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Autore: Haku7    04/02/2014    0 recensioni
"Erano perduti e pieni di colori, come girandole nel vento, come aereoplani di carta in cerca di atterraggio nella nebbia. Come dei girasoli notturni.
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"Sebastian Joyce non avrebbe saputo definire con certezza quando e come aveva iniziato a capire che il suo posto nel mondo non lo avrebbe trovato, se non creando il proprio. Se non vedendolo attraverso l’arte, l’unica cosa che riuscisse a destarlo dalle incertezze che lo avevano sempre accompagnato. La sua chitarra, quella era la sua vera voce, quello strumento che quando maneggiava gli trasmetteva una sorta di eterna rassicurazione.
Niente era perfetto come le melodie che volteggiavano invisibili nell’aria, che si rincorrevano e infine fuggivano oltre le barriere di questa stanza, come presagi di un futuro ancora non definito, ma indubbiamente buono."
--
"Sono sempre stato troppo diverso, da tutti quanti, e sono diverso anche da te. Ma il nostro dolore è lo stesso, e lo stesso può essere anche il modo in cui riusciremo a salvarci."
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Sebastian ed Eric, Eric e Sebastian. Due personalità differenti con un passato difficile da dimenticare, che si incontreranno casualmente. La musica come filo conduttore della storia.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo terzo – The passenger.


 
Io sono il passeggero, e viaggio, e viaggio,
viaggio attraverso i bassifondi delle città,
guardo le stelle spuntare nel cielo.
Sì, il cielo luminoso e vuoto,
sai, sembra così bello stanotte.
Io sono il passeggero, sto sotto al vetro,
guardo attraverso il mio finestrino luminoso.
(Iggy Pop- The passenger)
 
 
 Eric Weymouth
Luton, tredici settembre 2012.

Un fastidioso, acuto rumore interrompe la mia attenta perlustrazione dell’edificio. No, possibile che sia già finita la ricreazione? I nuovi compagni mi hanno rubato un sacco di tempo con quelle domande idiote, e in cinque minuti ho visto soltanto un paio di corridoi, e qualche aula. Beh, in fondo avrò tutto l’anno a disposizione per imparare ad orientarmi qui dentro.
 Ma già da quel poco che ho visto, credo che questa scuola abbia un’aria fin troppo ordinata per i miei gusti. Come diavolo si fa a piazzare dei neon sul soffitto? La fredda luce che producono non ha nulla di rassicurante, come non ne hanno le pareti spoglie, gli armadietti grigi perfettamente allineati l’uno di fianco all’altro, o l’aria triste e annoiata degli insegnanti che ho visto passare.
Fortunatamente il cortile fuori non sembrava affatto male. Domani ci andrò di sicuro a passare un po’ di tempo, almeno per prendere una boccata d’aria.
Sono stato io a volermi iscrivere a scuola, quest’anno. Mi mangerà un sacco di tempo, ma non ho il diritto di lamentarmi neppure con me stesso. E’ chiaro, ora come ora non ci guadagno un fico secco, a fare le superiori, ma senza le superiori a un’accademia d’arte qui non ci posso andare, poco ma sicuro. E non posso rinunciare a un’accademia, come chiaramente non posso rinunciare al canto, adesso che finalmente prenderò le scelte che ritengo più adatte a  me. Perché, finalmente, da qualche mese ho ricominciato tutto da capo, e sono praticamente da solo. E questo significa che ad occuparsi di Eric Weymouth, c’è soltanto Eric Weymouth. Non posso più non prendermi curarmi di me stesso, né ora, né in futuro.
C’è da dire che qui a Luton, da quando sono arrivato, le cose sembrano avere preso la piega giusta. Ma dai, sto anche a preoccuparmi perché la scuola non sembra un granché? Tanto, qui dentro ci passerò soltanto poche ore. Le mie giornate sono sature di impegni, e la cosa non mi dispiace affatto, mi fa sentire vivo. Fortuna che ho fatto l’abbonamento del treno e dei mezzi pubblici… mi è costato un occhio della testa, ma sarò a Londra tutte le volte che voglio!   
Per Oggi pomeriggio, e anche stasera, però, non ho niente di programmato. Oggi non è un giorno in cui devo cantare, peccato. E non devo nemmeno  consegnare i giornali, perché  i giorni dispari non li consegno mai. Soltanto stanotte servirò al bar, ma dubito finirò dopo le quattro di notte…. non sarà una giornata troppo pesante.
Di malavoglia, mi dirigo verso l’aula, in leggero ritardo. Noto con sollievo di non essere l’ultimo arrivato, la porta è ancora aperta, e, ad occhio e croce, manca almeno la metà degli alunni.
Vorrei evitare Jake, quel ragazzo che si è presentato a me riempiendomi di domande, puzza di presunzione a dieci chilometri di distanza. Eppure, anche se non direttamente, finisco per avere un nuovo contatto con lui.
Jake si è seduto al mio posto, di fianco al ragazzo biondo, il mio vicino di banco. Sebastian, ecco come si chiama. Anzi, Seb. Mi ha detto che gli piace essere chiamato così, e trovo che gli stia molto meglio, questo suo soprannome. Seb è un nome breve, ed ha un suono piacevole, mentre Sebastian ha un che di  avere un tono altezzoso. E lui sembra tutto tranne che altezzoso, ha piuttosto l’aria sfuggente, riservata, di chi cerca di nascondersi al resto del mondo. La tristezza nei suoi occhi certo non mi è sconosciuta… somigliavo a lui, qualche anno fa? Probabilmente sì. E forse è anche a causa di questa sorta di empatia, che, alla vista di Jake intento a tormentare Seb, provo una forte fitta di irritazione.
Mi fermo a una discreta distanza da loro, tendendo le orecchie per comprendere di cosa stiano parlando con tanto attrito.
 «No, che non ci ho parlato molto. Mi ha solo chiesto come mi chiamo, nient’altro.», sento Sebastian affermare con aria visibilmente annoiata, sollevando gli occhi chiari al soffitto.
«Ma hai detto che non sembra affatto male. Hai detto che sembra …. SIMPATICO! »,  ribatte Jake con tono tagliente, enfatizzando l’ultima parola e socchiudendo appena gli occhi, quasi a voler assumere un’espressione minacciosa, ma che provoca in me  una smorfia divertita. Dio, quando tenta di fare il bulletto di turno è un vero spasso! Dato che non capisco a chi si stiano riferendo, cerco di rimanere ancora un po’ al mio posto ad ascoltarli, sperando di non essere notato.
«Sì, l’ho detto. E con ciò?»
«A te non sta mai simpatico nessuno, Sebastian Joyce, l’ho notato l’anno scorso, te ne stai sempre per i fatti tuoi. I tipi come te non hanno degli amici, caso strano. Stai tranquillo, comunque, che quello è fatto di una brutta pasta. L’ho capito subito. Il classico alternativo testa di cazzo. E’ per questo che ti sembra simpatico? Perché è diverso da noi, come lo sei tu? Guarda che manco lui farà caso a te. Oppure ti sta simpatico perché gli sto antipatico IO?»
«E a te sta antipatico perché non risponde alle tue domande come vuoi tu, e a come sei abituato facciano tutti, e questo insozza il tuo ego smisurato?»
Jake ammutolisce per qualche istante, per poi alzarsi bruscamente in piedi nell’udire la voce dell  l’insegnante annunciare la ripresa delle lezioni, fulminando Seb con lo sguardo prima di tornare al suo posto.
«Quest’anno avrai anche  la lingua più tagliente, Joyce, ma resti lo stesso sfigato di sempre, ricordatelo. E quell’Eric Weymouth a me non fa paura, se è questo ciò che credi. Tu e lui mi sembrate la stessa feccia.»
I miei sospetti si riconfermano alle ultime parole del ragazzo: stavano parlando di me. Affrettandomi a raggiungere il  mio posto con un ghigno divertito, resto a guardare per qualche istante il ragazzo che mi ha sparlato dietro di me fino a poco fa, che appare ancora immusonito, per poi spostare lo sguardo su Seb, intento a scribacchiare su un quadernetto, ma con un’espressione leggermente turbata dipinta in volto.
Disegna in un modo eccezionale questo ragazzo, ma se ne rende conto? D’accordo, sono curioso, troppo curioso, quando mi interessa qualcosa divento un ficcanaso assurdo. Ma non ho potuto fare a meno di osservare i lavori di Sebastian nella lezione precedente, ha riempito un foglio in pochi minuti con un disegno psichedelico, pieno di mattoni, filamenti di DNA, e numerose scritte. Vorrei chiedergli di poter vedere altri suoi disegni, ma non voglio disturbarlo, sembra così concentrato.
Sono perfettamente cosciente che ciò che sto per fare non è assolutamente rispettoso nei suoi confronti, ma sono tendenzialmente troppo impulsivo: così, non appena lo vedo rivolgere l’ sua attenzione ai libri di scuola, seguendo il testo che l’insegnante sta leggendo, afferro prontamente il suo quaderno di schizzi, cercando di non farmi notare.
E’ un vero talento! Non mi azzardo a leggere nulla delle pagine ricoperte interamente di scritte, ma ai disegni ci butto un occhio. Città costruite con strumenti musicali, persone di ogni forma e fattezza, elfi, musicisti, ragazze dagli occhi grandi e tristi, e ancora muri, muri e mattoni, scale dorate, campi di fragole ed esplosioni di colori. Altra cosa che noto, citazioni di canzoni ovunque. Canzoni che oramai conosco a memoria:  buona musica!
Ha costruito un mondo insolito, su questo quaderno, Sebastian.
La mia sfacciataggine è immediatamente punita: mi accorgo di essere stato colto sul fatto quando sento la voce del ragazzo richiamarmi. Non con rabbia, contrariamente a quanto mi sarei aspettato, piuttosto, con genuina sorpresa.
«Ma quello non è il mio quaderno, scusa? Perché lo stai guardando?»
Sollevo lo sguardo su di lui, sorridendo istintivamente a quella domanda quasi ingenua.
« Disegni bene, sai? E disegni cose contorte. Contorte, ma originali. Particolari, belle. Oh, già, e ascolti pure buona musica, a quanto vedo.»
«Beh… grazie mille, allora...», replica Sebastian con comprensibile perplessità, per poi annuire debolmente. «Ma non mi hai ancora detto perché guardavi il mio quaderno. Ti ho dato il permesso?»,  domanda poco dopo, accennando un piccolo sorriso, come a volermi far capire di non essere arrabbiato, ma di stare porgermi quella domanda come per scherzo.
«No, mi sono dato il permesso da solo, infatti! Perché sono troppo curioso, troppo, li stavo guardando di sfuggita nell’ora precedente e volevo guardarli meglio. E perché mi sembri uno che si nasconde senza meritarsi di doverlo fare.», replico senza pensarci due volte, come ho preso a fare negli ultimi tempi.
Forse non è il modo giusto per rapportarsi con un mezzo sconosciuto, lo so, ma la verità è che non so bene, ne’ l’ho mai saputo, come ci si approccia decentemente agli altri. Ultimamente, ad esempio, mi viene naturale dire tutto ciò che mi passa per la testa. Forse, non aver parlato quasi del tutto per tanti anni ha leggermente distorto nella mia testa le regole fondamentali per avere una conversare educatamente…
«Cosa intendi dire con “Sei uno che si nasconde”? Tu non mi conosci nemmeno!»,  replica Sebastian, rendendo raffreddando improvvisamente  il proprio tono di voce.  Persino i suoi occhi, quei due cieli chiari in continuo subbuglio, come attraversati da nuvole di inquiete, si raggelano, diventano due pozze di ghiaccio.
Si sta proteggendo, si sta proteggendo da un mio possibile giudizio che potrei trarre, non vuole che io scopra qualcosa in più su di lui. Dovrei demordere, lo so. Ma non riesco a fermarmi mai alla superficie delle persone. Quando scorgo del ghiaccio intorno a loro, mi piace romperlo. Rompere il ghiaccio, le maschere che portano, e scoprire cosa si cela sotto, fino a scorgere ciò che sono realmente, ciò di cui hanno bisogno, e, perché no, a provare a darglielo.


«Hai ragione, io non ti conosco. Però conosco il tuo sguardo, fin troppo bene. I tuoi occhi sono spenti, quando parli con la gente. E quando ti guardi in giro, sembra che tu voglia scomparire. O piuttosto, che tu voglia essere altrove. Ecco cosa intendo quando dico che ti nascondi.», replico senza esitare, e osservando al contempo le reazioni del ragazzo.
Inizialmente tenta di ignorarmi, ma dopo qualche parola, il suo sguardo si posa nuovamente su di me, titubante, quasi come se ascoltare le mie considerazioni potesse rivelarsi pericoloso. Con mia grande sorpresa, fa un cenno di assenso, quasi impercettibile, così gli pongo un’ultima questione, deciso poi a non dargli ulteriormente fastidio. Perché forse lo sto ferendo facendogli notare certe cose, seppure le mie intenzioni non siano cattive.
«Sai, Seb, prima, durante la lezione, quando ti ho visto disegnare, eri completamente diverso. Ti brillavano gli occhi, sembravi felice, a tuo agio. Disegnare ti rende felice? »
Sebastian ammutolisce per qualche istante, mordendosi appena un labbro con aria pensierosa, per poi replicare con tono pacato, ma inaspettatamente deciso.
«Sì, mi rende felice, perché collego la matita ai miei pensieri, e così posso creare il mio mondo su un foglio, oltre che dentro alla mia testa. E può darsi che mi nasconda come dici tu, certo. Ma in fondo, preferisco il mio piccolo mondo personale e immaginario che mi sono costruito da solo a quello in cui vivo. E’ per questo che quando disegno sono felice e non sembro voler essere da un’altra parte. Non sono più nel mondo normale, non del tutto.»
Poco dopo aver pronunciato quelle parole, lo sguardo di Sebastian torna ad incollarsi al pavimento, come se in quel momento provasse una grande vergogna.

Vorrei fargli capire lo comprendo a pieno, è la verità.
«Ma certo,  anche a me succede così quando canto. Beh, adesso nel mondo mi sono adattato abbastanza, ma è stata la musica a salvarmi quando anche a me non sembrava accogliente.», ammetto, sfogliando febbrilmente le pagine del quaderno del ragazzo. Di nuovo, quel meraviglioso universo di disegni e colori mi si catapulta davanti. «Dev’essere un bel mondo quello dentro la tua testa. Folle, confuso, ma colorato. Eppure, sto notando che anche questo, di mondo, ha figure infelici. Perché? »
Seb scrolla appena le spalle sottili, corrugando il labbro inferiore in una piccola smorfia.
«Non sono affari tuoi. Se sono infelice, Eric, non sono affari tuoi. Perché ti interessa così tanto scoprire certe cose?»

«Se non vuoi parlare di tristezza, allora parliamo di cose felici, dai. Oltre a disegnare, cosa ti rende felice? »
Una piccola ma sincera risata, la prima che sento, è la risposta  immediata del ragazzo.
«Certo che sei proprio un testone! Conoscevo soltanto una persona che riempiva la gente di domande come fai tu. Comunque, vediamo. Mi piace l’autunno, e mi piace quando il clima è nuvoloso. Mi piacciono i colori dell’autunno, sono i più belli di tutti, anche se qui, dove vivo io adesso, ci sono pochi alberi, e quindi è quasi tutto grigio ed uniforme. Mi piacciono le foglie secche che scricchiolano sotto ai piedi, la pioggia, quando è leggera, e poi il vento, quello è fantastico.
Poi l’inverno mi rende felice, la neve, i boschi, e amo anche molte città, piccole o grandi che siano, non ha importanza, basta che abbiano un’anima. E poi c’è la musica che considero fondamentale, ma credo che questa sia per me come una lama a doppio taglio. Mi rende felice, ma mi ha portato anche tristezza.»
Stupito dal fatto che Seb abbia parlato così tanto, che si sia dilungato rispetto al solito, mi apro in un istintivo sorriso alla sua risposta.
«Beh, non sono poche cose, direi! Ma le persone? Non hai detto niente del tipo “Uscire con i miei amici, scherzare con loro, stare con la persona che amo..”»
«Beh, non posso dirti che le persone mi rendono felici, perché mentirei. La maggior parte di quelle a cui ero legato si sono allontanate da me, o io da loro, o sono cambiate.», mormora appena il ragazzo, con un tono leggermente incerto, quasi volesse scusarsi per quell’attimo di debolezza.

«Capisco. Mi dispiace...»  replico sinceramente, con un debole sospiro.

Gli restituisco il quaderno pochi istanti dopo, e, chinando il capo sul libro di scienze, mi dico che devo iniziare a seguire le lezioni, almeno un po’. Quel poco che mi serve a memorizzare durante le ore di scuola, e non dover studiare troppo dopo.
E a non tormentare troppo il mio vicino di banco, ma a provare a ridargli almeno un po’ di buon umore, quel minimo che meriterebbe, ora che ho ottenuto un po’ della sua confidenza, e, chissà, forse anche amicizia.

Le ore a scuola passano lentamente; quando la campanella suona sono sfinito, mi sento la testa pesante come un mucchio di mattoni.


Sebastian ripone con una certa fretta i libri nello zaino, affrettandosi ad uscire dall’aula come se non volesse trattenersi ulteriormente in quel luogo, mentre il resto della classe si affolla rumorosamente in piccoli gruppi, prendendosela comoda, tra una chiacchierata ed uno snack. Istintivamente, seguo il biondo, desideroso anche io di uscire dall’edificio il più presto possibile. Il passo di Sebastian è incredibilmente rapido, e a stento si riconosce tra la folla di ragazzi la sua figura sottile; ma proprio quando penso di averlo perso di vista del tutto, una volta messo piede fuori dal portone principale, me lo ritrovo di fianco, intento a digitare in tutta velocità un messaggio con un cellulare. Sedendomi in terra ad aspettare il pullman che mi riporterà a casa, mi maledico mentalmente per essermi dimenticato le cuffie sul letto, questa stamattina, e prendo a canticchiare a bassa voce, giusto per attutire la noia. Se avessi una sigaretta sarebbe una bella cosa, ma mi scoccia chiederle a Jake, che noto poco distante da me, circondato da un mucchio di ragazze, intento a fumare in compagnia.
« Marjane! »:  una voce incredibilmente allegra e  familiare, mi riscuote improvvisamente, e tendo appena le orecchie, inevitabilmente curioso.
«Sì, oggi, è iniziata oggi. No, niente di interessante, ahah, ci hanno già riempiti di compiti il primo giorno! ». Riconosco la voce di Sebastian in quella conversazione, e vedendolo parlare al telefono, decido di sedermi da un’altra parte per  non farmi gli affari suoi. Mi rialzo in piedi, allontanandomi da lui, fino ad arrestarmi qualche istante dopo, nel riconoscendo il mio nome nel groviglio di parole che il ragazzo sta rivolgendo a quella che presumibilmente è una sua amica.
«Eric, non Erin, è un maschio, sì. Fa un sacco di domande, come faceva  Rick, sai? No, no, per il resto non gli somiglia tantissimo, di certo non di aspetto. Magari di carattere, sembra spontaneo e sincero. E’ curioso, ma non è invadente. O meglio, all'inizio pensavo fosse un impiccione assurdo, però ha buone intenzioni, si capisce. Penso andremo d’accordo, non è come gli altri, qui. Questa è la buona novità. Mh. »
Non faccio neppure in tempo a rallegrarmi per quelle parole, che Sebastian entra nel primo autobus disponibile, e riesco a cogliere soltanto un altro paio di frasi di quella conversazione.
«No, no, Marjane, non sono ancora pronto per farlo, senza te e Rick non è più lo stesso, lo sai anche tu. Certo che non ho smesso, non riuscirei mai a smettere.. »
Di cosa sta parlando? Smettere e riprendere a fare che cosa? Temo non lo scoprirò mai, ma sono terribilmente curioso.
Il mio pullman! Finalmente, salgo anch’ io sul mezzo pubblico e mi dirigo verso un sedile vuoto, quando sento una mano posarsi sulla mia spalla con una pacca affettuosa e leggera.
«Vecchio mio, che ci fai qui?»
Voltandomi di scatto, riconosco Rachel, i capelli corti e scuri, arruffati come sempre, e i grandi occhi color ambra che sorridono in sincrono con le sue labbra.
«Rachel? Potrei dire lo stesso … non prendevi un altro pullman?», le domando perplesso. La ragazza scuote il capo con una smorfia divertita, per poi mi rivolgermi una sonora pernacchia, prendendo posto su un sedile di fianco al finestrino.
«Sceeemo! Guarda che sei tu che hai sbagliato pullman, questo è il 22!»
Realizzando che Rachel non sta scherzando, nonostante il tono, mi batto una mano sulla fronte, scoppiando a ridere e scuotendo il capo rassegnato.
Il pullman ormai è partito da un bel pezzo, scendere a questo punto sarebbe inutile.
«Non so come abbia fatto a non accorgermene, cazzo! Va beh, tanto il pullman si ferma più o meno vicino a casa, faccio un quarto d’ora a piedi e sono a posto!»
«Buona, dai! Vieni qui, che c’è posto! Com’è la scuola nuova?»
Rachel sposta rapidamente la borsa dal sedile di fianco a sé, posandola sulle sue ginocchia;e sedendomi di fianco a lei, le racconto brevemente la mia giornata, descrivendole grossolanamente la struttura dell’edificio, i compagni.
«Niente male, dai, due anni passano in fretta, amico. Non torturare troppo quel Sebastian, e molla un cazzotto da parte mia a quel Jake, quando lo rivedi!»,  replica Rachel con tono scherzoso, giocherellando con un pacchetto di sigarette, rigirandoselo tra le mani più volte. «Hai da fare ‘sto pomeriggio? Altrimenti facciamo un giro in città, se ti va, dopo pranzo.»


«Sono libero fino a stanotte, strano. Certo, va bene. Pranzi da me?»
Rachel annuisce entusiasta, con un ampio sorriso. Se la invito volentieri a casa mia quando posso, è perché è un’ospite ben gradita, la più cara amica che io abbia mai avuto. Ci siamo conosciuti qualche mese fa a Camden Town, quando ero arrivato qui da poco, quasi per caso, in quel quartiere di Londra che sprizza d’arte da ogni poro. Inutile dire che è anche grazie a lei che ho trovato parecchi nuovi contatti, e ora guadagno discretamente grazie ai lavoretti che faccio.
Io e Rachel ci siamo sorpresi a frequentare sempre gli stessi posti, gli stessi negozi, e più volte ad ascoltare per strada gli stessi gruppi. Quando ha sentito cantare me, finalmente mi ha rivolto la parola, annunciandomi con un sorriso mai visto prima che aveva trovato la voce che serviva ad un buon gruppo.
Di ricca famiglia, Rachel ha studiato al conservatorio fin da bambina, sa suonare una marea di strumenti, pianoforte, chitarra, e anche a cantare se la cava alla grande, ma ha trovato la sua passione nel basso elettrico. Grazie al costante impegno che mette nel suonare, ha conosciuto diversi musicisti e artisti in giro per la città, in particolare nei quartieri di Camden Town e Soho, che mi ha presentato con piacere. In particolar modo, Ultimamente sto facendo anche amicizia con Vince, un batterista che spesso esce con noi, con un carattere un po’ difficile, ma niente male, se lo prendi per il verso giusto.
So che Rachel non ha una gran bella situazione in casa, e che non vede l’ora di andarsene;  sta già iniziando a mettere da parte i soldi con piccoli lavori e suonando in giro, e io non vedo l’ora di trovare un valido chitarrista, cosicché io, lei e Vince possiamo finalmente suonare insieme. Fondare un gruppo è il nostro sogno, siamo in perfetta sintonia, quando suoniamo.
Il paesaggio intorno a noi, nel frattempo,  è cambiato rapidamente, facendosi più grigio, uniforme, freddo. E’ una periferia triste, quella dove abito, ma il mio condominio dove vivo non mi dispiace affatto, almeno internamente. Ci arriviamo dopo un quarto d’ora di rapida camminata, accompagnata da allegre chiacchiere. Rachel ha un carattere piuttosto piacevole, è sempre bello parlare con lei.
Se c’è una cosa che amo del palazzo in cui abito, è che abbia le persiane. Tutto un altro paio di maniche rispetto a delle finestre spoglie. E poi, ha un colore diverso da tutte le altre qui intorno, un tenue azzurro, quello che nelle scuole d’arte chiamano color carta da zucchero. Un po’ sbiadito, un po’ macchiato e un po’ rovinato, ma pur sempre un bel colore.
E poi, Sono fiero di come ho gestito i pochi metri quadrati dell’appartamento. Mi sono portato via ogni effetto personale da Greenwich, così ho le pareti tappezzate di quadri, poster, disegni, le ho anche decorate a mia volta. Ci sono piccoli mobili dalle forme bizzarre, statuette, e ogni cosa qui dentro ha un aspetto allegro, vintage, insolito. E’ un groviglio disomogeneo di colori ed oggetti, ma a me piace. Ho passato tutta la vita a sentirmi dire quanto le stanze debbano essere ordinate, ordinate, e ordinate, ma è nell’allegro disordine che io mi sento a mio agio. Mi piace che gli oggetti non debbano avere una statica collocazione, ma che si possano spostare, muovere all’interno delle stanze, perché queste cambino un po’ ogni volta che si vedono, affinchè prendano un po’ di vita.
Sedendoci sul divano a mangiare dei panini, Rachel tira fuori il suo vecchio portatile dalla borsa di scuola, posandolo sulle ginocchia e rivolgendosi a me con un ampio sorriso. Non ho quasi mai l’occasione di avere una rete internet o un mezzo con cui navigare, e Rachel sa quanto possa farmi piacere ascoltare quei musicisti nascosti sul web, che non si possono ascoltare altrimenti.
«Che dici, Eric, sentiamo se Haku ha messo qualcosa di nuovo?»
«Assolutamente, sarà un mese che non ho sue novità!»
Haku è un musicista che ha account su youtube, e  che Rachel ha trovato tramite alcune pagine dei social network, dove ha raggiunto una discreta fama, almeno qui in Inghilterra.
Non ho la minima idea di chi si celi sotto questo suo pseudonimo, ma non mi importa più di tanto. La sua musica è un qualcosa di originale, ti cattura inevitabilmente, combina spesso melodie create con la chitarra ad altre create con il basso. Oltre a notare la sua indubbia abilità tecnica, io e Rachel conveniamo più volte su quanto bravo sia Haku a comporre e ad inventare, a sbizzarrirsi.
«Fall ? Perché?»  domando all’amica, leggendo un po’ perplesso il titolo di una nuova canzone di Haku che compare in bella vista sul suo canale, uscita pochi giorni fa.
«Non ne ho idea, ascoltiamo e vediamo, spero sia buona come le precedenti!»,  ride Rachel, facendo partire la nuova traccia.
Parlare di musica è difficile, assurdo, non saprei mai descrivere le sensazioni che provo ascoltando i lavori di Haku, né descrivere i passaggi delle sue melodie: in questo brano, laddove la chitarra si perde o distorce, il basso sembra tenere in piedi il tutto, corre, rallenta di nuovo, torna a fondersi con la chitarra, che da lunghi assoli malinconici ritorna a creare rapide esplosioni di gioia, toni bassi e alti che si alternano. E’ come assistere a un temporale di suoni, ma con sequenze temporali confuse tra di loro, come se l’arcobaleno venisse prima del diluvio, le gocce lievi dopo di la tempesta. Dopo tre minuti, il brano si conclude senza un brutale distacco, e mentre i suoni del basso e della chitarra si smorzano lentamente, una scritta appare nel video, prendendo il posto del verde uniforme dello sfondo: “Fall: caduta, o autunno.”
«Hm, che la canzone riguardi entrambe le cose?. » Commenta Rachel qualche istante dopo, accennando un piccolo sorriso. «Gli scriviamo di nuovo in posta? E’ così gentile, segue i nostri lavori. E vorrei anche capire qualcosa di più su questo brano.»
Annuendo, prendo a digitare velocemente sulla tastiera qualche parola, fermandomi di tanto in tanto ad ascoltare anche Rachel, cercando di uniformare il tutto in un breve e semplice messaggio, che firmo utilizzando i nostri nickname online.
“Ciao Haku, siamo R. ed E. dei Fireflakes , cantante, e bassista-tastierista-occasionalmente chitarrista. Ti ringraziamo per i commenti che ci hai lasciato, è bello che la nostra musica inizi a diffondersi, anche se abbiamo caricato quasi soltanto cover. Volevamo farti entrambi i complimenti per “Fall”, il tuo ultimo lavoro:  adoriamo la tua tecnica, ma soprattutto la tua creatività, ci sembra il miglior pezzo che tu abbia mai fatto, migliori davvero rapidamente! E se ti scriviamo, è anche per una curiosità: è sia d’autunno che di caduta, che suoni? E, se non è troppo personale, continuerai il tuo progetto da solo, o suoneresti anche con altra gente?”
L’ultima domanda l’ho voluta fare io, muoio dalla voglia di sapere qualcosa di più su questa specie di genietto, di cui ho capito solo che è piuttosto giovane. Dopo aver inviato il messaggio, come senza contare troppo su una tempestiva risposta, Rachel sgattaiola in un’altra stanza, a ravvivarsi frettolosamente la chioma e il trucco;  io, a mia volta, mi preparo per uscire, recuperando tutto l’occorrente per restare fuori questa sera .
Poco prima di uscire, Rachel si accinge a chiudere il computer, non senza dare un’ultima occhiata al monitor, aprendosi così in un ampio e soddisfatto sorriso.
“R. ed E., grazie mille per tutti questi complimenti, non li merito davvero!  E’ tutto da solista al momento, è una lunga storia. Non mi dispiacerebbe trovare qualcuno con cui suonare, ma sono in un posto in cui c’è poca gente che sembra condividere i miei interessi, e devo ammettere anche di avere un carattere poco avvicinabile, ultimamente. Però, in futuro, chissà, sarebbe bello! Oggi ho conosciuto una persona con la maglia del mio gruppo preferito, vedete il caso? Magari finiremo per suonare insieme! In  bocca al lupo a voi, non vedo l’ora di ascoltare qualcosa di nuovo di qualche vostra novità!
P.s.: Sì, avete capito bene: il brano voleva descrivere due cose, inizialmente una caduta figurata, emotiva, ma che non dura per sempre ma che si ripete più volte … lo avrete notato dall’andatura del suono, dai suoi sali e scendi. Ma in generale, volevo si riferisse soprattutto all’autunno, le cui cadute disomogenee potrebbero ricordare quelle delle foglie. Non sono molto bravo con le parole, scusate se non mi sono spiegato molto bene.“
Legge Rachel ad alta voce, per poi lanciare un’occhiata divertita alla mia maglia, scrollando appena le spalle.
«Domani, chiedi in giro alla tua scuola se i Led Zeppelin sono il gruppo preferito di qualcuno:  non si sa mai che tu abbia Haku a un palmo dal naso!»
«Certo, e magari scopro che è Jake!»
Scoppiando entrambi in una fragorosa risata, ci affrettiamo a lasciare l’abitazione, impazienti di raggiungere la città.
 
E’ incredibile, almeno per quanto mi riguarda, quanto velocemente e bene il tempo passi a Londra. Non c’è nulla che mi sembri noioso, e da quando sono qui, mi sembra di avere iniziato una nuova esistenza. Sera, pomeriggio, mattina, respiriamo l’aria della città che ancora conserva il profumo di tutto ciò che ha visto e vissuto, e ancora sta vivendo.
Che la gente mi creda o no, quando mi sdraio nei prati di Hyde Park sento quasi l’eco dei concerti di anni lontani. E mi sento a casa quando cammino per le vie di Londra, quelle vie che forse qualcuno trova troppo affollate, troppo caotiche, mi sento a casa quando mi mescolo agli artisti di Soho o Camden Town, dove a nessuno importa da dove arrivo e dove andrò, ma importa soltanto condividere del buon tempo insieme.
Ho lasciato Rachel dopo un intenso pomeriggio in compagnia dei ragazzi. In fin dei conti, agli occhi degli altri, forse non facciamo niente di tanto speciale. Occupiamo i parchi per suonare quando c’è il bel tempo, ci muoviamo per la città come dei pellegrini senza una meta, ci sediamo dove capita e spesso parliamo, parliamo di tante cose diverse, di noi, del mondo, dei libri, dei film, dell’arte. Ma vedo negli occhi di questa gente quella scintilla rara di chi vuole trovare qualcosa per cui valga la pena stare a questo mondo.
Il cielo londinese, velato da una nebbia sottile e abituale, si rabbuia gradualmente, lasciandomi così percorrere la distanza che separa Hyde Park dal locale dove ho l’incarico di lavorerò questa sera in una lieve penombra, rischiarata dalle vivaci luci cittadine.
" I am the passenger and I ride and I ride, I ride through the city’s backsides, I see the stars come out of the sky -Io son il passeggero, e viaggio, e viaggio, viaggio per i bassifondi della città, vedo le stelle spuntare in cielo. "
Quando le canzoni ti restano incollate in testa non c’è proprio niente da fare, e questa la canticchio quasi tutte le volte che vengo qui, a Londra. Anche se quando la canto non sono sempre nei bassifondi, mi sento un passeggero, un passeggero che non sa bene dove lo porta il suo treno, ma nel frattempo si gode il viaggio, le stelle.
 
"He sees the things that he knows are his, he sees the bright and hollow sky. He sees the city sleep at night, he sees the stars are out tonight. -  Il passeggero, vede le cose che sa esser sue, vede il cielo luminoso e vuoto, vede la città che dorme di notte, vede le stelle spuntare stanotte. "
E non c’è niente che Eric Weymouth ami più del vento. A volte penso ancora a me stesso in terza persona, proprio come questo passeggero, è un mio vecchio vizio.
Il vento sulle colline di Hyde Park, qualche volta, ti investe completamente, come un fiume in piena, e quando accade, la maggior parte della gente fugge via, cercando di evitarlo. A me piace allargare le braccia e farmi investire completamente da esso, fino quasi ad essere sospinto giù, per il prato, lontano.
Stasera ho beccato una corrente di vento fredda e forte, quasi più di quelle abituali. E mentre mi godo questo colpo di fortuna, mi dico che forse il treno non so dove va, ma intanto l’ho preso, sono partito.
Agosto e Settembre Duemiladodici. Eric James Weymouth ha raggiunto l’obbiettivo di vivere. Non tutte le aquile vivono bene sulla montagna dove cui sono cresciute, alcune devono spiccare il volo e trovare la loro.
 
 
 
 
 
 
 
  
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