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Autore: outofdream    22/01/2014    2 recensioni
Rivisitazione di "Twilight", di S. Meyer.
Dal 17 Capitolo:
Rimasi immobile in quel modo, rossa in viso, coi piedi scalzi e i capelli arruffati, lo sguardo fisso su di lui.
Non ero spaventata, ma non sapevo nemmeno cosa fosse giusto fare.
Le sue mani delicate sfiorarono i contorni rigidi della finestra e ne spostarono con leggerezza le ante, facendo entrare nella stanza un’aria pungente, fredda e morbida. Provò a sorridermi, ma sapevo che in quel momento la sua tristezza non conosceva confini e quando lo capii, non potei resistere: corsi verso di lui, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a me.
Oh, Edward.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
Capitoli:
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Nota dell’autrice: Salve a tutti! Colgo questa occasione per augurarvi (con un leggero ritardo) buon anno e fare a chiunque mi segua tanti auguri. Mi scuso anche per non aver aggiornato la storia per così tanto tempo – in quest’occasione posso dire con certezza di aver superato i limiti della mia già incommensurabile pigrizia. Ringrazio comunque tutti coloro che, durante questo break, mi hanno scritto messaggi privati, chiedendomi con un’insistenza adorabile (non scherzo) quando avrei aggiornato la storia e non posso dirvi quanto questo mi abbia fatto piacere, sul serio. Mi ha proprio gratificata :). Detto ciò, vi auguro buona lettura e spero anche che questo capitolo sia valso la vostra attesa.

                                                                                            Ragione e sentimento


«Ti devo portare in braccio fino a letto oppure..?».
«Stai un po’ zitto. Mi sono ripresa, sai? È solo questione di abitudine».
«Non lo metto in dubbio».
Scesi dal pick-up, poggiai i piedi a terra, e in me si liberò questo senso di insopportabile calma che quasi mi faceva mancare l’aria e obbligava ogni cellula del mio corpo a rilassarsi, a distendersi a un punto tale da portarmi quasi a star male a temere di essere sul punto che il mio corpo venisse smembrato.
Stare con Edward a volte mi faceva dimenticare dove mi trovassi, i luoghi della mia realtà e quelli della mia memoria si confondevano, si mischiavano e io mi perdevo, scivolavo lentamente fra momenti e pensieri sconosciuti e là lo ritrovavo, là lui mi accompagnava prendendomi per mano e mi portava via dal mondo. Abbandonarsi era piacevole, ma ogni volta che il tessuto del presente veniva lacerato, dilatato, risvegliarsi diventava sempre più faticoso e la realtà dura come l’asfalto. A un tratto, senza lui perfino l’aria sembrava pesa come cemento e io ero lì immobile, pronta a farmi schiacciare.
«Forse dovresti tornare a casa», dissi, senza guardarlo, «I tuoi si staranno iniziando a chiedere che fine tu abbia fatto». Nel mio tono di voce c’era fin troppo astio, improvviso quanto inaspettato, perché lui non potesse notarlo. Non mi volsi nemmeno a guardarlo, non mi aspettavo una risposta, in quel momento desideravo soltanto che se ne andasse, sì, lo desideravo proprio perché in me cominciava a farsi largo la consapevolezza che con lui era meglio, qualsiasi cosa fosse, che si trattasse della realtà, della mia vita, di una sola porzione della sua, dell’ignoto, era meglio, con lui era meglio e io ancora non riuscivo a farmene una ragione. Avrei dovuto riporre ogni mia speranza che nutrivo per quel rapporto, riporla in un luogo lontano e sconosciuto della mia mente e infine minimizzarla, cancellarla, scordarmi tutto per sempre – tanto, si trattava solo di questo, vero? Si trattava soltanto di un momento, infine le nostre vite si sarebbero separate e a ricordarmelo bastavano le confessioni di Edward: soltanto agli occhi dei suoi fratelli io rappresentavo una minaccia, uno sbaglio, una vita come un’altra. Se avevo assunto un ruolo di qualche rilevo nelle loro vite lo dovevo solo al fatto che non ero morta, come previsto da Alice, ma ero ancora qui e ancora respiravo e già sapevo tutto e di nuovo potevo provare tristezza e dolore all’idea di un futuro astratto che desideravo soltanto appartenesse a qualcun altro. Prima o poi anche lui avrebbe abbandonato la presa, lasciandomi in quel luogo dove la memoria e il reale si fondevano e non sarebbe mai più tornato.
Mi avrebbe cancellata e una parte di me sarebbe sparita.
E anche se fosse rimasto, anche se avesse deciso di ribellarsi a ogni legge o divieto, a che sarebbe valso?
A cosa sarebbe servito? In quel caso, allora, sarei stata io, io con la mia forma umana, la mia debolezza, la mia condanna a svanire. Non l’avrei mai visto crescere, non l’avrei mai visto cambiare, non avrei mai visto in lui neanche un accenno della vita e del tempo che avrebbero investito me, e con tutta la loro forza. Non avrei mai scorto in lui debolezza o affranto, sconforto magari, rassegnazione. Io sarei passata e allora tanto valeva che se ne andasse adesso, che tornasse fra chi non l’avrebbe mai potuto abbandonare, fra chi non aveva più in corpo un cuore che potesse spezzarsi.
«Figurati», fu la sua risposta, «Non hanno bisogno di chiedersi dove sono. Lo sanno già».
«Questo non dovrebbe essere un motivo in più per andartene? Del resto, non è che la tua famiglia nutra un affetto particolare nei miei confronti», continuai io, dura, aprendo la porta di casa.
Lui non rispose. Una parte di me sapeva che non avrei dovuto proseguire, continuare a trattarlo in quel modo, ma non appena fui sul punto di rimangiarmi ciò che avevo detto, di voltarmi con apprensione per dirgli che se voleva poteva rimanere («Almeno finché non torna Charlie», così gli avrei detto, fingendo insofferenza e accondiscendenza), mi tornò alla mente la sua pelle e il sole che si rivolgeva ad essa come a un diamante facendola brillare e dividendola in mille piccole parti splendenti e il mio cuore si strinse in una morsa dolorosissima al ricordo di quanto tutto in noi differisse così terribilmente. Non c’era nulla che ci potesse legare, se non l’apparenza, se non il suo aspetto di adolescente, ma anche in esso vi erano così tante anomalie, così tante piccole imprecisioni rispetto al viso di un essere umano, che era difficile considerarla come una piccola vittoria o rivalsa verso un destino che ci aveva voluti trattare nel modo più spregevole di tutti. «Sì, hai ragione», disse lui, arrendendosi, attendendo però che mi voltassi, anche con distrazione e poco sentimento, «Dovrei andare», insisté allora, parlandomi con un’altra voce, chiedendomi domande che non avevano parole, che non si facevano veicolo altro che dei nostri pensieri.
Lui diceva, «Dovrei andare» e in realtà domandava, «Mi guarderesti, solo per un’ultima volta?».
Io invece, crudele, non fui capace che di dire, «Okay, ci sentiamo».
Lo sentii muoversi, lievemente, e poi fu il vento a trafiggermi come una lama – fui veloce  a voltarmi, a mettere insieme un richiamo, quell’unico nome, ma lui era già scomparso e di nuovo in me si aprì una ferita, profonda come il mare, che mi riportò al giorno in cui eravamo nel parcheggio e lui se ne andò, senza salutarmi come avrei voluto, che mi spinse ancora con la faccia sulla spalla di Edward, mentre eravamo in infermeria, che mi rimise davanti allo specchio quella stessa mattina con di fronte agli occhi il riflesso di quella brava ragazza con un cuore così bianco e un viso così rosso, così addolorato, spento, rassegnato. Ero di nuovo sola e non fui abbastanza veloce nemmeno nel trattenermi, così che, prima che potessi rendermene conto, dalle mie labbra uscì un roco suono e quel suono faceva così,
«Edward aspetta».
Ma alla fine, solo all’aria fu rivolta quella supplica.
Entrai in casa, chiudendomi la porta alle spalle, respirando piano mi feci largo fra lo spazio vuoto e salii fino in camera mia. Ebbi quasi un cedimento alla vista del mio letto ancora sfatto e senza pensarci troppo mi ci gettai sopra a corpo morto, distrutta. Coprii il viso con le mani, nella speranza di liberarmi da quell’inquieto sentire che da un po’ di tempo agitava le mie notti e annacquava il ricordo dei giorni passati, belli o brutti che fossero. «Edward aspetta», una vocina piccina si fece largo fra i miei pensieri ed ebbi un sussulto quando lo vidi al mio fianco, «Tu!», gridai io, senza nemmeno sapere come fosse giusto comportarsi in quei casi. Lui scoppiò a ridere, seduto sul mio letto, «Eri così triste quando ti sei voltata che non ho proprio resistito».
«Tu sei uno sfacciato!», brontolai, rossa in viso, «Ti avevo detto di non entrare qui dentro senza il mio permesso!». «Ma se lo avessi fatto non avrei più potuto prenderti in giro, ti pare?», si giustificò scrollando le spalle, «Io voglio solo giocare», rise.
Provai a spingerlo via, «Ti ho detto che devi andartene. E poi, Charlie sarà qui da un momento all’altro».
«Eri triste per quello che ti ho detto? Di Alice?», si fece serio tutt’a un tratto lui.
«Non ero triste, semmai arrabbiata, non sei nemmeno capace di riconoscere le emozioni umane adesso?», parlai io, forse con troppa enfasi, perché più che una domanda parve uno strillo.
«Ma la rabbia improvvisa non è mai rabbia autentica, giusto? Si tratta sempre di qualcos altro, come un’esagerata felicità o un’esagerata tristezza nascondono sempre qualcosa di diverso. No?», si distese sul letto, facendo dondolare le gambe fuori dal materasso.
«Allora ti chiedo: è per via di Alice che ti senti così? Cioè, comunque sia sei viva, no? Che ti importa di lei, che ti importa di quello che ha visto o detto, tu non sei morta. Va tutto bene, mi pare», provò a sorridere, lasciando trasparire una punta di malinconia.
Fui sul punto di contraddirlo, dirgli qualcosa, qualunque cosa, fargli un discorso anche solo per farlo arrabbiare, infuriare ferocemente, spingerlo a non volermi nemmeno più stare accanto, sempre che fosse possibile, pensai fra me e me, ma infine rinunciai.
«Alice non c’entra nulla», ammisi, dopo un po’, «Anzi. Sai bene quanto me che lei aveva ragione. In confronto a quello che potrebbe succedere se si venisse a sapere cosa siete la mia vita si trasforma davvero in un dettaglio insignificante. E se è arrabbiata nei tuoi confronti non fa altro che bene, ha tutta la mia approvazione sappilo: avresti dovuto lasciare che Tyler mi uccidesse e a quest’ora sarebbe stato tutto molto più semplice per tutti. Con questo, non è che non sia capace di apprezzare tutto quello che hai fatto per me..», aggiunsi, mordendomi il labbro.
«E allora?», incalzò lui, leggermente irritato.
«Allora te l’ho detto: Alice non c’entra nulla».
«E chi c’entra?», si rivoltò su un fianco, poggiando la testa sul dorso della mano, reggendosi sull’angolo dritto creato fra la punta del gomito e l’avambraccio.
«C’entri tu», borbottai.
Lui non rispose e in un primo momento ebbi l’impressione che non fosse stato capace di sentirmi, che avesse, che so, confuso le parole o capito male, che a momenti mi avrebbe chiesto di ripetere e allora io avrei rifiutato con decisione e avremmo lasciato fare quel discorso così spinoso.
Ma fui sciocca anche solo a sperare in qualcosa di simile, visti suoi sensi così sviluppati.
«Spiegami», mi guardò fisso lui, concentratissimo.
Tentennai, in un primo momento, ma poi fu inevitabile giungere alla rivelazione, «Tu non sei come me. Per quanto tu ti possa impegnare e per quanto tu possa provare a controllarti, non sarai mai più un essere umano. È così, no? Ormai sei quello che sei e immagino vada bene, immagino che spetti a te decidere cosa farne della tua vita e se vuoi passare del tempo con me va bene è solo che mi rendi triste a volte. Mi rende triste pensare a quanto siamo diversi. Al fatto che un giorno morirò, e che prima ancora invecchierò e tu invece no, io crescerò e cambierò e tu rimarrai.. così. Per sempre. Io vorrei stare.. tanto tempo con te. Un tempo che ancora non sono capace di calcolare, ma è un tempo comunque troppo lungo perché il mio corpo lo possa sostenere e allora a volte penso, egoisticamente, che se tu fossi umano come me, che se tu non fossi come sei allora forse il tempo che vorrei passare con te sarebbe adeguato alle mie aspettative. Ma invece», mi trattenni dal piangere, provando a non riflettere sul fatto che una dichiarazione simile doveva di certo ferire più lui che me, dal momento che Edward era il primo a soffrire di quella sua condizione, «Invece tu sei diverso e io mi sento sola».
«Bella», provò a dire lui, ma io lo respinsi immediatamente, chiudendomi in un silenzio ostile, cercando di forzarmi a non parlare, a non aggiungere altro peso a quel peso. «Mi dispiace», bisbigliò lui e nella sua voce non v’era nemmeno una punta del risentimento che mi aspettavo, «Io non posso farci nulla, lo capisci, vero? Se potessi, tornerei a essere quello che ero in questo momento esatto, ma come faccio? Lo so che quando ti tocco non è come quando ti tocca Mike o Angela, loro sono caldi, loro sono morbidi e se ti abbracciano non rischiano di sbriciolarti la spina dorsale. Loro sono le persone con cui dovresti passare il tuo tempo, loro non si comporterebbero mai come io mi sono comportato con te: io sono stato ingiusto nei tuoi confronti, lo sai? Lo sai vero? Conosco benissimo i rischi a cui ti espongo ogni volta che provo a avvicinarmi a te, che ti rivolgo la parola, sono perfettamente al corrente che potrebbe bastare un attimo per ucciderti, che non ci vorrebbe niente, che sei così fragile, debole rispetto a me, ma non me ne importa nulla. Io sono stato così egoista con te, così tanto che arrivo a darti ragione: avrei dovuto lasciare che Tyler ti uccidesse, sarebbe stata la scelta più saggia. Ma ormai ti avevo vista. Io ti avevo vista e ti avevo parlato. E tu sembravi buona e gentile e ti guardavo riflessa nei pensieri degli altri e le tue battute e le tue espressioni mi facevano ridere come un matto. Ero felice e volevo rimanere felice e non mi importava di nient’altro. Avrei dovuto resistere, quel giorno, serrare i pugni e seguire Emmett, rispettare il volere di Alice, voltarmi e attendere lo schianto, il colpo, le urla e così saresti stata libera. E invece.. Poi ho trovato mille giustificazioni, mi sono detto che d’altro canto eri così giovane e sarebbe stata una tragedia, che avevo le possibilità di fare qualcosa di giusto per redimermi da questa mia condizione di mostro e allora era bene che la cogliessi, che tuo padre ne sarebbe morto e con lui tua madre, che se Emmett avesse fiutato il tuo sangue sparso a terra sarebbe probabilmente impazzito a dispetto di ogni suo discorso, che non era per me, era un favore che facevo a te e a tutti i tuoi amici a tutti coloro che costellavano la tua vita, che se tu avessi potuto avresti fatto lo stesso, che non avevo scelta.. Ma invece ce l’avevo. Potevo davvero lasciarti morire. Ma non l’ho fatto. E anche adesso che ti vedo così, anche adesso che so che sei così triste e distrutta, io non ce la faccio a pentirmi. Il mio egoismo non ha davvero limiti, sai?», sorrise infine, quasi a voler alleggerire tutti quei discorsi così tremendi. Il suo tono di voce era così amaro, così profondamente contrito e macerato, che non potei far a meno di sporgermi verso di lui con affanno e gridare, stroncata dal dolore,
«È che mi mancherai così tanto!».
Lui si voltò verso di me, senza capire.
«Quando morirò mi mancherai così tanto! Non so in che posto andrò, a volte ci penso, non so cosa mi succederà e mi spaventa, capito?», cominciai a piangere senza ritegno, come una bambina, come la brava ragazza riflessa nello specchio, come se fossi proprio sul punto di morire, «Se un giorno mi troverai però, vieni a cercarmi, hai capito? Vieni da me subito», strillai sopraffatta dal sentimento, nemmeno io sapevo con precisione di cosa si trattasse, ma mi attanagliava il cuore e gli occhi, pungeva il mio corpo e la mia mente e non mi lasciava quasi respirare.
«Vieni da me subito», urlai ancora un paio di volte, prima che lui mi raggiungesse e mi abbracciasse: per un attimo, era caldo. Lui era caldo, le sue braccia, la sua guancia poggiata sulla mia fronte, le sue mani intrecciate ai miei capelli ed io ebbi, per un momento, la sensazione che tutto di lui fosse vivo, che il suo cuore battesse, che anche per lui il tempo rappresentasse una minaccia. Io ebbi come la sensazione di somigliargli davvero in qualcosa, non nell’apparenza, non nei pensieri, non tanto nel modo di fare, quanto in qualcosa di ben più profondo e forse, pensai affondando il viso nell’incavo del suo collo, c’era davvero un legame fra noi, non me l’ero solo immaginato. Forse c’era davvero qualcosa in lui che rappresentava il riflesso di qualcosa che c’era in me e allora cominciai a calmarmi, distendere il mio corpo, ma con dolcezza questa volta, abbandonarmi.  
Strinse le sue gambe intorno a me, chiudendosi sul mio corpo quasi come per proteggerlo o mescolare le nostre membra e io mi rannicchiai al suo petto, con le gambe spinte sul suo addome, egoista anche io, egoista perché sapevo quanto per lui fosse difficile starmi così vicina, egoista perché avrei dovuto respingerlo, essere più forte, egoista perché non avevo avuto la creanza di morire e basta e liberarci entrambi e non me ne importava nulla. Quindi era anche mia la colpa, era sempre stata anche mia. Forse era proprio quella che condividevano le nostre vite: un colpa, una colpa innocente però, una di quelle che si scusano volentieri, che si fa fatica a giudicare con occhi severi.
«Verrò da te subito», sussurrò lui, «Immediatamente. Però tu adesso resta così, va bene?», finì in una risatina imbarazzata quella richiesta, e mi strinse a sé con più forza, «Resta buona in questo modo».
Sorrisi, annuendo, informandolo anche del fatto che Charlie sarebbe tornato a breve, ma in quel momento non m’interessava più di tanto una risposta vera e propria, mi importava solo di dire qualcosa che non mi facesse apparire così coinvolta com’ero.
«Lo so, è tutta la sera che me lo ripeti», sbottò lui, «Tanto tornerò, lo sai che non ho nulla d fare. Fuori mi annoio, e tu sei l’unica con cui posso giocare».
«Allora è vero che sei egoista», bisbigliai.
Questo lo fece ridere, «Sì, è vero. Ma che t’importa? Gli amici si dovrebbero accettare così come sono».
«È proprio un bel discorso questo, sì!», sbottai, «E se il tuo amico è un serial killer?».
«Allora gli passi una pistola», ghignò lui.
«E se è un drogato?», lo stuzzicai.
«Allora gli stringi un laccio emostatico intorno al braccio», rise.
«Ma questo è un ragionamento balordo! È proprio da scemi, davvero, non c’è che dire!».
Edward continuava a ridere, il capo poggiato sulla mia testa – potevo sentire le sue labbra schiudersi in un sorriso enorme e senza pensieri, il dolore di quei momenti, tutti quei discorsi, belli o brutti che fossero erano svaniti e di nuovo eravamo in un posto solo nostro, dove non esistevano tempo o ricordi, ma c’eravamo solo noi e era un po’ come essere a casa, magari non proprio casa tua, ma la casa in campagna, al mare forse, quella che ti infonde un senso di quiete e calma, in cui entri solo in occasioni speciali, in momenti in cui la tua vita rallenta, si prende una pausa e accoglie, filtra solo la parte bella di questo mondo: in questa casa non esistono lo stress, non esiste una routine, non esistono le persone, il caos, solo te e le cose splendenti e meravigliose che questo momento può offrirti. Certo, col tempo avresti potuto iniziare a sentire la mancanza della tua vera casa e infine saresti tornato, avresti lasciato quel posto, anche un po’ per dovere non solo per volere tuo soltanto, un po’ come facevo io con Edward quando lui se ne andava e al suo posto subentravano la realtà, i compiti da fare, la scuola, Charlie, e via dicendo. Ma per ora mi andava bene stare come stavo, stare in lui e rallentare.
«Tu sei balorda», disse e mi morse.
«Edward!», sbottai, «Che schifo!», mi pulii l’orecchio dalla saliva e lui mi sorrise divertito.
«Le ragazze della nostra scuola ammazzerebbero per una cosa del genere e tu mi dici che ti faccio schifo? Sei proprio irriconoscente», mi tirò un pizzicotto lui.
«Ma loro sono delle tonne, non capiscono nulla, infatti sono tutte innamorate di te».
«Guarda che stronza che sei!», mi spinse sul cuscino, «Io ti consolo e te che fai? Mi infami? Ti pare giusto?», gridò cominciando a farmi il solletico e io non riuscivo nemmeno a implorarlo di smettere da quanto ridevo, da quanto ero agitata, per questo, a ripensarci, forse solo quel grido, quell’improvviso suono riuscì a bloccarci – era mio padre che mi chiamava in fondo alle scale, alla fine era tornato davvero e Edward mi lanciò solo una rapida occhiata prima di sorridermi e sussurrare, ‘Mi sa che dobbiamo rimandare’.
In un attimo, era già scomparso.
«Bella?», Charlie continuava a richiedere la mia presenza e attenzione, «Sono qui!», gridai, ma col fiato rotto, tanto che questo mio insolito tono di voce lo spinse a chiedermi se andasse tutto bene.
Dissi che sì, non c’erano problemi, ma lui salì lo stesso a controllare – la sua mancanza di fiducia nei miei confronti a volte mi atterriva. «Che hai fatto? Sei tutta rossa», domandò scrutandomi circospetto.
«Ero fuori con Jessica e credevo di aver fatto tardi, così, ecco», borbottai, «Ho fatto una corsa per arrivare a casa,.. Non volevo farti arrabbiare». Lui mi lanciò un’occhiata poco convinta, «Davvero?», cominciò a guardarsi intorno, a scrutare con attenzione camera mia, «Sei sicura che Jessica non sia anche entrata in casa?», mi domandò, enfatizzando la pronuncia del nome, con aria diffidente.
«Sicura», sorrisi, divertita.
«Al cento per cento?», insisté lui.
«Al cento per cento».
Osservai i suoi occhi posarsi su di me, li vidi schiudersi come boccioli di rosa e notare un guizzo in me, probabilmente un lampo di gioia, qualcosa che comunque mi attraversò ma durò brevemente e sciolse in lui quell’espressione riottosa e severa, plasmando lentamente quel viso, cambiandolo piano in qualcosa di dolce, affettuoso – in quel momento, Charlie parve intenerirsi di fronte al mio viso rubicondo e umido di lacrime e comparve, sulle sue labbra spaccate, un flebile sorriso.
«Mangiamo cinese d’asporto stasera», borbottò lui, ma senza quell’aria scontrosa, «Vai a lavarti le mani, ti aspetto giù». Mi limitai ad annuire. Rifeci il letto, sistemai, per quello che potevo, la stanza e corsi a lavarmi le mani. Quando scesi giù e mi affacciai in cucina, scorsi Charlie già seduto a tavola, che mi aspettava, con le braccia incrociate vicino ai piatti colorati che mamma aveva portato con sé, qualche anno fa, come regalo di Natale. Li usava ancora e in quell’istante, mentre mi sedevo e cominciavo a parlargli, mi chiesi se teneva quei piatti per semplice pigrizia o solo per non scordarsi del dolore. Forse pensava proprio a mia madre quando mangiava da quei piatti, alle loro estati, al modo in cui si erano conosciuti, a cose belle e divertenti, ma forse anche tristi a volte, o piene di rimpianti, cose che non condivideva con nessuno, magari a fatica perfino con se stesso. Cose con cui semplicemente conviveva, senza troppe pretese.
Durante la cena quasi mi dimenticai dei miei sconvolgimenti interni e mi lasciai trasportare dalla quiete familiare, dalla routine, dalla voce increspata di Charlie e dai suoi ragionamenti. Quando fui già sulle scale, a fine serata, ero così spossata, quasi senza saperne il vero motivo, proprio come se la mia mente si fosse indebolita e i pensieri intorpiditi e tutto mi risultava improvvisamente distante, stravolto, inconsistente, che non potei far altro che chiudermi in bagno per lavarmi e prepararmi per la notte. Non so cosa mi avesse reso così, non so cosa mi avesse trasformata in questa creatura così sconvolta e pesante, immaginai lo si potesse attribuire a quelle dichiarazioni, quelle esplosioni di sentimenti che rimbombavano fra le mie ossa e ancora bruciavano contro le pareti interne del mio stomaco e petto, che mi consumavano, mi assottigliavano, dissipando le mie resistenze e vanificando ogni mio sforzo di rimanere lucida.
Mi feci una doccia calda, più lunga del previsto così che, quando uscii le mie estremità si erano tutte tinte di un rosso furioso e pulsante, abbastanza fastidioso a vedersi. Mi misi la crema, mi lavai i denti e m’infilai in qualcosa di più comodo, pantaloni della tuta e maglietta logora. I capelli erano ancora gocciolanti, ma bastò un leggero colpo di phon a renderli soltanto un po’ umidi – in appena mezz’ora tornarono ad essere di nuovo gonfi e morbidi. A toccarli avevo l’impressione che Joshua si muovesse attraverso di me, attraverso le mie mani, che fosse ancora presente e vivo e che non fosse mai davvero cambiato niente. Lui mi parlava spesso, con quelle sue labbra grandi, di quanto gli piacessero i miei capelli, di come fossero belli e bello era per me sentirlo dire in quel tono supplice che mi faceva morire, «Per favore, non tagliarli mai», arrossivo ogni volta come una bambina, e sempre lo rivedevo con gli stessi occhi, anche con quelli del pensiero, anche solo andando a cercarlo fra i miei ricordi perché era tutto lì, tutto come lo avevo lasciato, tutto come quella sera in cui mi chiese di ballare per la prima volta, i The Killers suonavano e io avevo questo abito blu scuro e lui mi disse che per me voleva essere buono, per me e nessun’altra e io ripensai immediatamente a quello che diceva mia madre, che ogni ragazza vuole per sé un ragazzo cattivo che sia buono solo con lei.
Per la prima volta dopo anni, ripensavo a lui senza crollare, senza sentire il bisogno di piangere per ore, piangere ogni lacrima, piangere in silenzio nel più disperato dei modi. Non mi rendevo nemmeno conto di come questo fosse possibile. Uscii dal bagno, a passi lenti e pesanti, trascinandomi fino in camera e una volta lì mi infilai sotto le coperte, completamente assorta fra i miei pensieri, ignara di ciò, di chi anzi, mi stavo dimenticando. Finché non fu lui stesso a riportarmi alla realtà.
«Pensavo che non saresti tornata più».
Mi voltai di scatto, e lo trovai con le braccia conserte poggiate alla mensola della finestra e il mento appoggiato sopra. «Che ci fai lì?».
«Ti aspettavo», scrollò le spalle.
«No, sì, cioè lo so. Ma che ci fai ? Perché non sei già entrato?», sembrai coglierlo di sorpresa perché impiegò più tempo del previsto a rispondere
«Non dici sempre che non posso entrare senza il tuo permesso? Che sono sfacciato?».
«Tu ascolti sul serio?», bisbigliai sorpresa e lui mi lanciò un’occhiataccia.
«Dai, entra», annuii, ributtandomi sul cuscino. Ascoltai i suoi passi incerti e il suo modo premuroso di chiudere le ante della mia finestra, io non lo vedevo, ma potevo immaginarmi le sue dita affusolate muoversi con una precisione quasi chirurgica – lo stesso modo in cui spesso toccava me.
Per sua natura, lui era invincibile, era la pietra antica che rotola giù dal picco più alto della montagna più fredda e travolgeva tutto ciò che trovava sul suo percorso: per contrasto, tutto intorno a lui sembrava essere fatto di finissimo cristallo, come se ogni cosa fosse rivestita e rappresentata da un’unica, sottilissima ostia di vetro. Lui viveva cercando di non infrangere, di non distruggere, di non creare disagi e sapevo quanto gli costasse, quanto potesse costare a chiunque remare con un tale affanno verso la propria natura.
«Posso venire lì con te?», mi voltai, osservandolo con non poca compassione negli occhi e gli feci cenno di stendersi. «Basta che non fai troppo rumore, Charlie è di sotto».
Lui annuì, sghignazzando felice come un bambino, «E adesso che facciamo?».
«Non lo so. Tu ancora non puoi dormire, eh?».
«No», confermò lui.
«Peccato», in risposta ai miei lamenti ricevetti un altro pizzico.
«Com’è?», aggiunsi infine, sovrappensiero.
«Che cosa?».
«Non poter dormire».
Lui rimase un attimo in silenzio, forse per trovare le parole giuste, forse per trovare solo una buona scusa con cui zittirmi, infine disse, «Non so. Mi confonde un po’, a volte».
«Cioè?».
«Cioè, a volte non capisco più che giorno della settimana è», ammise e io scoppiai a ridere, come una bambina, proprio come faceva lui a volte. «Che c’è? È vero. Vorrei vedere te. Io ancora non riesco a abituarmi. Prima invece non avrei fatto che dormire. Non faceva molto piacere ai miei genitori, a ripensarci», era la prima volta che lo sentivo nominare i suoi genitori; io ancora non riuscivo a immedesimarmi completamente in lui, e come avrei potuto?, per questo spesso capitava che vi fossero in me molte domande inespresse, che non potevano risolversi in nessun modo perché bloccate dalla paura di ferirlo ulteriormente e senza motivo del resto. Ma la mia curiosità riguardo certi argomenti era veramente spropositava e non potei far a meno, quella sera, di chiedere di più.
«Si arrabbiavano spesso con te?», tentai.
«A volte».
«Scoprirono mai quello che eri diventato?», osai, senza più riuscire a star zitta.
Lui rise malinconico, «Morirono prima di me, a dirla tutta».
«Oh.. Scusa, io non lo sapevo», mi voltai a cercarlo nel buio.
«Lo so», mi sorrise, «A volte penso che sia stato meglio così. Subito dopo essere stato trasformato poi, non ero proprio una buona compagnia. Ero sempre così arrabbiato, anche più di prima, anche più di quando ero ragazzo e volevo fare la guerra».
«E cosa facevi?», domandai, senza preoccuparmi di celare una punta di terrore.
«Mi accanivo su case abbandonate, distruggendole, spaccavo rami e interi albero. E poi avevo una sete incredibile, sai, quando vieni trasformato il tuo unico pensiero è il sangue, non vorresti altro e immagino fosse anche questo a rendere i rapporti col resto del mondo così invivibili», ridacchiò, «È solo.. Non lo so. Ero triste, davvero. L’ultimo ricordo della mia vita da umano è il viso di mia madre, distrutto dal morbo, sfinito dalla malattia e quell’ospedale, lì dentro faceva così caldo, Dio.. Posso ancora ricordarmi la puzza dei morti, ammassati tutti in un angolo lontano dalle altre sale, ma lì c’era una tale afa che quel tanfo arrivava in ogni posto, non c’era modo di sfuggirli, tutto sapeva di morto, di putrefatto, di malato.. Era una cosa indegna e più tutti si sforzavano a levare quei corpi, più che altra gente moriva, non finiva mai. Mia madre è scomparsa prima che io venissi trasformato e come ultimo gesto mi affidò alle cure di Carlisle, lui esercitava la professione anche allora. Gli disse, anzi gli ordinò, perché mia madre non chiedeva, lei esigeva, imponeva, “Lei deve fare qualsiasi cosa per salvare il mio Edward. Lui è mio, è mio, deve fare qualsiasi cosa”, e immagino che lui la prese alla lettera. Carlisle mi morse e mi trasformò, salvandomi la vita. Quando mi svegliai ero io, ma non ero più io. E allora ero triste e arrabbiato, specie quando la sete cominciò a placarsi.. Prima non riuscivo a pensare a altro. Ma poi.. Poi quando ebbi meno fame, quando potei concentrarmi su altro, mi resi conto di quello che ero, ero solo, non potevo più fare nulla di quello che volevo..», prese tempo, per un momento lunghissimo rimase in silenzio, si limitò soltanto a avvicinarsi a me. «Lo so che è stupido. Io non è che avevo quei grandi sogni.. Ero piuttosto nella media, quindi so che forse a ripensarci adesso, non fu poi quella grande perdita. Ma erano cose mie, cose che non potrò mai più avere. Ancora oggi, non so come affrontare questo pensiero».
Mi alzai su di lui, poggiando la testa sulla mia mano tesa e lo fissai a lungo, «Adesso sei triste?».
«Un po’ meno».
«Avevi tanti amici, quando ancora eri un essere umano?», insistei.
«Un po’, ma non mi ricordo se il nostro fosse un legame profondo. Del resto, non sono mai stato una bella persona, anzi a quei tempi meno che mai. Me la rifacevo con chiunque, specie con chi non poteva difendersi e ho l’impressione che i ragazzi che mi frequentavano lo facessero più che altro per paura che mi mettessi a picchiare anche loro».
«Doveva essere una crema stare con te», lo presi in giro.
«Sì, infatti», rise lui.
«E poi? Che altro?».
«Che vuoi sapere?», fece e io rimasi zitta per un po’. C’era in effetti una domanda, una che non so perché volevo fargli né perché avevo archiviato fra i discorsi da tacere in sua presenza, ma premeva adesso dietro le mie labbra serrate come un proiettile vagante, come una forza insormontabile.
«Eri fidanzato?», parlai tutt’a un tratto e nel momento esatto in cui mi azzardai, in cui le parole sfumarono nell’aria, mi resi conto di quanto infantile e sciocca potesse risultare la mia richiesta. Cosa avrebbe pensato di me Edward? Che ero forse troppo invadente o magari si sarebbe accorto che già occupava un posto preciso nella mia vita, forse perfino nel mio cuore, e che fin da quel momento iniziavo a trattarlo quasi come una mia proprietà? Magari si sarebbe ritirato nei suoi silenzi, avrebbe inventato una scusa qualsiasi e se ne sarebbe andato, lasciandomi ai miei imbarazzati ragionamenti interiori.
Presi un respiro profondo, in attesa di un suo qualche cenno, finché la risposta non giunse, e fu la più inaspettata: «A dire il vero no».
Potevo percepire il suo imbarazzo con una chiarezza spiazzante, «No?», gli feci eco io, sinceramente stupita, «Mai?».
«No», borbottò.
Accesi l’abatjour quasi di scatto, in preda a una qualche frenesia, ma forse solo per vederlo meglio e lo fissai dritto negli occhi, senza preoccuparmi di celare, quantomeno velare il mio stupore.
«Che c’è? Si può sapere che hai da fissare?», sbottò lui.
«Mi prendi per il culo», sibilai.
«No! Sei stupida per caso?». Quant’era irritato! Non faceva altro che farmi venir ancora più voglia di ridere.
«Ma non ti è mai piaciuta nessuna?».
«Beh una ragazza c’era, lei era carina, frequentava il mio liceo..», tentennò.
«E come si chiamava?», lo interruppi.
«Jane, credo.. Può darsi non me lo ricordo. Abbiamo parlato qualche volta, ma non è che, cioè, era diverso», borbottò, ingarbugliandosi fra le parole, «Allora non avevamo tutte queste libertà, baciavi una ragazza e te la dovevi sposare e io mh.. Non feci in tempo nemmeno a arrivare a quel punto diciamo.. Visto che mi ammalai e poi fui trasformato», si schiarì la voce.
«Aspetta..», gli lanciai un’occhiata divertita, «Quindi tu non hai mai fatto.. niente», ghignai io, cercando di trattenere le risa che adesso si facevano quasi incontrollabili.
Lui sbuffò, voltandosi dall’altra parte, «No».
A quel punto fu inevitabile – finii per esplodere in una risata clamorosa, priva di alcun riguardo verso l’orgoglio ferito di Edward. Forse il mio tono di voce fu fin troppo forte, perché Charlie ci mise poco a piombare in camera mia, ritrovandomi sola, seduta sul letto a fissare il vuoto, con ancora la bocca semi aperta e le lacrime agli occhi, «Che stai facendo?», mi chiese, quasi frastornato.
«Ridevo», balbettai io, senza sapere che altro dire.
«Bella. Chi c’è qui con te?», chiese con tono severo.
«Nessuno, sono sola. Mi stavo solo ricordando una cosa che aveva detto Jessica, davvero..», bisbigliai, iniziandomi a chiedere dove fosse finito Edward.
Charlie ispezionò la stanza da capo a fondo, premurandosi perfino di controllare sotto il letto, accompagnato ogni momento dal mio tono supplice e imbarazzato che non faceva che ripetersi nella solita cantilena, «Ti giuro che sono sola!»; ma solo quando fu assolutamente convinto di questo e forse un po’ affranto per le mie evidenti tare mentali, se ne tornò in salotto, ricordandomi di fare la brava e augurandomi la buona notte.
Non appena chiuse la porta, Edward ricomparve alla finestra, questa volta seduto sulla mensola e pareva non aveva intenzione di spostarsi di lì, «Sei veramente chiassosa», commentò acido, «Sei fortunata che posso muovermi in fretta». «Lo so», sorrisi, «Ti sei offeso perché ho riso?».
Non rispose.
«Dai, è solo che mi sembra pazzesco.. Se penso a quello che Jessica dice di te, su come ti immagina..», lasciai cadere la frase in maniera maliziosa e mi alzai da letto, a piccoli passi lo raggiunsi e gli fui di fronte, «Non c’è mica nulla di male, è solo che è divertente».
«Sarà divertente per te», brontolò lui, lanciandomi un’occhiata torva.
«Va bene, non rido più», dissi mordendomi il labbro, «Faccio la buona».
«Mh».
«Cosa posso fare per farti stare meglio?», mi piegai verso di lui, cercando i suoi occhi, ma lui continuava a evitarmi. Non capivo cosa potesse esserci di così terribile in ciò che avevo detto, ma immagino fosse normale – raramente teniamo conto dei nostri errori, delle nostre piccole o enormi mancanze, dei toni di voce inappropriati se propri del nostro corpo. Non è semplice capirsi, ci vuole tempo.
Me ne tornai sul letto e gli feci segno di tornare lì con me, «Se vieni qui ti canto una canzone».
Lui mi guardò come si guarda il mare per la prima volta e mi fu vicino in un attimo, poggiò il capo sul mio petto e si fece carezzare come un gatto, stirandosi nello stesso modo, muovendosi con lo stesso velo di sonno negli occhi. Io mi schiarii la voce e presi un profondo respiro.
«I'm lying on the moon. My dear, I'll be there soon.. It's, a, quiet starry place. Time's we're swallowed up in space, we're here, a million miles away. There's things I, wish, I knew. There's no thing I'd keep from you. It's, a, dark and shiny place but with you my dear I'm safe and we're a million miles away.. We’re lying on the moon, it’s a perfect afternoon. Your shadow follows me all day, making sure that I'm okay and we’re a million miles away», per lui cantai sottovoce e nella maniera più dolce che conoscessi. Cantai per lui con una voce che somigliava a qualcosa di sacro, che non aveva nulla a che fare con questo mondo, che ci rendeva importanti, che lo rendeva importante come essere vivente, come presenza su questo mondo. Io non cantavo mai per nessuno, nemmeno per Joshua, ma lui era diverso, lui aveva bisogno di una voce, di un conforto e non capii bene da che genere di male cercassi di difenderlo finché non lo sentii bisbigliare,
«Posso rimanere a dormire con te, stanotte?».
A quel punto seppi tutto ciò che dovevo sapere su Edward Cullen. Era solo, solo come non lo era mai stato nessun altro, solo in quel momento più che in tutta la sua vita, se così si poteva definire l’infinito cordone di eventi, giorni e persone che lo attraversavano, quasi come se lui fosse stato aria, o meno inconsistente addirittura. Quel suo tono, quel suo piangere senza dover spendere una sola lacrima mi atterriva. Probabilmente, negli ultimi tempi, non era riuscito più nemmeno a parlare con la sua famiglia, si era isolato anche da quella piccola parte di mondo e gli rimaneva solo la mia presenza, ma ero fin troppo cosciente di me stessa per poter pensare che questo gli bastasse: certamente le differenze che ci separavano dovevano lacerare anche lui, così come laceravano me. E ora più che mai questo sentimento angosciante avanzava, strisciando fra le tenebre, cogliendolo nel momento di maggiore vulnerabilità, quando il mondo si addormentava e lui rimaneva così, sveglio, incapace di chiudere gli occhi, smettere di esistere, sognare. Lui non aveva più nulla con sé che potesse confortarlo prima che l’alba giungesse di nuovo, e nemmeno la mia vita poteva spezzare questa maledizione che gravava su di lui come una spada di Damocle.
E allora io cantai, cantai per lui fino alla fine della notte, fino alle porte dei miei sonni, dove le nostre strade si separarono, per qualche ora o forse più. Cantai affinché avesse qualcosa, cantai per dargli un ricordo. Per dargli qualcosa che rimanesse imperturbato nei suoi infiniti giorni, che mi sarebbe sopravvissuto. E allora forse, anche dopo la fine del mio tempo, lui avrebbe cantato quella canzone e pensato a me, e pensato a qualcosa che forse non era perfetta, non era bellissima né magica, che non era stata certamente in grado di offrirgli tutto ciò che gli era stato tolto, ma almeno c’era. E nessuno avrebbe potuto portargliela via.
In quel modo allora mi addormentai, cantando e pregando per lui.
  
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