
“So che nemmeno la più piccola parte di te vuole che parta per quella maledetta Francia.” Incrociò le braccia sul petto, ancora difensivo nei confronti di Louis.
“Uhm, cosa te lo fa pensare?” Sussurrò più a se stesso che a Liam.
“Voi due siete– eravate” si corresse, “così..”
“Ti prego, basta.” Scacciò le sue parole con le mani, “ti prego, non voglio sentirti parlare di noi.
Entrambi rimasero in silenzio al suono di quella parola. “Lo chiamerò e gli dirò di tornare a casa. È tutto quello che posso fare.”
Liam annuì, stringendogli la mano e lasciando che le loro spalle di scontrassero, “grazie” disse dandogli una pacca sulla schiena.
Il respiro di Louis tremò, fu completamente sovrastato dal suo fisico imponente, “n– nessun problema” riuscì a dire, ormai completamente incollato al petto di Liam, gli toccò la spalla con le poche forze che gli erano rimaste, entro soli due secondi quell’ abbraccio tra amici sarebbe stato inondato di imbarazzo. Beh, ecco come doveva sentirsi Gemma, pensò, in fondo avevano lo stesso fisico, entrambi fin troppo piccoli per essere abbracciati da Liam, i due secondi erano passati ed era ancora incatenato in quell’abbraccio, tossì, sperando di distrarlo. Tirò un sospiro di sollievo quando finalmente fu liberato da quella presa.
“Ho sempre saputo che non eri un totale stronzo.”
“È la cosa più carina che tu mi abbia mai detto.” Replicò Louis.
 
Quando aprì la porta di casa, in piena notte, non gli parve vero che quella giornata fosse finita, non era mai stato una di quelle persone che perdono la calma, era sempre stato troppo furbo, astuto, per perdere la calma, ma chi aveva davanti non era la solita persona, non era mai stato in grado di prevedere le sue azioni quando era con il ragazzino, era costantemente irrazionale, incoerente con i suoi principi.
Non fu per nulla sorpreso nel sentire qualcuno bussare alla porta alle quattro del mattino; stanco, si avvicinò alla porta, quando la aprì fu investito dall’aria congelata che rivestiva Londra a febbraio; quel concentrato di tenacia e ingenuità era sulla soglia, gli occhi bassi, le dita tamburellavano sulle proprie cosce, probabilmente aveva pianto, ma Louis non poteva esserne sicuro.
“Posso entrare?” Si schiarì la voce.
Avrebbe voluto avere la forza di smettere di guardarlo, avrebbe voluto reprimere quell’istinto di abbracciarlo fino a sentirsi morire, e per l’ultima volta provò a difendersi.
“Sai una cosa?” Una risatina nervosa scappò dalle sue labbra, “se ti lascio entrare, un’altra volta, e poi tu vai via, un’altra volta, a quel punto è colpa mia; sono io il coglione che ti fa rientrare, che ti permette di entrare e uscire quando vuoi, e dovrei prendermela solo con me stesso, dovrei guardarmi allo specchio e dirmi ‘complimenti, questo è quello che hai voluto per te stesso’ e non è così, questo non è quello che voglio, non mi va di dover scegliere tra l’avere te e l’avere me.” Quella scelta lo spaventava, perché forse, per la prima volta, non avrebbe scelto se stesso. Si chiese quand’avesse iniziato a fare quel genere di monologhi, quando avesse abbandonato l’idea del poche parole ma buone, ma ancora una volta non trovò risposta se non: perché è di Harry che stiamo parlando.
Si allontanò dalla porta, lasciandola aperta, non aggiunse più nulla, lasciando che l’aria invernale entrasse: privilegio che il ragazzino non aveva ancora ottenuto. Era seduto sul divano, il mento appoggiato sulle ginocchia piegate al petto e le braccia incrociate, lo sguardo verso l’entrata, che riusciva solo ad intravedere, sentiva la presenza di Harry ancora sotto l’arco della porta; si morse il labbro inferiore e poi parlò, “hai deciso di morire di freddo lì fuori? Muoviti, entra.”
Sentì i passi di Harry anticipare la sua figura, avanzò con calma chiudendo la porta alle sue spalle, alzò lo sguardo per la prima volta da quando era lì, e vide Louis raggomitolato su se stesso, incazzato, reprimendo quel sorriso accennato che stava per nascere sulle sue labbra, l’aria stanca dopo una giornata di lavoro, quella stessa aria stanca che si trascinava dietro dalla mattina in cui era andato via, lo guardava e di più grande ci vedeva solo l’età, era indifeso e distrutto, e si sentiva la causa di tutte quelle crepe sul muro che proteggeva la sua personalità.
“Mi dispiace.” Riuscì a dire.
“Smettila di scusarti.”
Capì che sentirsi a casa non aveva nulla a che fare con i luoghi, sentirsi a casa aveva a che fare con le persone, casa era permettere a qualcuno di aprire una fessura nel muro che si era costruito attorno e concedergli di far parte di sé, sapendo che se stesso era tutto ciò che aveva; tornò a guardare il viso di Harry, le labbra tremanti che si opponevano ad un sorriso ma le fossette sulle guance lo anticipavano, tradendolo; e decise che nessuno nella sua vita aveva avuto tanto potere su di lui, a nessuno era stato concesso di andare e tornare, di non dare spiegazioni, di rovinare la sua vita, di risvegliare quel senso di attesa disperata, di ricerca, e guardava quel disastro che aveva davanti, la bellezza, il gusto, la fiducia che aveva dimostrato e pensò che dopotutto aveva tutto il diritto di rovinargli la vita; e gli andava bene così, gli sarebbe sempre andata bene così.
Avrebbe voluto essere in grado di spiegare almeno a se stesso cosa lo spingesse a gravitare attorno quel ragazzino, avrebbe voluto darsi delle spiegazioni, spiegazioni che non avrebbe mai trovato, perché nessuno dei loro legami era sottoposto ai principi della razionalità. “Vieni qui.” Tese il braccio invitandolo a sedersi accanto a lui sul divano, il sonno stava per prendere il sopravvento; poggiò la testa sulla spalla del più piccolo, il tessuto della felpa era ancora freddo, un brivido lo scosse lungo la spina dorsale. Harry passò un braccio attorno alle sue spalle, accarezzandogli la schiena, “mi dispiace.” Ripeté poggiando il mento sulla testa di Louis.
“Sta’ zitto.”
Tutte le spiegazioni di cui aveva bisogno erano accanto a lui, incorniciate da due fossette, con delle spalle fin troppo larghe, e le labbra arrese in un sorriso. E alla fine lo sapeva, anche nei momenti peggiori, sapeva che il tempo gli avrebbe ridato il ragazzino.
Gli prese il viso tra il pollice e l’indice, sentendo le sue dita affondare nelle guance gli sorrise prima di baciarlo, lo baciò finché non vide le sue labbra rosse in contrasto con la carnagione pallida, e avrebbe continuato per ore, avrebbe guardato il sole sorgere e ancora non si sarebbe separato da quelle labbra, “ti odio.” Disse il più grande, le dita gli sfioravano il mento e viaggiarono fino a fermarsi sulla sua clavicola.
“Ti odio anche io.” Sorrise contro la sua bocca.
Alla fine erano solo esseri umani, ubriachi dell’idea che l’amore, solo l’amore, potesse curare le loro ferite.












*ultimo angolo dello squilibrio mentale,
e quindi è finita così ;-; ho sempre ammesso di aver avuto problemi con la terza persona, e questa cosa mi ha rallentata tantissimo nel processo di scrittura e molte molte molte delle cose che ho scritto non raggiungono assolutamente i miei standard, questo è l'unico motivo per cui sono felice che questa fanfic sia finita, per il resto sono completamente depressa. Mi mancheranno questi Harry e Louis, mi mancherà il mio Niall perennemente fatto, mi mancherà immaginara Liam e Gemma, il Jack bar e la sambuca, ci sono tantissime cose che mi mancheranno e non posso ancora credere che questa fanfic sia arrivata alla fine. 

Non volevo che finisse con il solito "ti amo" "ti amo anche io" quindi ho deciso di concludere così il capitolo e l'intera storia. L'ultima riga (Ahimé) non è farina del mio sacco, ma gentilmente presa in prestito da francis scott fitzgerald, la frase originale dovrebbe essere "and in the end we were all just humans, drunk on the idea that love, only love, could heal our brokenness" è stata tradotta da me e adattata al contesto, quindi è leggermente cambiata, ma insomma, il senso e quello ed è assolutamente troppo bella per essere mia. (grazie fitz) 

Grazie a tutti quelli che hanno letto, e a chi ha recensito, un immenso e gigantesco grazie a Irene che è stata con me fin dall'inizio ^^
tornerò con qualche os, ma non credo che ci saranno (molte) nuove longfic. 

preghiamo tutte che il coming out arrivi presto, aspettiamo nuovi tatuaggi e aVEVO QUASI DIMENTICATO DI DIRVI CHE IERI HO PRESO I BIGLIETTI PER I RAGAZZI QUINDI O MF CI SARO' ANCHE IO AAAAAAAAAAHHH

come sempre lascio i miei twitter e tumblr.  



e per l'ultima volta, 
much love,
chris -

 
  
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