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Autore: Alena18    22/03/2014    80 recensioni
Non si trattava più di vivere, era arrivato il momento di sopravvivere.
Quel mondo non aveva nome e a quel destino non c'era fine.
Il cerchio si stava chiudendo ed io ne facevo inevitabilmente parte, ero come il sole che illumina i pianeti, che permette la vita, ero indispensabile.
Ma che vita era quella? Avrei voluto scappare, tornare indietro nel tempo.
Per me le lancette dell'orologio si erano fermate, lasciandomi bloccata lì, in trappola.
DALLA STORIA:
-Non dovevo fidarmi di te- gli dissi in tono deluso, ma freddo.
-Io non mento- pronunciò fermo cercando di sostenere il mio sguardo.
-Allora mostrami chi sei veramente-

NIENTE È COME SEMBRA!
© Tutti i diritti riservati.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Risveglio '
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                                                                      “Adesso, ovunque fosse, con chiunque si trovasse, lei era costantemente in pericolo.”
 
                                                                        
-Oh, cavolo- sbottò Charlotte bloccandosi improvvisamente nell’atrio della scuola –Ma sta diluviando!- batté stizzita un piede per terra indicando con occhi fuori dalle orbite il paesaggio completamente bagnato oltre le porte spalancate dell’istituto.
-E dov’è la novità?- chiesi retorica dirigendomi in cortile, sorridevo anche se sapevo che Lottie non poteva vedermi –Questa è Londra, ricordi?- alzai il viso al cielo chiudendo gli occhi e godendomi la fresca, ovviamente umida, sensazione della pioggia sulla pelle accaldata.
-Come dimenticarlo con te che non fai altro che ripeterlo- roteò gli occhi al cielo e mi si avvicinò coprendo la testa con un quaderno la cui copertina aveva sicuramente visto tempi migliori.
Era vero, io non facevo altro che ribadire il fatto che vivessi a Londra, ma era la mia città ed io l’amavo: amavo le sue luci calde e le caratteristiche cabine telefoniche di un rosso così acceso da ricordarmi quello di un semaforo, i palazzi altissimi che mi davano la sensazione di essere ancora più bassa, la gente che non si fermava mai, amavo il caos perché era in esso che io potevo nascondermi e passare inosservata. –Ecco mio padre finalmente- sospirò di sollievo tentando di coprire quanto più poteva la sua massa di capelli ricci –Vuoi un passaggio?- si affrettò a chiedere mentre camminava a ritroso verso la grande auto scura.
Scossi la testa e i capelli bagnati mi si appiccicarono sul viso facendomi solleticare la pelle –No, grazie. Farò una corsa a casa-.
-D’accordo- la sua mano sbucò da dentro la grossa giubba blu salutandomi velocemente –Fatti sentire, secchiona!- mi urlò prima di scomparire all’interno dell’abitacolo. Sorrisi contenta di avere unicamente lei come amica, nessuno poteva capirmi e allo stesso tempo prendermi in giro al di fuori di Lottie, forse per una sedicenne era strano avere una sola amica, ma non sentivo il bisogno di essere costantemente circondata da persone, soprattutto se quelle persone erano i miei coetanei presi unicamente dal sesso e dal divertimento. Io volevo una vita autonoma e felice, una carriera come insegnante e magari una famiglia. Volevo adottare un bambino di colore e vivere in un’umile casa di città, sarebbe stata la vita ideale e avrei lavorato sodo per averla. Studiare era l’unica cosa in cui eccellevo, oltre all’essere invisibile: entrambe le cose non mi dispiacevano.
Adesso, mentre correvo per strada rischiando di scivolare e cadere col sedere per terra, pensavo che non avrei voluto essere in nessun altro posto, Londra era così giusta per me, forse una delle poche cose esatte della mia vita.
Un improvviso strombazzare di clacson mi fece sobbalzare e per poco non persi l’equilibrio. Quando mi voltai fui abbagliata da due grossi fari puntati su di me, la velocità con cui quell’auto si avvicinava mi tolse il fiato, i piedi erano come incollati all’asfalto mentre il mio cuore batteva all’impazzata. Un secondo dopo ero stesa sul marciapiede e una figura massiccia al mio fianco si alzò facendomi sentire uno scricciolo. Le sue grandi mani pulirono il soprabito nero sporco di acqua piovana ed i suoi occhi evitavano i miei. Ripresi a respirare poggiandomi una mano sul petto: i battiti rimbombarono perfino nel mio palmo sudato.
-Mi… mi ha salvata- realizzai ancora sotto shock per la paura che avevo provato –Grazie- esordii infine con tono riconoscente. L’uomo si limitò a farmi un cenno del capo e, proprio un attimo prima che andasse via, riuscii ad incontrare il suo sguardo.
 
Pensavo ancora a quegli occhi azzurri mentre facevo le valige. Appena saputa la notizia mia madre aveva preteso che la raggiungessi a Dawson City dove si era fermata da circa un mese per badare a nonna Genna malata. Aveva sempre avuto fiducia in me e fu proprio per quel motivo che prendere la decisione di lasciarmi sola a casa per qualche settimana non le fu difficile, ovviamente non mancavano le telefonate giornaliere con le solite raccomandazioni. Mi comportavo bene, la mia coscienza era pulita in merito, ma quell’unica, piccola distrazione quel pomeriggio dell’ultimo giorno di scuola aveva scatenato tutto il senso materno di mia madre troppo ansiosa per rischiare di darmi un’altra possibilità. Così adesso mi ritrovavo a fare i bagagli per un posto sperduto ai confini del Canada, dove l’estate era praticamente inesistente, be’, non che a Londra splendesse il sole, ma almeno le temperature superavano i venti gradi. Seppur ci avessi vissuto per i primi anni della mia vita, di Dawson non ricordavo nulla, nessun ricordo felice, né triste, forse ciò era dovuto al fatto che era lì che mio padre ci aveva abbandonate. In effetti io avevo sempre associato quel piccolo paesino a mio padre e al suo tradimento, probabilmente era per questo che odiavo quel posto. Tornare lì dopo che mia madre aveva fatto tanto per andarsene e condurre una vita migliore in città mi sembrava ingiusto, era come distruggere il lavoro di quasi un’intera vita. A riscuotermi dai miei pensieri fu la suoneria del mio cellulare buttato sul letto ancora sfatto. Scossi la testa e chiusi la valigia, recuperai il telefono e, senza nemmeno leggere il nome della persona che mi stava cercando, risposi alla telefonata.
-Pronto?- dissi e quando il mio interlocutore parlò non mi sorpresi affatto.
-Maya, sono io- rispose Lottie con tono basso, quasi grave. Era la stessa Charlotte che se ne andava saltellando per la scuola quando scopriva di aver passato un test? Era la stessa che aveva festeggiato per interi giorni il suo primo bacio? Lei non aveva mai usato quel tono, mai in due anni che la conoscevo.
-Ci sono i ladri in casa tua?- chiesi stranita da quella sua strana voce chiusa, roca. Non ero preoccupata, qualcosa mi diceva che stava scherzando, ma chiedere non costava nulla.
-No, che ti salta in mente?!- squittì e riuscivo ad immaginarmela, la vedevo seduta sul letto, la fronte corrugata e l’espressione del volto stizzita. Sorrisi perché mi sembrava di avercela davanti.
-Mi salta in mente che tu, Charlotte Virginia Martin, non hai mai usato quel tono di voce così… spento- ribattei rotolando sul letto fino ad affondare la faccia nel cuscino.
-Ma si tratta della partenza della mia migliore amica, migliore amica, comprendi?- proseguì e risi nell’udire quella frase. Ricordai velocemente il messaggio di sfogo che le avevo mandato quella mattina all’alba, non pensavo lo avrebbe letto dopo solo un’ora.
-Non usare giochetti di parole con me e, ancor più importante, non tentare di imitare Jack Sparrow, sai che fai letteralmente schifo- la incalzai tornando a guardare il soffitto rivestito dalla colorata carta da parati dove, all’età di otto anni, ci avevo attaccato un chewingum.
-Non posso darti torto, ma… ehi! Non provare a cambiare discorso, signorina- quasi vedevo il suo dito ondeggiare davanti al mio viso, come una madre quando sgrida sua figlia.
-Chiedo umilmente perdono, mammina- dissi fintamente dispiaciuta.
-Ah-ah- rise senza divertimento –Ora, puoi per piacere dirmi perché parti per quella desolazione che chiamano città?-
-Ti ho raccontato già del mio incidente barra salvataggio di qualche giorno fa, ricordi?- chiesi retorica –Be’, quando ne ho parlato a mia madre la sua reazione oltre ad essere esagerata è stata sorprendente, quasi mi aspettavo che collassasse mentre eravamo a telefono- spiegai senza ingigantire la situazione, mia madre era davvero così fissata, alle volte non mi capacitavo di come avesse fatto a lasciarmi da sola in una città che per lei era per lo più pericolo e rischio di essere derubata.
-Addirittura?- A Charlotte tutte le reazioni di mia madre sembravano esagerate, forse perché la sua non era poi così presente, ma la mia… be’, la mia era quella che si definiva “mamma chioccia”.
-Proprio così ed è per questo che devo partire. Nonna Genna sta ancora male ed io ho paura che non si riprenderà mai. A quel punto non solo dovrò restare lì per chissà quanto tempo, ma quel posto mi porterà un altro brutto ricordo da aggiungere alla mia collezione!- sbottai passandomi una mano sul viso per tentare di contenere il mio disappunto.
-Ehi, secchiona, cosa dico sempre io?- domandò con voce sottile e calma, proprio come una sana di mente si sarebbe rivolta ad una potenziale psicopatica.
-Voglio un ragazzo?- chiesi non sapendo dove volesse andare a parare.
-No, quell’altra cosa che dico sempre-.
-Perché la scuola non crolla?- dissi ancor più stranita.
-Oh, santo cielo, quell’altra!- esclamò esasperata.
-Ho fame?- continuai più confusa che mai.
-Mio Dio- sibilò dall’altro capo del telefono –Pensa positivo, ecco quello che cercavo di farti capire-.
-Ma non hai mai detto una cosa del genere- commentai sconcertata, lei che diceva di pensare positivo? Tsé!
-Shh!- mi ammonì –Sicuramente ci sarà stata una circostanza in cui te l’ho detto- si stava arrampicando sui muri.
-Ehm… no- risposi secca.
-Senti, cara Maya, vuoi pensare positivo sì o no?- domandò con voce più alta di un’ottava, mi piaceva punzecchiarla.
-D’accordo, penserò positivo allora- mi arresi. Forse però l’idea di essere positiva non era poi così male, fino a quel momento non avevo fatto altro che ripensare ai brutti non-ricordi, al fatto che la mia vita da rovinata sarebbe passata a distrutta, ma perché non vedere un po’ il lato positivo? Be’, prima dovevo trovarlo.
-Perfetto. Ora devo andare, devo mettermi qualcosa nello stomaco, ho fame- quando pronunciò quelle parole scoppiai a ridere e lei, dopo una serie di imprecazioni, mi attaccò in faccia.
Terminata la chiamata sospirai, un sospiro vuoto e inutile se nessuno poteva sentirlo e chiedermi perché l’avessi fatto. Pensare positivo, pensare positivo, pensare… no, non ci riuscivo, in quel momento non dovevo neanche pensare, meglio leggere. Mi alzai dal letto con la delicatezza di un ippopotamo ed afferrai il libro sul comodino, sprofondando nuovamente tra le coperte. Aprii a pagina centosessanta e in un secondo la mia realtà scomparve, ed io mi ritrovai nel sedicesimo secolo descritto in Amleto da uno dei miei scrittori preferiti: William Shakespeare. E mentre leggevo il sonno che quella notte mi aveva abbandonata si fece sentire. Le mie palpebre divennero improvvisamente pesanti il triplo, gli occhi erano asciutti, la mente sgombra. Un secondo dopo mi ritrovai in una realtà di figure vorticanti e opache, non c’era nulla di definito, solo ombre che piano svanivano lasciando spazio a quello che sembrava un grosso cartello. C’era scritto qualcosa in grande e le lettere erano colorate in diverse tonalità di blu. L’immagine finalmente divenne più nitida e riuscii a leggere solo due uniche parole: DAWSON CITY.
Quella scena scomparve e d’un tratto vidi solo verde, una foresta in penombra, la pioggia battente, il vento che piegava i rami appuntiti, poi un rumore sgradevole mi fece tremare le viscere e… mi svegliai. Avevo il fiato corto e la fronte sudata anche se non ne capivo bene il motivo, quello non era un incubo, era soltanto Dawson City, una trappola per tutte quelle che si chiamavano Maya Gordon e, sfortunatamente, quello era proprio il mio nome.
Mi strofinai gli occhi riuscendo a mettere a fuoco la mia stanza: il libro era chiuso al mio fianco, le coperte erano finite in terra e l’orologio sul comodino segnava le nove e quindici, ovviamente del mattino. Merda!
Scattai in piedi e mi catapultai in bagno, feci una doccia veloce e mi limitai ad asciugare i lunghi capelli castani solamente in parte, scelsi velocemente qualcosa di leggero da indossare e recuperai un paio di scarpette da ginnastica. Quando passai di corsa davanti allo specchio mi immobilizzai. Tornai lentamente indietro sperando che l’immagine che avevo visto fosse solo una sorta di illusione ottica, ma quando mi specchiai la disperazione si impossessò di me. Mi ero praticamente vestita da spiaggia per andare in un paese dove bastava appendere qualche decorazione per poter pensare di essere a Natale, cavolo, cavolo! Mi spogliai infilando quegli abiti in un cassetto e procurandomi qualcosa di più pesante. Alle nove e quaranta ero pronta e il taxi avrebbe dovuto già essere lì, davanti casa mia, ma evidentemente anche il tassista si era appisolato sul volante. Qualche minuto dopo un’auto gialla sbucò da dietro l’angolo ed io mi sbracciai per farmi vedere, probabilmente stavo facendo una figura di cacca, la gente mi guardava come se fossi matta, ma poco importava. L’impresa stava nel far arrivare il mio bagaglio tutto intero fino all’aeroporto, quel tipo sapeva sicuramente cosa significava il termine “guida spericolata”, quando avevo detto che doveva partire a razzo non intendevo proprio a razzo, sembrava di volare e le curve erano la parte peggiore, pareva di essere su una di quelle giostre a forma di gigantesca tazza che girano e girano fino a farti vomitare. Era in momenti come quello che avrei tanto voluto non essere una sedicenne e avere la patente e un’auto tutta mia.
 
La corsa in auto era servita a qualcosa, ora almeno potevo rilassarmi sul mio comodo, per niente mobile, sediolino d’aereo. Mi aspettava un volo lungo ore e ore, così avevo ricordato di portare una borsa con tutto il necessario. Dentro c’erano panini al prosciutto, panini al tonno e, ovviamente, panini al salame, qualche snack e un sacchetto di noccioline, le mie preferite. Uh, e avevo anche qualche ricambio e il mio cellulare con le mie fidate cuffiette che non persi tempo ad infilare nelle orecchie. La musica partì al massimo ed il mio sguardo vagò fuori dal finestrino, oltre quella massa di nuvole, sognando Londra che spariva dietro di me.
 
Una volta scesa dall’aereo fui investita da una folata di vento più fredda che semplicemente fresca, parecchio diversa dalla brezza estiva. L’aeroporto era qualcosa di così strano e desolato, sembrava di essere in mezzo al nulla, ma forse ero io che ero abituata alla grandezza di Londra, alle centinaia di persone sempre in movimento, però cavolo! Lì almeno c’era vita, qui sembrava di essere su un pianeta alieno.
Recuperato il bagaglio divenni una mina vagante e trovare un taxi sembrava difficile quanto cercare un ago in un pagliaio. Camminare a piedi per arrivare al centro che distava chilometri da dov’ero era fuori discussione. Erano le undici di sera ed io ero stanca morta, non c’era nulla intorno a me oltre la strada e anche se avessi voluto fare l’autostop –cosa che decisamente non era da me-, non avrei potuto dato che per farlo avrebbero dovuto esserci le macchine. Afferrai il cellulare dalla borsa trascinandomi dietro la valigia, sbloccai la tastiera e, come per magia, non c’era campo. Puff , sparito! Maledizione. E adesso cosa faccio?, si lamentò una vocina nella mia testa.
D’un tratto, nel silenzio più totale, il lontano eco del rombo di un motore mi fece illuminare lo sguardo. Qualche secondo dopo entrò nella mia visuale un’auto grossa e gialla con degli strani ghirigori e un numero segnato sulla portiera del guidatore: un taxi. Forse dopotutto non ero così sfortunata come credevo. Mi trattenni dal gettarmi in mezzo alla strada per fermarlo e mi limitai a sventolare una mano.
Messo il bagaglio sul sediolino accanto a me tirai lo sportello che si chiuse con uno cigolio sferragliante. Comunicai la mia meta all’uomo al volante e solo dopo oltre dieci minuti di viaggio mi resi conto che non si trattava di un uomo, affatto. Era un ragazzo sopra la ventina, lo si capiva dal suo profilo spigoloso che, oltretutto, era  l’unica cosa, a parte i capelli corvini, che riuscivo a vedere di lui. Mi sorpresi della sua giovinezza, forse perché non avevo mai visto un tassista così giovane e apparentemente carino, ma mi affrettai a distogliere lo sguardo, non osavo immaginare quanto le mie guance sarebbero potute divenire rosse se lui mi avesse beccata a fissarlo come una ragazzina in preda agli ormoni… be’, in un certo senso ero una ragazzina, ma gli ormoni sapevo tenerli a bada io. Guidava veloce, ma quasi non si percepiva, così mi feci cullare dalle flebili note che venivano fuori dalla radio e smisi di combattere il sonno.
 
Un improvviso balzo, seguito da una frenata piuttosto brusca, mi fece risvegliare senza fiato e mi sentii del tutto disorientata. Sbattei le palpebre asciutte e ricordai di essere in un taxi che mi conduceva verso la rovina della mia vita. Perfetto, avrei voluto dormire ancora.
Realizzai, forse in ritardo, di essere arrivata a destinazione, così aprii la borsa e armeggiai col portafogli tirando fuori venti dollari e poggiandoli sul sedile del passeggero. Scesi per poi portare fuori i bagagli e, prima di chiudere la portiera, ringraziai. Vidi la sua testa muoversi in un cenno di risposta alla mia affermazione, quel tipo non sembrava proprio il modello dell’educazione. Mise nuovamente in moto e fu in quel momento che si voltò a guardarmi attraverso il finestrino opaco, i suoi occhi di uno scintillante azzurro, le sue labbra piegate in un mezzo sorriso. Un secondo dopo rimasi sola in una nuvola di smog e, quando il taxi fu fuori dalla mia visuale, mi voltai ritrovandomi letteralmente davanti il nulla.  
 
 
 
 
 
Sciaaao!!
 
Salve a tutti, per quelli che non mi conoscono già dalle mie precedenti fan fiction io sono Alena18 e sono un po’ fuori, quindi questo dovrebbe aiutarvi a capire che questa ff sarà molto strana e soprattutto diversa, molto diversa. Aspettatevi di tutto!
Questo è solo una specie di prologo introduttivo e, vi avverto, la storia andrà avanti più o meno così, in modo piuttosto solitario, durante i primi capitoli, poi ovviamente accadrà quel fatidico “di tutto”:)
Spero davvero che vi possa piacere, fatemi sapere, accetto tutto, anche le critiche purché siano costruttive, si intende;)
Grazie in anticipo!:)
Baci
Alena18 xxx


Maya Gordon

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