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Autore: Stella cadente    05/02/2014    2 recensioni
Dal primo capitolo:
"E' strano da dire, ma anche se non ti conosco, ti voglio bene Liam; mi sento legata a te, inspiegabilmente, e ti sento vicino, vicino come una persona che conosco da una vita. Scrivere questa lettera mi ha aiutata, mi ha aiutata a sfogarmi.
La tua più grande fan,
Daveigh"
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Una ragazza, un ragazzo, una delusione, delle lettere.
Ma se tutto ciò avesse una svolta improvvisa?
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Liam Payne, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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 Capitolo ottavo
La prigionia del nulla






Liam.
Quella era davvero la voce di Liam.
Di quel Liam che aveva sempre voluto abbracciare.
Quel Liam a cui aveva sempre voluto raccontare tutte le sue paure e le sue insicurezze.
Daveigh si lasciò cadere sul divano, come fosse un peso morto. La faccia inespressiva, il cuore a mille, le mani tremanti.
– Liam..
Sussurrò quel nome, come se in qualche modo avesse potuto evocare il suo proprietario.
Ho bisogno di te, Liam.
E in quel momento un leggero sorriso ad incresparle le labbra, un accenno di beatitudine a quella che vedeva una vita priva di ogni colore, di qualcosa che avrebbe potuto renderla gioiosa e felice.
Daveigh non era infelice però. Aveva delle persone su cui contare, come Emma, ma non era neanche felice.
Tutto ciò era insensato, e lei lo sapeva. Ma sentiva che le ci voleva qualcosa, qualcosa che le desse di nuovo la luce negli occhi.
E che forse quel qualcosa poteva essere Liam.
Liam, pensò, ora sorridendo dolcemente.
Liam.
 
 
 
 
 
 
Il suono squillante del campanello la distrasse da alcune espressioni algebriche, che aveva cominciato a fare per cercare di distrarsi.
Sbatté un paio di volte gli occhi luminosi, poi si alzò di scatto.
Il campanello.
Non si chiese neanche chi si fosse potuto celare dietro alla porta, come avrebbe fatto normalmente. Era tardo pomeriggio, e probabilmente i suoi genitori erano ancora al lavoro.
Non si chiese chi poteva essere a quell’ora.
E si precipitò ad aprire la porta istintivamente. Senza pensare.
Un tonfo nel petto, quando vide quel viso.
– Che cosa vuoi? – una voce piatta, atona, uscì dalle sue labbra carnose e rosee.
La rabbia in corpo, un fiotto di lacrime che minacciava di uscire come una cascata.
Non posso crederci.
Qualcuno mi dica che non è vero.
Quei capelli.
Quegli occhi azzurri.
Quel viso spigoloso.
Daniel.
Stava lì a fissarla senza dire nulla, scompigliandosi i capelli biondi con un gesto imbarazzato.
Aveva un sorriso appena accennato che giocava furbo sul suo volto dispettoso.
– Ciao anche a te, Dav.
La ragazza rimase come fossilizzata, mentre le sue labbra si serravano in un’espressione furiosa e sofferente.
– Non chiamarmi così – sibilò tra i denti.
– Senti.. – il ragazzo fece un passo avanti, entrando in casa sua – non possiamo semplicemente dimenticare tutto e ricominciare?
Daveigh rise.
Una risata breve, sarcastica, senza alcuna sfumatura di gioia.
Era una risata sporca, finta.
Senz’altro adatta alla situazione, pensò.
– Cosa? – chiese. Stava cominciando ad arrabbiarsi. Quel ragazzo l’aveva giudicata senza prima conoscerla, aveva dimostrato ben poco interesse a starle davvero vicino e oltretutto le chiedeva di dimenticare.
E forse lei era troppo sensibile, sì, ma ciò l’aveva fatta chiudere per sempre.
Forse era stato meglio così.
Aveva capito che una come lei, con uno come Daniel, non avrebbe mai potuto aver speranza di stare bene.
Daniel era freddo, tagliente, e anche se non volontariamente, le aveva fatto del male.
Adesso basta.
– Ricominciare? Perché, c’è mai stato qualcosa tra di noi? – replicò, acida.
Lui cambiò espressione.
Divenne serio.
Troppo serio.
I suoi occhi, di quel celeste freddo e raggelante, sembravano volerla incenerire.
Daveigh avvertì un brivido salirle lungo la schiena. La paura cominciò a serpeggiarle nello stomaco; quello sguardo la inquietava a tal punto da farla sentire come bloccata, piantata nel pavimento da qualcosa di oscuro e misterioso.
– Daveigh..
Quella voce era bassa, cupa.
La ragazza si morse il labbro violentemente fino a sentire il sapore acre del sangue.
Ti prego, va’ via.
Lasciami in pace.
Daniel si avvicinò fino ad essere a pochi centimetri dal suo viso e le sfiorò una guancia lentamente, con un tocco che, se fosse stato effettuato da qualcun altro, avrebbe di certo apprezzato.
Ma era lui a farlo.
E si sentiva sempre più impaurita, congelata.
– Non fare così..non lo fare, capito? – le sussurrò sinistro.
Ed era affascinante, con quegli occhi così espressivi e i lineamenti definiti, spigolosi ma attraenti.
Ma era Daniel.
“Quando non sai cosa fare..”
Daveigh si ostinava a far saettare i suoi occhi da un lato all’altro della stanza, rifiutandosi di guardarlo negli occhi.
– Guardami – disse lui, deciso.
Lei fissò quei due blocchi di ghiaccio duro, gelido.
– Non voglio ricominciare – fece – basta.
Il suo tono di voce non era altrettanto forte, deciso.
Ma almeno glielo aveva detto.
– Mi hai presa in giro. E non voglio avere più nulla a che fare con te.
Stava esagerando, come al solito. Ma la sua rabbia l’accecava, e mai più avrebbe potuto provare qualcosa.
Almeno non per lui.
Il ragazzo la guardò come se non avesse capito, rimanendo in silenzio.
– Vattene ora – insistette.
Daniel rise.
Ancora quella risata sporca, imbrattata di amarezza e sarcasmo.
– No, nemmeno per sogno. Non ho intenzione di prendere ordini da te.
– Perché sei tornato qui? – quasi urlò, Daveigh. E non sapeva come si facesse ad urlare, con quella vocina sottile e appena percettibile, ma dal suo tono si percepiva tutta la sua rabbia, tutto il suo rancore.
Rabbia. Rabbia che impregna gli occhi, che fa sanguinare il cuore, che imprigiona il cervello, che fa sputare cattiverie alla bocca.
Rabbia.
Rabbia.
Rabbia.
– Perché non mi arrenderò finché non starai con me! Ok?
– Io non voglio stare con te! Non lo farò! – questa protesta caparbia le dette coraggio.
Ma non capì quello che successe dopo.
In un attimo Daniel l’aveva strattonata e lei era schiacciata contro il muro, con la schiena che le faceva male e il respiro accelerato.
– Oh sì che lo farai – mormorò lui – non me ne frega niente se ti tagli le vene, non sono affari miei e non so cosa dirti se hai un hobby così malsano, ma voglio stare con te.
“Non so cosa dirti se hai un hobby così malsano”.
Un urlo carico di altra, intensa rabbia prese forma nella gola di Daveigh.
Strinse i denti, cercando di trattenersi e serrando le mani chiuse a pugno fino a farsi sbiancare le nocche.
Voleva urlare, voleva urlare fino a strapparsi le corde vocali.
Voleva davvero farlo, ma la sua bocca era come sigillata, immersa in un mutismo frustrante.
Quella frase.
L’aveva come ustionata, bruciata, pugnalata. Ogni singola sillaba era stata una tortura.
L’aveva lasciata momentaneamente priva di forze.
– Un hobby malsano? Un hobby malsano?! – ripeté, come se quelle tre parole fossero state un marchio nella sua testa.
Lui le sollevò la manica sinistra della felpa e osservò le cicatrici e i tagli ancora freschi.
Sembrava contemplarli, guardarli con un sadico interesse che lei trovò fin troppo macabro.
La ragazza si dimenò, tentò di ributtare giù la manica. Ma era inutile.
Era in trappola.
Una trappola umana.
– Guarda qua – disse – quale sano di mente farebbe una cosa del genere?
Immobile, ancora schiacciata al muro, incastrata tra la parete e il possente corpo di Daniel. Il freddo a fenderle il braccio, il dolore dipinto sulla pelle diafana che respirava la sua aria.
Impotente in quella situazione.
Debole.
Insignificante.
Poi, improvvisamente, sentì il sangue ribollirle violentemente sotto la pelle.
– Vai via! Vai via! – iniziò a gridare, furiosa. La sua voce era ora rabbiosa, potente, come un tuono che squarcia il cielo- se sono così poco sana di mente che ci fai ancora qui? Io non potrei mai stare con uno come te. Non vedi quanto sto male, per colpa tua? Tu mi hai ridotta così! Esci dalla mia vita, hai capito?
Restò così in sospeso, mentre le mani, le braccia, le gambe, l’intero corpo le tremava.
Lei era forte, anche se non lo sapeva.
Ma era piccola, fragile, come una leggera e invisibile piuma che viene trasportata dal vento.
Senza far rumore.
E qualcuno, purtroppo, avrebbe potuto tranquillamente approfittarne.
 
 
 
 
 
 
 
Il respiro ansante.
Quel tremito incontrollato.
Il cuore che pompava paura e collera nel petto.
– Ripetilo.
Quella voce.
Era come una lama.
– Io.. – tremava – non voglio..stare con te. Devi.. andare via..D..Daniel.
Balbettava, come una bambina, ascoltando il silenzio pesante e intriso di tensione fredda, buia.
Sbatté gli occhi una volta.
Due.
Lo stava facendo in maniera convulsa, ripetutamente, come fosse un modo per ritirarsi da quell’orrenda situazione.
C’era troppo silenzio per i suoi gusti. Sembrava che tutto si fosse fermato all’improvviso.
E adesso?
Un secondo, un movimento. Veloce, repentino, invisibile.
Si schiacciò di più al muro, paralizzata da quel dolore così intenso alla guancia.
Sembrava che stesse per andare a fuoco.
Daniel la guardava impassibile, gli occhi privi di un qualsiasi bagliore, che fosse di odio o no.
Era inespressivo.
Quello sguardo era fatto come di vetro, fisso e immutabile.
Un altro dolore, stavolta acuto e penetrante.
Fitte lancinanti le percorrevano tutto il corpo, le ginocchia erano cedute.
Non capiva ciò che stava accadendo.
Daveigh non capiva ormai più niente.
Lasciava che tutto fosse fuori dal suo controllo, mentre la vista le si era come appannata.
– Sei come tutte le altre – sibilò ancora quella voce gelata – sei solo una ragazzina che vuole essere al centro dell’attenzione. Perché ti tagli, eh?
Non rispose. Si era abbandonata. Era costretta a terra, sul pavimento.
– Come pensavo – disse ancora.
La baciò sulla guancia.
Un bacio freddo, senza colore, senza amore.
La porta che sbatte, il vento che cessa, il buio che invade tutto.
Daveigh non sentì più nient’altro se non le sue lacrime.
 
 
 
****
 
 
 
Quando riuscì ad alzarsi sentì le gambe molli reggere a malapena il peso del suo corpo.
Non riusciva ancora a rendersi conto di quanto le era appena successo.
Non riusciva a realizzare davvero che tutta quella sua debolezza fisica fosse dovuta a qualcun altro.
Ma più di tutto, ciò che le toglieva davvero il respiro, più delle fitte ai fianchi e al bruciore sulla guancia sinistra, era il dolore psicologico.
La consapevolezza di essere stata insultata, offesa, schernita era ancora peggio delle percosse che aveva preso.
Probabilmente, constatò, una stilettata al cuore avrebbe fatto meno male.
Si sentiva confusa da quelle parole. La disorientavano, le facevano girare la testa, come se fosse sotto l’effetto di qualche strano farmaco.
Sembrava che il suo cuore fosse affondato in una sorta di buco nero e profondo, che la sua mente non riconoscesse più nulla, che quelle frasi cattive e pesanti come piombo offuscassero tutto quanto.
Lei si stava dissolvendo, sgretolando, stava cadendo pian piano.
Mosse qualche passo incerto e si trascinò malamente fino al bagno; poi accese la luce e socchiuse la porta con un gesto leggero, senza tempo.
Doveva sedersi.
Doveva sedersi un attimo, respirare, cercare di sopravvivere.
Abbandonata contro le pareti di piastrelle rosa pallido, osservava il vuoto.
Si alzò lentamente, posizionandosi davanti allo specchio.
Aveva un aspetto orribile.
La guancia, ancora rovente, portava il segno rosso di una grande mano, come se la sua pelle candida e pura fosse stata marchiata per sempre.
Un altro segno circolare le ammanettava il polso sinistro, la manica della maglia portata ancora su fino all’avambraccio, a scoprire le cicatrici.
Sollevò la maglietta all’altezza dell’addome.
Dei lividi violacei le macchiavano i fianchi e la pancia scarna.
Fece leggermente pressione con un dito.
E gemette dal dolore.
Daveigh lasciò cadere la maglia e fece una smorfia.
Poi si guardò in viso. Si guardò veramente, con attenzione, in quello specchio che aveva sempre odiato tanto.
Forse era quella la cosa peggiore. Quella più sconcertante.
Il volto della ragazza era esanime, freddo, pallido. Ma non di quel suo innocente candore naturale, no.
Era di un bianco trasparente, spento, lo stesso pallore di una persona morta, con il corpo ormai privo di ogni bagliore di vita. Gli occhi lucidi, socchiusi in un’espressione sofferente, ai quali ogni minuscola goccia di felicità era stata brutalmente tolta, strappata via.
Occhi che raccontavano tanto, ma che non dicevano niente.
Occhi che erano l’esatto specchio di un inevitabile crollo interiore, occhi che erano pieni di una nebbia fitta che non accennava a diradarsi.
Daveigh non poteva sopportare di vedere se stessa ridotta così.
Forse non poteva sopportare di vedere se stessa in generale.
Un’idea malsana le attraversò la mente.
Malsana.
Non sana di mente.
Non sono sana di mente.
Non lo sono, ha ragione Daniel.
Ma non mi importa.
Al diavolo!
Fu un attimo. Un attimo come di trance, un attimo in cui le sembrava di fluttuare, di muoversi e di agire in un altro mondo.
Un attimo in cui le sue mani si allungarono lentamente verso le forbici da unghie, posizionate nel solito angolo sul bordo del lavandino.
Con la schiena poggiata contro la vasca da bagno, seduta sul pavimento, se le rigirò ripetutamente sotto gli occhi.
Non era giusto, lo sapeva. Ma era arrabbiata, molto arrabbiata. Così arrabbiata che avrebbe spaccato tutto.
Ed invece era lì, in silenzio, mentre due fredde lame di metallo solcavano la sua pelle in un gesto repentino, veloce e deciso. Un gesto furioso, carico di collera.
Daveigh non guardò cosa si stava facendo; preferiva cercare di distrarsi, pensare ad altro.
Provava a voler cambiare le cose, a voler cambiare se stessa; lo voleva davvero, ma non ci riusciva mai, perché era debole.
Non era forte.
Era debole.
Non sarebbe mai stata forte, non sarebbe mai riuscita ad esserlo. Le persone forti non cadevano in trappole assurde come l’autolesionismo.
Lacrime roventi rotolarono in una danza di dolore sul suo viso distrutto.
Debole.
Sono soltanto debole.
Il respiro le si fece accelerato, irregolare. Stanca, posò le forbici a terra e reclinò la testa all’indietro.
Non sentiva niente.
Tutto quello che vedeva era il bianco del soffitto.
Aveva un che di affascinante come un colore uniforme come il bianco riuscisse a sgombrarle la mente.
Si concentrò al massimo per notare anche il più piccolo difetto che poteva macchiare quel candore finto, innaturale. Una crepa, una macchia, un pezzo di intonaco scrostato.
E quasi aveva dimenticato tutto, quando avvertì qualcosa di denso e caldo scorrerle lungo il braccio.
Daveigh abbassò lo sguardo.
E quello che vide la fece inorridire.
Sul suo braccio esile, un taglio profondo sembrava aver diviso in due il polso. Sembrava un ghigno assassino che sorrideva di un sorriso sadico, come a rinfacciarle i suoi problemi.
Rivoli color cremisi correvano lungo il braccio, intersecandosi in una rete calda e odiosa ai suoi occhi impressionabili.
Non è possibile.
Che cosa ho fatto?
Daveigh era come paralizzata a quella vista, completamente inerme, come se vedesse quella ferita sconcertante sul corpo di qualcun altro.
A volte sono pochi istanti a fare la differenza.
A volte basta un secondo a far scaturire sensazioni orribili, che spesso non riusciamo a gestire.
A volte le situazioni ci sfuggono di mano con una facilità che ha dell’incredibile, e quando ce ne rendiamo conto è spesso troppo tardi.
E la ragazza acquistò questa consapevolezza esattamente nell’arco temporale di un istante.
L’ istante in cui il fuoco venne appiccato su di lei.
Sul suo braccio.
C’era una fiamma su quel braccio, qualcuno le stava dando fuoco. Era come una scarica elettrica, che le oscurava tutti i sensi.
Quel dolore.
Era talmente forte da farla tremare, mentre serrava la mascella nel tentativo di reprimere un urlo.
Altro sangue le scorreva addosso, lento, inesorabile, per poi andare a formare piccole chiazze di un rosso vivo sulle piastrelle. E lei, immobile, sul pavimento gelido.
In preda alla disperazione Daveigh si era ferita diverse volte, ma non era mai andata così a fondo.
Così a fondo.
Il pensiero che avrebbe potuto uccidersi la sfiorò appena, ma quanto bastava per farle salire violentemente un brivido di terrore lungo la schiena.
In preda alla disperazione Daveigh aveva fatto tante cose, ma non si era mai sentita così persa e sola come in quel momento.
Persa.
E sola.
Debole.
Prigioniera di se stessa.
Prigioniera di se stessa e del nulla che stava diventando.
Silenziosamente, era prigioniera.
Silenziosamente.
Senza far rumore.
 

Dopo aver finito di pubblicare la mia prima FF, posso dire che questa storia è tornata in corso.
Yo.
Sono contenta.
E allora eccoci qui, al capitolo otto.
Leggendolo, probabilmente avrete capito perché ho messo il rating arancione: ho voluto rendere tutto decisamente angst, specialmente in questo capitolo.
Daveigh è un personaggio fragile, molto fragile, e spero che vi siate affezionati a lei come ho fatto io.
Vorrei solo che questa non risultasse la solita storia banale sul dolore e l'autolesionismo, ecco.
Ho già finito "Dear Liam" da un po' in realtà, e ho seguito e sostenuto Daveigh fra le righe.
Spero che anche voi vi sentiate..coinvolti, ecco, nel leggere questa FanFiction.
E adesso non mi resta che attendere i vostri sommi giudizi ;)
Un bacione abnorme,

Stella cadente
 
  
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