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Autore: Yssel    21/01/2014    1 recensioni
Questa è una raccolta, una raccolta di vari episodi.
Vari episodi della vita di cinque ragazze che hanno realizzato il loro sogno.
Questa raccolta è tratta dal primo capitolo, che potete trovare qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2398761&i=1
Un insieme di istanti di vita e aggrovigliati ricordi di un passato non proprio rose e fiori.
A trascinarvi avanti e indietro, tra momenti di una vita da sogno e ricordi indimenticabili, sarà il quaderno nella mia mente, una terza persona che si adatterà spesso ad una bassista, Joh.
Benvenuti nelle "Cronache del Basso Scordato".
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La sentivo respirare affannosamente, il suono passava ovattato attraverso il microfono del cellulare inutile che teneva fra i tremori a causa delle mani che continuava a mettersi sopra la bocca, come se volesse affievolire la voce, non farsi sentire. Odiava stare lì, Charlie, ed io non riuscivo più a mandarle continui messaggi dove le dicevo che la portavo fuori intere giornate se poi, una volta a casa, lei mi chiamava in procinto di un pianto, con l’ orgoglio piantato nel tono di voce e la volontà infondata di non versare altre lacrime, tante ne aveva sprecate. Le sue non erano preghiere, erano solo constatazioni. Lei aveva imparato a chiedermi aiuto, ma solo in casi estremi.
E quella sera, benché non ci fosse niente di urgente a dominare la sua disperazione e il suo soffocamento, lei aveva bisogno di me. Tutte le volte che qualcuno aveva bisogno di me, di Joh, a meno che non fosse una delle tante persone che non riuscivo a sopportare, io correvo veloce dal diretto interessato e gli offrivo non solo una mano, ma anche tutto il braccio.
Con Abby era stato così, ero riuscita a portarla in salvo dal suo inferno per farla riposare in un letto comodo e fresco tutte le sere, e l’ avevo fatto all’ oscuro di tutti, raccomandandomi che, quando sarebbe successo, lei non avrebbe dovuto lasciare alcun indizio su di me. Fece esattamente come le avevo detto, e il risultato era il suo viso assonnato che cadeva nelle zuppe vegane che le preparavo quando, a mezzogiorno, riusciva a tirarsi su dalle coperte. Adesso stava bene.
“Joh, ti prego.”
Non rivolsi parola a nessuno, era notte fonda e l’ unica sveglia ero io. Fissai i miei piedi nudi sul pavimento del bagno e sospirai, prendendo coscienza: quello che avrei fatto, dato che era l’ ennesima azione illegale che compivo, poteva benissimo ricadere non solo sulla mia reputazione ma anche sulle altre tre anime che vagavano per i corridoi di casa mia. Mi feci coraggio; con loro non avevo pensato, dovevo agire da impulsiva anche con Charlie. Chiusi il telefono fra una spalla e il collo ed afferrai la giacca scura che avevo ripiegato sulla scrivania dopo l’ ennesima cena fuori, socchiusi gli occhi e la infilai: “Apri la finestra e rimani ad aspettarmi.”
Mi sporsi verso le chiavi dell’ auto e tossii, maledicendomi subito dopo. Chelsea, nel letto, si voltò verso di me e per un attimo socchiuse un occhio. Sorrise e si rimise a dormire. Feci finta di niente, anche se avevo sentito il suo sguardo fisso sulla mia schiena coperta da nient’ altro che una canottiera. Noncurante di piegare la tela, misi le scarpe e percorsi le scale fino al piano di sotto- tutto con la luce spenta. Per fortuna- o sfortuna-, Red si era dimenticata anche quella sera di chiudere le persiane prima di andare a dormire, così rimanevo io, l’ ultima che scendeva per un giro di ricognizione e metteva a posto la confusione della rossa.
“Ti aspetto.”, pigolò Charlie dall’ altro capo del telefono, e la immaginai con gli spessi occhiali che le si appannavano per il sollievo.
“Arrivo con la Jeep, appena suono corri e non ti voltare.” Evasi nel vialetto che dava sulla porta sul retro, chiudendo quest’ ultima con massima attenzione, e mi assicurai di far tintinnare le chiavi assieme, in modo che Charlie le sentisse. Sussultò, seguita subito da un singhiozzo ed aspettò che io facessi il giro dell’ auto e che montassi e mi agganciassi la cintura al torace per rispondermi: “So che ci sei tu ad aspettarmi, non mi volto di sicuro.”, giurai di averle sentito un sorriso sul volto sciupato dalle notti insonni passate a fissare il soffitto o a suonare il piano, quando suo padre tornava a casa ubriaco e, con i suoi amici, pensava di prenderla in giro fino a che lei non cedeva e si andava a chiudere nella sua stanza, solo ed esclusivamente per mettersi un paio di cuffie ben salde nelle orecchie e lasciarsi andare alla luna, guardandola con ammirazione attraverso i vetri piccoli e in parte coperti dalle tende.
“Perfetto.”, attaccai, buttai il telefono sul sedile accanto al mio e sgommai verso Charlie, nella speranza di trovarla già giù, nel suo giardino, in attesa. Tirai vari pugni al volante, credendolo una possibile valvola di sfogo verso i semafori rossi, mi passai più volte i capelli ai quali non avevo riservato la minima attenzione e mi persi nelle luci sbiadite nel buio della notte, con qualche brivido freddo che entrava dalle maniche e si espandeva per tutto il tronco, fino ad arrivare a disperdersi sui fianchi e a scomparire in formicolii accennati sulle ginocchia.
Quelli che a me sembrarono anni, per via del caos notturno della città, furono manciate di minuti divorati dalla mia guida spericolata e frettolosa, che si placava solo ed unicamente alla vista di un’ autovettura della polizia. Le mie emozioni erano un continuo rincorrersi, si attaccavano alle radici di quelle che stavano per finire e si stracciavano le ossa, fino a sgretolarsi e a crearne delle nuove. Rabbia, frustrazione, bisogno di giustizia, voglia di urlare, rancore, risentimento, impazienza, impertinenza: tutto un insieme di cose che mi confondeva da cima a fondo e che, per una volta, non aveva niente a che fare con la mia apatia, piuttosto la tramutava in un qualche serio disturbo mentale meglio noto come l’ essere lunatica, pericolosa e lunatica.
Scossi la testa, presa alla sprovvista da un attacco di sonno, e ingranai la quarta, andando ancora più veloce ed aprendo i finestrini per riuscire a sentire i clacson delle auto e il vento che mi tirava perenni schiaffi capaci di storcermi il collo e farlo staccare dal mio corpo.
Nell’ ombra, la casa che fino a quel momento aveva abitato Charlie, parve un qualche edificio violaceo di periferia, balcone trasandato e colmo di edere che si arrampicavano lungo le sbarre congelate che reggevano la terrazza, la facciata scrostata in precedenza che poco dopo era stata ridipinta. A quanto pare, era stata ridipinta da un incompetente, dato che non aveva avuto l’ accortezza di accoppiare un semplice colore con il suo gemello. Si vedeva persino con quell’ oscurità, il distacco che v’ era fra un pezzo di parete e l’ altro, l’ uno scuro e l’ altro più chiaro.
Affinai le orecchie e tirai l’ ennesimo pugno sul volante, solo che stavolta il richiamo giunse a Charlie come un fischietto arrivava ai cani da caccia. La ragazza, i capelli sciolti sulle spalle ed anneriti dalla notte, comparve da dietro un cespuglio con un enorme borsone sulle spalle, prese a correre a perdifiato e giurai di riuscire a vedere il luccichio dei suoi occhi farsi spazio sul cruscotto della Jeep. Le feci segno di non parlare, di non aprire la bocca, e lei annuì, arrivando finalmente all’ auto, raggirandola come avevo fatto io solo poco tempo prima e raccogliendosi il viso fra le mani una volta seduta accanto a me. Non le feci neanche guardare casa sua un’ ultima volta, feci inversione e tornai indietro. Non le dissi niente mentre pianse con il borsone stretto al petto, non le dissi niente quando si tolse gli occhiali per potersi asciugare le palpebre umide e non le dissi niente quando mi guardò.
“Alla fine ce l’ abbiamo fatta.” Eravamo arrivate a metà strada, ormai lontane e calme. Avevo rallentato la guida, rendendola piacevole e addirittura morbida sull’ asfalto, azzerando qualsiasi forma di fretta mi accavallasse i nervi ed i neuroni. Ingombrante com’ era, il borsone nero le copriva tutto il viso e spiccava come un sacco da cadavere seduto su un sedile. Mi abbandonai ad una risatina, riportando gli occhi alla strada e ai finestrini, e Charlie si sforzò per riuscire a trasportare l’ ingombrante massa scura sui sedili posteriori. Sospirò e alzò le braccia sopra la testa, trovando riposo sul tessuto rigido che le teneva la schiena eretta.
“Non sai quanto sono contenta.”
“Adesso vivrai anche con Red, non sei felice?”
Si illuminò, si agitò sul posto e boccheggiò qualche parola, per poi ammutolire e tirarsi le mani sulle guance accaldate. Non era mai rimasta più di una notte con Red, la sua ragazza, non perché lei o io non volessimo, ma perché il padre di Charlie era rigiro su cose del genere, in più non sapeva dove la figlia andava, solo “da un’ amica”. Mi piaceva vedere Charlie zampettare in giro con una delle felpe della sua ragazza indosso, mi piaceva vederla volteggiare come se non avesse alcun problema e mi piaceva vederla felice quando condivideva con me e le altre casa mia. Le poche volte che succedeva e che faceva colazione con noi, le poche volte che bussavo al bagno e c’ era lei che urlava a gran voce di averlo occupato, le poche volte in cui accendevo il televisore e lei era d’ accordo con me sul guardare una partita di rugby, allora sì, allora potevo dire di essere felice anche io. Allora sentivo qualcosa, mi si scaldava il cuore, e allora non pensavo più a quanto melanconica fossi, pensavo a quanto fortunata ero ad avere attorno persone come Charlie.
D’ un tratto, la mia passeggera saltò sul sedile e tirò un urlo, cominciando a respirare male.
“Che succede?”, rallentai.
“Mi vibra il culo.”
“Fanculo, Chee, mi hai fatto impaurire.”
Si mise una mano sotto il sedere e ne estrasse il mio cellulare illuminato, lo schermo che andava ad intermittenza e il nome di Jenna a caratteri cubitali. Presi quell’ aggeggio e lo portai all’ orecchio, rifiutandomi di far rispondere Charlie in quanto lei stessa era la sorpresa per le mie musiciste.
“Dove cazzo sei, Joh.”, non era una domanda, ma una pacata affermazione che avrei dovuto, in qualche modo, sviare e portare su un altro discorso.
“Sono uscita un attimo, a Chelsea mancavano le sigarette.”
“Non mentirmi, dai.” La voce roca della prima chitarrista gracchiò nel telefono ed io, da brava bugiarda, sbuffai ed attaccai il telefono. Lo spensi senza perdere tempo e lo rimisi fra le mani della mora al mio fianco, che rimase a fissarmi perplessa. Avrei dovuto vedermela con Jenna, ma ne sarebbe valsa la pena.
Davanti a casa mia, Charlie esitò. Non scese subito, tentò di trovare sicurezza nel mio sguardo, ma tutto ciò che trovò fu ancora più insicurezza. Non sapevo come sarebbe finita, se tutto sarebbe andato bene, e non avevo certezze. Non potevo promettere alla ragazza cose non vere e, tanto meno, potevo mentirle come ero solita fare per il suo bene. Le misi una mano su una spalla, in un tentativo di confortarla, e mi chiusi fra le spalle, schioccando la lingua sul palato. La luce dell’ auto, sopra le nostre teste, si spense non appena girai le chiavi nel cruscotto e il motore tacque. Non le feci aprir bocca, sgusciai fuori dall’ auto e mi allungai ad afferrare il suo borsone, sollevandolo con l’ aiuto dei bicipiti, e trascinai Charlie con me, che puntò i piedi a terra per i primi secondi e infine si lasciò andare alle mie spinte. Continuai a tirarle dei colpetti sulla schiena fino a che non fummo di fronte alla porta. Mi feci spazio per poterla aprire e, senza rumore, riuscii a portare a termine la missione impossibile. Una volta dentro, salimmo le scale, Charlie sempre davanti a me, entrammo di nascosto nella camera di Red e la mora si bloccò a guardare la batterista dormiente e seminuda che aveva del tutto ignorato la presenza di coperte e lenzuola, facendole cadere ai lati del letto in mille pieghe.
Posai il borsone da una parte della stanza, mi accostai a Red e le scossi più volte una gamba, fino a che, con una bestemmia colorita, si alzò sulla schiena e spalancò gli occhi. Oh, la faccia che fece quando vide Charlie, la faccia che fece quando mi vide togliermi la giacca, la faccia che fece quando collegò le piccolezze di quelle tre presenze in più nella sua stanza. E dopo, l’ abbraccio, il salto che la più piccola fece per finire fra le braccia della su Red.
Mai riuscii ad essere più soddisfatta. 




A Giuls.
  
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