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Autore: lucabovo78    12/02/2014    2 recensioni
« La magia è dentro di noi, fa parte della nostra natura. Dobbiamo solo trovare il modo giusto per usarla. »
Se la magia fosse una cosa naturale come respirare, tutti sarebbero in grado di usarla. Invece, questo "privilegio" è affidato a pochi individui, dotati di grande potere e chiamati Stregoni.
Questa è la storia di un giovane stregone e del prezzo che dovrà pagare per questo potere.
« Non è bene sottovalutare le trame del destino, potrebbe rivoltarsi contro di noi. »
Copyright © 2013 Luca Bovo, tutti i diritti riservati
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 10. Confidenze

 

La cena scivolò via in silenzio. Lind stava rimuginando sui racconti di Corgh. Non aveva dubbi sul fatto che, prima di tutto, sarebbe andato a fare due chiacchiere con questo Nicodhem, ma non aveva idea di dove trovarlo. Non sapeva dove fosse questa Caputargilis, non ne aveva neanche mai sentito parlare, ma da qualche parte avrebbe trovato una mappa o qualcuno che lo sapeva. La cosa era alquanto rischiosa, probabilmente non era una buona idea andare a fare domande in un covo di banditi, ma non avendo altre piste da seguire era l’unica che gli venisse in mente. Sarebbe partito la mattina seguente, aveva però bisogno di recuperare le sue cose. Si domandò, solo in quel momento, se fossero ancora nella stanza della taverna che divideva con il Maestro.

   «Il vostro bagaglio è ancora nella camera, puoi andarlo a recuperare quando vuoi. » 

    Corgh sembrava avergli letto nel pensiero.

«Benissimo, grazie. Mi stavo giusto chiedendo se fosse ancora tutto li. »

   Sephyr incominciò a raccogliere le stoviglie, anche lei era rimasta in silenzio per tutta la cena, immersa nei suoi pensieri. Non ricordava volentieri quegli episodi, nonostante fossero passati molti anni. Per questo motivo aveva cercato di non ascoltare, senza successo, il racconto di suo padre.

   «Finisco qui e ti accompagno alla taverna. Ho bisogno di fare due passi e prendere una boccata d’aria.»

   Detto questo, sparì in cucina. L’oste lanciò un’occhiata assassina al ragazzo, che vide nuovamente l’espressione dell’orco capobranco. Poi, senza togliergli occhi di dosso, si rivolse alla figlia ad alta voce:

   «Mi sembra perfettamente in grado di arrangiarsi, non serve che tu lo accompagni. Poi lo sai che non mi va che esci quando è buio.»

La ragazza tornò nella stanza sciogliendo i capelli che erano legati con un nastro.

   «Non rompere papà, ti ho detto che ho bisogno di fare due passi, ne approfitto per controllare a che punto sono quei due con i lavori. E poi, cosa vuoi che mi succeda? Sono accompagnata da un potente stregone, no? »

   Fece l’occhiolino, sorridendo, a Lind. Il ragazzo sentì crescere la furia omicida dell’oste.

   «Sopravvivere a un golem e perire per mano di tuo padre non sarebbe molto onorevole, per cui, per favore, non esagerare. Senza offesa, Corgh. »

   La ragazza rise, dopodiché si avvicinò al padre e lo baciò sulla fronte.

   «Stai tranquillo, torno subito. Tu riposati.»

Prese sottobraccio Lind e lo condusse alla porta. Dietro di loro il ruggito sembrava quello di un leone in gabbia che osserva una preda da dietro le sbarre. Appena usciti in strada, Sephyr lo lasciò e incrociò le braccia dietro la schiena. Con espressione complice, si girò verso di lui camminando all’indietro.

   «Scusa, avevo voglia di fargli un dispetto! »

   «Figurati, non c’è problema. Mi sarebbe solo dispiaciuto dover sguainare la spada per difendermi. »

   «Stupido…»

Si mise al suo fianco e si avviarono verso la taverna. La notte era mite, la primavera era cominciata da poco, ma la temperatura era già piacevole, nonostante l’altitudine. La strada era deserta e le finestre delle case buie, evidentemente era molto tardi. Camminavano senza parlare. A un certo punto, come succede spesso dopo un silenzio prolungato, aprirono bocca entrambi nello stesso istante.

   «Sei brava con…» «Da quanto tempo…»

Sorrisero.

   «Prima tu. Precedenza alle signore.»

Disse Lind con tono forzatamente impostato.

   «La ringrazio, mio signore!»

Sephyr fece il gesto di piegarsi sulle ginocchia, tenendo con le mani un’immaginaria gonna larga, facendo il verso delle dame.

   «Da quanto tempo ti alleni per essere uno stregone?»

   «Quindici anni. Ne avevo sette quando Shayra, la moglie del Maestro, mi insegnò come eseguire un incantesimo. Da allora mi sono allenato ogni giorno. »

   «Deve essere stato faticoso.»

   «Abbastanza, ma almeno così mi sono tenuto occupato. Non avendo amici con cui passare il tempo, mi sarei annoiato a morte se non avessi avuto niente da fare.»

   «Davvero non hai amici? »

«Nel mio villaggio non sono mai stato ben visto, per cui…»

   «Perché sei uno stregone?»

«No, sono abituati ad averne intorno, il Maestro è sempre vissuto li, e lui è rispettato da tutti. Un po’ è per la mia strana caratteristica di essere quasi immune al fuoco e un po’ per il mio caratteraccio.»

   «Non mi sembra che tu abbia un carattere così terribile.»

Lind si fermò un secondo a testa bassa per riflettere. Effettivamente con lei e con suo padre si comportava in modo diverso rispetto al normale. Con Corgh, probabilmente, era perché lo terrorizzava e lo attirava allo stesso tempo. Vedeva in lui uno di quei personaggi burberi e paurosi delle fiabe che, alla fine, si scoprono essere buoni come il pane e dalla parte del protagonista. Con Sephyr, invece, era chiaro che ne era attratto, ma c’era qualcos’altro. Standole accanto provava sensazioni simili a quelle che aveva con Shayra. Lo faceva sentire bene, rilassato, senza quell’inquietudine perenne che saliva dalla pancia quando era in mezzo alle altre persone.

   «Che cosa c’è? Tutto bene?»

Lo stava guardando con espressione interrogativa.

   «Direi di si…»

Ripresero a camminare.

   «Ora tocca a te, cosa mi stavi dicendo?»

   «Giusto. Ti stavo facendo i complimenti per come usi l’arco, anche tu devi esserti allenata molto, vero?»

   «Dal giorno in cui quei banditi ci attaccarono. Ho giurato a me stessa che non avrei mai più avuto così paura. Ero terrorizzata e mi sentivo inerme, di fronte a quel coltello.»

   «Eri solo una bambina, cosa avresti potuto fare?»

   «Lo so, ma da allora ho deciso che sarei riuscita a difendermi da sola. Mio padre non avrebbe più dovuto rischiare la vita per me.»

   «I genitori esistono per questo, no? Per difendere i propri figli. »

Disse questa frase con una punta di tristezza, involontaria, nella voce. La ragazza se ne accorse.

   «Non hai mai conosciuto i tuoi?»

   «No. Non so neanche se siano vivi o morti. Fino a due anni ho vissuto in orfanotrofio, ma non ho ricordi di quel periodo, né dell’incendio che lo distrusse e di cui fui l’unico sopravvissuto. »

   «Mi dispiace. »

«Non c’è motivo, il Maestro e sua moglie sono stati degli ottimi genitori adottivi. Devo dire che non mi hanno mai fatto sentire la mancanza di un vero padre o di una vera madre. Soprattutto Shayra.»

   «Devi voler loro molto bene. Adesso capisco perché sei così in ansia per lui. »

   «Già. »

Era davvero così preoccupato? L’idea di abbandonare il villaggio, e soprattutto chi ci abitava, per andare in cerca del Maestro non gli metteva molta fretta. Anzi. Sarebbe potuto partire la sera stessa, ma non voleva. Se fosse stato il suo vero padre, sarebbe stato diverso? Scacciò per un momento quei pensieri.

   «Anche tuo padre non se la cava male in combattimento. Mi sembra di aver sentito dire che era un militare da giovane, giusto?»

   «Probabilmente l’hai sentito con il resto del discorso, vero?»

Il ragazzo si sentì in imbarazzo, era evidente che quelle voci poco lusinghiere le davano fastidio. La capiva, come darle torto?

   «Scusa, immagino che non tu sia molto contenta di quello che si dice. »

   La ragazza incrociò le braccia sul petto e assunse una deliziosa aria imbronciata.

   «Sono solo voci di gente ignorante e invidiosa. Mia madre amava mio padre, però è vero che stava fuggendo dal suo popolo. Essendo figlia di una sacerdotessa della luce avrebbe dovuto sposare uno dei nobili della città, ma non ne aveva nessuna intenzione. Mio padre era una guardia di Southill, che si trova ai confini della Foresta Nera. S’incontrarono una notte in cui pioveva molto forte, mia madre era scappata di casa e non sapeva dove andare, lui le offrì riparo nella sua guardiola. Io fui concepita quella notte stessa, si sposarono poco dopo. In seguito, a causa di questo matrimonio, ci furono dei problemi con i membri della famiglia di mia madre e con gli elfi in generale, per cui preferirono trasferirsi qui, lontano da tutti. Da quanto ne so erano molto felici. Mia madre se ne andò quando ero molto piccola, io ne ho un ricordo molto vago. Per fortuna conosco il suo aspetto grazie a quel quadro. Mio padre mi disse che, se avesse potuto, non se ne sarebbe mai andata, ma purtroppo non dipendeva da lei. Io gli credo. »

   Erano ormai arrivati alla locanda. Le porte erano chiuse, ma dalle finestre filtrava la luce traballante di una lanterna.

   «Quei due pasticcioni devono essersi addormentati con la luce accesa. »

   Aprì la porta. L’interno della taverna era immerso nella penombra, appoggiata su di un tavolo, accanto a una delle finestre, c’era la lanterna che emanava una debole luce. Il pavimento era ricoperto dalla polvere, probabilmente dovuta ai lavori di restauro. Il resto dei tavoli erano accatastati a ridosso di una parete, insieme alle sedie e alle panche. In mezzo alla sala c’erano dei bidoni, probabilmente di vernice o malta, sui quali erano appoggiate delle bottiglie vuote. Accanto ai bidoni due fagotti, dai quali proveniva un russare sordo. Non c’erano segni di danni nel resto della stanza, probabilmente avevano finito il lavoro prima di addormentarsi, ubriachi, a giudicare dalle bottiglie e dal forte odore di alcool che aleggiava nell’aria. La ragazza si rivolse a Lind sussurrando:

   «Prendi la lanterna e sali di sopra, io ti aspetto qui. Fai piano, è meglio non disturbarli, non sono molto simpatici quando vengono svegliati.»

Il ragazzo prese il lume e si avviò verso le scale che salivano alle camere. Passando affianco ai due fagotti sbirciò per cogliere l’aspetto delle misteriose figure. La luce della candela era debole, ma riuscì a distinguere le lunghe orecchie a punta e i nasi pronunciati.

   “Folletti! Ci credo che il sindaco era contrario a farli lavorare, se esiste una razza assolutamente poco affidabile su qualsiasi cosa è esattamente quella dei folleti dei boschi. Chissà perché Corgh ha deciso di utilizzarli. Certo, sono economici, a loro il denaro non interessa, basta fornire acquavite e cibo e fanno qualsiasi cosa. Il problema è come la fanno. Mah.”

   Facendo più in silenzio possibile, attraversò la sala e salì le scale al piano di sopra. Le stanze della locanda erano solo quattro, lui e il maestro occupavano quella in fondo al corridoio, che dava sul retro. La porta della camera era chiusa, sperava che in realtà fosse solo accostata, perché non aveva idea della fine che avesse fatto la sua chiave e aveva ancora meno voglia di tornare di sotto per chiederla a Sephyr. Fortunatamente era aperta. Entrò e si accorse subito che c’era qualcosa di strano. Sul suo letto c’era lo zaino, chiuso, come si ricordava di averlo lasciato. Ricordava, però, che quello del Maestro era appoggiato alla parete della stanza, accanto alla porta, quando erano usciti. Ora era sparito. Si guardò intorno per vedere se si ricordava male, ma niente. Qualcuno lo aveva portato via, ma chi? Poi si accorse che la finestra era aperta e il vetro rotto. Quel qualcuno era passato da lì. Guardò fuori. Erano solo pochi metri dal suolo, e un albero era proprio li davanti, un gioco da ragazzi per chiunque introdursi nella camera. Inoltre la locanda confinava con la foresta. Altrettanto gioco da ragazzi sparire nella macchia. Ma perché portare via solo uno degli zaini? A che scopo? A meno che non fosse stato il legittimo proprietario a farlo.

  
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