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Autore: La neve di aprile    06/07/2008    4 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
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HAND IN GLOVE
#
11 CARRY ON

 

 




PARLA IZZY:

 

 

La dipendenza è sempre stata la mia droga.

Iniziai a sperimentarla quando arrivai a L.A, molto tempo fa, e da allora ho sempre fatto molta fatica a disintissicarmene.

E' parte di me, parte di quel complicato groviglio di pensieri e emozioni che sono.

E' più forte di me, il richiamo a cui non riesco a resistere.

All'inizio, il suo nome era Desi.

Aveva il volto di una spogliarellista minorenne, grandi occhi castani e lunghi capelli scuri, pelle di porcellana e il corpo di un angelo.

Poi si sbriciolò in polvere bianca.

Piste tirare su specchietti opachi, sporchi. Dollari buttati al vento, banconote arrotolate, la droga era la mia nuova migliore amica.

Si sciolse in liquori ambrati, dal sapore forte e deciso.

L'alcool, nelle vene, bruciava molto più del sangue e del mio buon senso: il tunnel sfocato in cui caddi mi privò di ogni inibizioni, di dignità, di umanità.

Caddi, si.

E nello sprofondare nella mia melma di inadeguatezza mi resi conto che di nuovo, dipendevo da qualcosa.

Dipendevo da te, Roxanne.

Quando i legami fisici con polveri chimiche e liquidi infiammabili vennero recisi, in quel caldo agosto del 1989, io mi resi conto della mia debolezza.
La tua assenza bruciava più della presenza di chiunque altro, avevo
 bisogno di sentire la tua voce, di vedere il tuo viso, di avvertire le tue dita fredde sul mio corpo e il tuo sapore sulla bocca.
Avevo disperato bisogno di te e nulla, NULLA, sembrava in grado di lenire la sofferenza che sentivo o riempire anche solo minimamente il buco che minacciava di divorarmi dall'interno, consumandomi giorno dopo giorno, settimana dopo settimana.

Le ore si dilatavano in minuti eterni, i secondi si fermavano nel loro scorrere.

Il mondo intero perdeva i suoi colori, quando tu non eri con me.

 


 

 


Each night within his prison cell

 

 

he looks out through the bars

He reads the letters that she wrote

One day he'll know the taste of freedom.
 

Nightwish, Over the hills and far away.


 

 

MALIBU',  dicembre 1989

Izzy affondò le mani tra i capelli, chiudendo gli occhi.

L’impressione era quella che la testa stesse per scoppiargli tra le dita da un momento all’altro e a giudicare dalla dolorosa rapidità con cui la sentiva pulsare, era quasi certo che fosse un momento particolarmente vicino.

Alla fine era successo.

La cosa che più aveva temuto, quello che poteva definire il suo incubo più nascosto: era finito in una casa di riabilitazione.
Una fottuta rehab, come aveva sottolineato Axl quando lo aveva chiamato, dopo il processo.
Il processo... piegò la bocca in una smorfia, ripensando al miracolosamente assalto mediatico evitato. Immaginò la folla di giornalisti chelo avrebbe assediato giorno e notte, immaginò la stessa ressa famelica e impietosa stringersi attorno a Roxanne.
Rabbrividì, nonostante l’aria fosse quasi bollente.

Si alzò in piedi, camminando nervosamente lungo la stanza: era datre mesi esatti che non aveva più notizie di Roxanne, che non si era fatta viva al processo, che non aveva risposto alle sue telefonate.
Era letteralmente scomparsa nel nulla.
Sentì un nodo stringergli la gola, la sola idea di averla persa per una cazzata del genere lo faceva sprofondare nella depressione più cupa e la sua voglia di vivere calava spaventosamente a rasentare lo zero assoluto.

Si alzò in piedi, raggiungendo la finestra aperta che dava sul giardino sottostante, un tripudio di colori e profumi che gli erano completamente indifferenti. Ogni mattina, nella sua stanza, compariva un mazzo di margherite.

Non aveva mai capito il perché della loro presenza, quando lo aveva chiesto ad un’infermiera la risposta era stata lapidaria.
Perché qualcuno te li manda.
Non sapeva chi, non c’erano mai bigliettini, e non aveva la più pallida idea di chi potesse avere tanto a cuore l'arredamento della sua camera, una sorta di cella minuscola che lo aveva sentito gridare mentre il suo corpo di contraeva in spasmi di dolore lancinanti

E adesso che la dipendenza fisica era stata spezzata, adesso che lottava con la sua stessa volontà, tutto ciò che voleva era Roxanne al suo fianco, e non uno stupido mazzo di fiori.
Già una volta si era arrabbiato al punto da prenderlo e scagliarlo con una parete, ritrovando a fissare un mucchietto di petali vellutati e frammenti trasparenti, illuminati dalla luce rossastra di un tramonto.
Quando poi si era reso conto del perché lo aveva fatto, aveva sentito l'irrefrenabile impulso di piangere ma, come aveva poi raccontato allo psicologo la mattina dopo, i suoi canali lacrimali erano troppo orgogliosi per farlo.

Incrociò le braccia al petto, guardando il parco della casa di cura allungarsi pigramente sotto di lui, fino ad un cancello accuratamente sorvegliato e verniciato di bianco.

Una prigione di lusso, ecco dove era finito.

"Signor Stradlin, c'è una visita per lei." gli annunciò una graziosa infermiera bionda, facendo capolino sulla sua porta e ragalandogli un sorriso fin troppo eccessivo.

E i carcerieri si mascherano da angeli, aggiunse silenziosamente tra se e se, gratificando la biondina con un cenno del capo dopo aver indugiato qualche altro attimo sul giardino.
Si voltò, lasciando la stanza dopo aver recuperato le sigarette e un accendino, percorrenda senza fretta un corridoio dalle pareti dipinte di quel verde sbiadito che nei negozi viene proposto come "verde primaverile".

La sala d'aspetto dove l'infermeria lo portò non era molto grande, un rettangolo dove erano ammassati con grazia divanetti, poltroncine, tavolini e una quantità spropositata di posacenere era deserta, fatta eccezione per una folta chioma riccioluta che riconobbe all'istante.

"Slash!" esclamò, avanzando verso l'amico, che gli rivolse un sorriso sghembo, "vecchio cazzone, come stai?" ghignò, dandogli una manata amichevole sulla spalla.

Il chitarrista ricambiò il gesto, stringendolo in un mezzo abbraccio impacciato, per poi lasciarsi di nuovo cadere sul divanetto e allungare le gambe sul tavolino lì di fronte.
Izzy si accoccolò su una poltroncina, accendendosi una sigaretta.

"Impegnato il doppio del solito," rispose il riccioluto, "ma quantomeno libero di andare dove mi pare."

"Spiritoso..." lo liquidò il primo, soffiando fuori una nuvola di fumo che si perse nei colori ovattati della stanza.
"Manca ancora un mese e poi posso tornare."

"E' quello che hai detto un mese fa," osservò Slash, inarcando le sopracciglia.

"Cosa vuoi insinuare?" indagò cauto Izzy, gli occhi verdi accesi dal dubbio e dalla diffidenza.
Quelli nerissimi dell'altro ragazzo rimasero impassibili, mentre si faceva allungare una sigaretta e si concedeva qualche tiro, prima di rispondere.

"Nulla, Stradlin, nulla." sorrise "Rilassati! Ti porto notizie dalla tua bella." aggiunse dopo qualche attimo, stringendo la Malboro tra le labbra e frugandosi nelle tasche dei pantaloni, alla ricerca di qualcosa.

Sforzandosi di rimanere tranquillo e non dare a vedere del salto che il suo cuore aveva fatto, raddrizzò la schiena.

"Ah." commentò semplicemente.
Ma quella che avrebbe dovuto essere un'esclamazione quasi indifferente gli uscì come un gemito strozzato.

"Lo sai, vero, che non hai bisogno di fingere di essere il grand'uomo che non sei, vero?" lo stuzzicò il chitarrista, porgendogli una busta un po' spiegazzata che l'altro prese con dita tremanti.

"Mh." mugolò lui, guardandola come se al suo interno fosse rivelato il mistero della vita.

"Sta bene, comunque." proseguì Slash, come se nulla fosse "E' un po' provata, certo, ma tira avanti."

"L'importante è che stia bene." commentò a denti stretti, torturando le dita strette in una morsa nervosa.

"Tu piuttosto?" riprese il chitarrista riccioluto, il volto nascosto a metà dalla folta chioma corvina "Come stai?"

"Come vuoi che stia?" ringhiò Izzy, scattando in avanti e contraendo i muscoli del collo "Una merda. Sono rinchiuso in una gabbia dorata, ma pur sempre una gabbia."

"Potresti andartene quando vuoi, lo sai vero?" Slash si accese un'altra sigaretta, rigirandosela tra le dita e trattenendo il fumo in bocca a lungo.

"Si, lo so..." il moretto affondò il viso tra le mani, con aria stanca "Ma non sono forte abbastanza. Voglio tornare da lei con la sicurezza di esserlo abbastanza da evitare che una cosa del genere si ripeta."

"E allora rimani, non c'è altro da dire." si alzò in piedi, imitato da Izzy, e gli posò una mano sulla spalla "Tanto noi tutti ti aspettiamo. Tu pensa a rimetteri a posto, d'accordo?"

"Non mancherò." bisbigliò Izzy, stringendo forte la busta con dentro la lettera di Roxanne con un'impazienza che non sapeva di poter provare, una sorta di urgenza fisica che gli suggeriva di girare sui tacchi e correre a chiudersi in camera per poterla finalmente leggere.

 

 

 

All my life has been a battle

 

 

Fought within me with myself

You always know what the truth is
But the trick is to know yourself
I looked around me in the darkness
And you found me when there was no one else.

 

Ben’s Brother, Carry on.

 

 

 

 

 

 

 

 

La notte lo colse mentre rileggeva per la ventitreesima volta la lettera di Roxanne.

Ormai era quasi in grado di recitarla a memoria da capo a fine, sarebbe stato in grado di snocciolare persino tutte le cancellature che costellavano il foglio a righe, strappato da un quaderno qualunque: eppure non riusciva a fare a meno di correre con lo sguardo lungo la grafia famigliare della ragazza, cercando di immaginarla mentre riversava il suo cuore e i suoi pensieri sulla carta, per mandarli a lui.
Poteva vederla mentre si mordicchiava le labbra, con il capo inclinato, baciata dalla luce dorata di un tramonto e appollaiata su uno sgabello nel suo minuscolo cucinino.
Oppure distesa a pancia in giù sul letto, nelle grigie ore che precedono l'alba, di ritorno da un turno particolarmente lungo al lavoro. Con il trucco un po' sciolto dal caldo, i capelli scompigliati e una sigaretta tra le labbra.

Dio, come avrebbe voluto poter correre da lei subito, in quel preciso momento!

Leggere che lei non aveva smesso di amarlo un solo istante gli aveva riempito il cuore di gioia e impazienza, ogni singola fibra del suo essere reclamava il calore di Roxanne, il suo odore, il suo tocco.
La desiderava tanto da impazzire, mai come allora l'aveva voluta al suo fianco.

La distanza, la reclusione forzata.

Tutto, ogni singola cose, sembrava accentuare e ingrandire quel desiderio che gli bruciava in petto.

Si agitò inquieto nel letto, gli occhi verdi che saltavano di parola in parola, senza più leggere, fissi su un'immagine che esisteva solo nella sua mente.

Ricordava una mattina d'inizio marzo.
Una giornata limpida, prima di nuvole, solo cielo azzurro e sole, loro due distesi su un prato costellato di fiori, su una grande bandiera inglese stesa a terra.
Ricordava la consistenza serica dei capelli di Roxanne tra le sue dita e il loro profumo, un alone appena percettibile di mandorle e albicocche.
Il sorriso della ragazza mentre cantavano a squarciagola una canzone di Cindy Lauper senza preoccuparsi di stonare o andare fuori tempo, cantando solo per il gusto di farlo.

Era così che voleva ricordarla quando erano separati: un raggio di sole nelle sue giornate più buie.

Posò i fogli sul comodino, lasciandosi cadere di schiena sul materasso.
Doveva resistere, doveva resistere solamente un mese, doveva farlo per lei che, solo ora se ne rendeva conto, era tutta la sua vita.

 

 
 

 

Bitter apple take my life

It's kind of wonderful

If I close my eyes you're mine tonight

Tonight.
 

Dave Gaham, Bitter Apple

 

 

 

 

 

 

 

 

LOS ANGELES, gennaio 1990

Izzy sbadigliò, accoccolato sul sedile posteriore della macchina che era venuto a prenderlo all'uscita dell'albergo.

La notte era silenziosa, la città nulla più di un bagliore sfuocato che sfrecciava al di là del freddo vetro che lo portava via da quella gabbia di lusso in cui si era rintanato appena finita la riabilitazione in preda ad una assurda follia da arrivo del nuovo anno.
Per la prima volta, dopo tanti anni di veglioni passati sotto l'effetto dell'alcol e delle droghe, aveva salutato l'inizio di un nuovo anno sobrio.
Ma, soprattutto, solo. Non aveva voluto nessuno, accanto a lui. Nemmeno Roxanne.

Non era stato facile dire di no all'unica persona al mondo che avrebbe voluto con lui, anzi.
Probabilmente non aveva mai preso una decisione così difficile in tutta la sua vita, ma sapeva di non poter rischiare.
Sapeva di non aver scelta, sapeva di ritrovarsi in una situazione tale che il minimo errore, il minimo sgarro, gli avrebbe fatto perdere tutto.

Per questo era rimasto in albergo, buono e tranquillo, in compagnia delle chiacchiere inutili della televisione. Incazzato, certo.
Incazzato come poche volte nella sua vita.

La frustrazione, la solitudine, la rabbia e, perché no, la tristezza mescolata alla consapevolezza che si ritrovata in una situazione del genere era solamente a causa sua, si erano riversate in lui trovandolo senza difese.
Il 1990 lo aveva accolto con un caloroso "vaffanculo, cazzo, vaffanculo".

Ma era passata.

La notte più lunga della sua vita era passata e adesso lui guardava alla notte limpida con occhi nuovi.

La macchina accostò dolcemente e l'autista, con un sorriso, gli comunicò che erano arrivati.

"Grazie," biascicò Izzy, uscendo dalla vettura e precipitandosi verso il portone dalla vernice scrostata che non vedeva da mesi.
Lo trovò aperto, come al solito, e senza smettere di correre si lanciò sulle scale, masticando rampe su rampe in barba al dolore atroce che gli attanagliava la milza.
Aveva aspettato fin troppo, non aveva nessuna intenzione di permettere ai suoi limiti fisici di ritardare ancora quel momento.

Riconobbe subito il pianerottolo del settimo piano, pur non avendo contato tutti quelli che aveva superato, dal grande graffito colorato che ne ricopriva interamente le pareti. Non si accorse nemmeno che altri se ne erano aggiunto, trasformando le mura in chiazze di colore senza senso, al limite della psichedelia.
La porta dietro cui si nascondeva Roxanne era proprio davanti a lui. Si fermò, concedendosi un attimo di tempo per inspirare a fondo.

Ma nell'esatto istante in cui alzò la mano per bussare, la porta si spalancò e un ciclone rosso lo investì in piena, schiantandosi contro il suo petto.
Izzy la riconobbe.
Il suo corpo la riconobbe, ancora prima che la mente formulasse il pensiero, e le braccia si mossero da sole, per trattenere Roxanne.
Lei, però, si scostò bruscamente, dandogli le spalle e nascondendosi il volto tra le mani; qualcosa in lei rifiutava di credere a quelle che, ne era sicuro, il suo corpo le urlava addosso.

"Non è possibile." la sentì sussurrare tra le dita.

"Perché no?" chiese, con un filo di voce.

"Perché non può essere vero, è troppo bello per essere vero." curvò la schiena, tremando quanto la sua voce.

"Roxanne.." la chiamò allora Izzy, dolcemente "guardami."

"No."

"Perché no?"

"Perché se io mi volto e tu non sei davvero lì io.. io non.."

"Roxanne, posso.. posso avvicinarmi?" proseguì il chitarrista.

La ragazza rimase immobile, abbracciandosi la vita come se da quello dipendesse la sua vita.
Il moro avanzò di un passo, fece per sfiorarle la schiena, ma lei lo bloccò, riprendendo a parlare.

"Se tu non.. se io adesso mi voltassi e tu non... se tu non sei qui... io... io impazzirei, Izzy..." scosse il capo, rifiutando la possibilità.

Izzy allungò la mano, posandogliela sulla schiena.
Prima i polpastrelli, poi le dita e alla fine il palmo, sentendo il calore della carne passare attraverso la felpa rossa, la sporgenza più dura delle scapole e delle vertebre.
Lei sussultò visibilmente, ma non si scostò: reclinò il capo all'indietro.

"Sei.. sei davvero tu." disse. E questa volta non era una domanda.

Il chitarrista non parlò, facendole pressione sulla schiena per farla voltare, per poi prenderle il mento tra le dita e costringerla a guardarlo.

"Guardami," sussurrò, "ti prego, Roxanne, guardami. Ne ho bisogno."

Era passato tanto tempo dall'ultima volta che aveva avuto la possibilità di perdersi negli incredibili occhi scuri della ragazza, troppo da quando l'aveva fatto sobrio: l'effetto fu mille più sconvolgente di quanto potesse sperare.
Nell'esatto istante in cui lei sollevò le palpebre, ricambiando il suo sguardo smeraldino, aveva sentito la terra vacillargli sotto i piedi.
Aveva istintivamente stretto le dita sulle spalle di Roxanne, spingendosi al limite del dolore fisico e cercando in quel contatto un appiglio che gli permettesse di non scivolare a terra.

Non si dissero nulla.
Il tempo smise di avere importanza, le parole persero il loro significato, il mondo sbiadì.
Tutto ciò che contava, era negli occhi.

La lontananza, quei lunghi mesi che li aveva tenuti separati rendendoli simili a belve in cattività. Ogni cosa, si perse in quell'unico sguardo.

"...mi sei mancata." riuscì a dire a fatica Izzy, sforzandosi di non sbattere le palpebre. Non voleva perdere nulla, nemmeno la più insignificante frazione di secondo.

"Anche tu," replicò lei, come fosse senza fiato.

"Da morire."

Roxanne inspirò a fondo, stringendo le dita attorno ai polsi ossuti del ragazzo.

"Ma sei qui."

"Si, siamo qui."

 

 

 

Let me count the ways that I love you

 

 

Let me count the days that we have known

Show me a place to be with you

‘Cause I can't do this on my own, on my own.
 

Ben’s Brother, Carry on.

 

 

 

 

 

 

 

 

Izzy rimase ad occhi chiusi, accoccolato contro Roxanne.

Era notte fonda, eppure non c’era neanche un briciolo di silenzio: dalle finestre aperte sentiva un gran vociare salire dalla strada, una sirena che correva in lontananza, il pianto di un bambino e la ninna nanna di una madre.
Non riusciva a dormire.

Aveva dimenticato cosa volesse dire passare la notte nella città degli angeli, nei suoi mille rumori senza pace; abituato com’era al silenzio assoluto che aveva accompagnato la riabilitazione.
Roxanne, al contrario, sembrava essere del tutto indifferente a tutto quel chiasso: si era addormentata subito, dopo essersi rannicchiata contro di lui come se non si fossero mai separati per così tanto tempo, e non si era più mossa.

Le accarezzò la schiena nuda, baciandole una spalla.

“Ehi,” la sentì sussurrare, la voce impastata dal sonno, “va tutto bene?”

“Si,” la strinse più forte, sorridendo.

“Non riesci a dormire?” si rigirò tra le sue braccia, cercando i suoi occhi.

“No.” ammise, scrollando le spalle “E non riesco a capire come tu ci riesca, con questo fottuto casino.”

Lei ridacchiò, debolmente, trattenendo uno sbadiglio.

“Ci farai l’abitudine, amore, vedrai. Arriverai ad un certo punto in cui non ti accorgerai nemmeno delle macchine che passano per strada.”

“Oh, non lo so.. è tutto così strano.”

“Strano?” si raddrizzò, mettendosi a sedere.
I capelli, molto più lunghi di quanto non ricordasse, le sfioravano le vita, arricciandosi in onde stanche.
Allungò una mano, stringendone una ciocca tra le dita e avvicinandola al volto: il familiare odore di albicocca lo fece sorridere.

“Si.”

“Strano in negativo o in positivo?” indagò cauta, mentre Izzy abbandonavo il capo nel suo grembo.
Roxanne prese ad accarezzargli i capelli, in attesa.

“.. non lo so.” ammise il chitarrista alla fine, rinunciando a trovare la risposta e chiudendo gli occhi “Una parte di me la vede in negativo e non vorrebbe altro che tornarsene in clinica anche se non ce ne è bisogno.”

“E’ normale avere paura.” commentò dolcemente la ragazza, chinandosi per baciarlo.
I folti capelli scuri le ricaddero ai lati del volto, chiudendosi come una tenda attorno alle loro facce.
“Ma non sei solo. Non lo sarai mai.”

Izzy soppesò le parole, guardandola. Era così tanto, che non lo faceva, che quasi si stupiva dell’effetto che quei lineamenti, quegli occhi, quelle labbra, suscitavano in lui.

“C’è stato un momento in cui ho temuto te ne saresti andata.” sussurrò, senza distogliere lo sguardo.
Lei mantenne il contatto, mostrandosi tranquilla.
“Quando ti ho vista, all’aereoporto, ho davvero creduto di averti persa. Cazzo se ho avuto paura, in quel momento,” lei abbozzò un sorriso, “probabilmente non sarei sopravvissuto, non avrei resistito più di due giorni in quel posto senza sapere che c’eri tu lì fuori.”

“Ma tu non sapevi se c’ero o meno.”

“Vero,” fece un pausa, “ma avevo bisogno di crederlo.”

Roxanne tacque.

In realtà avrebbe voluto dire tante cose, ma temeva che se avesse aperto la bocca non sarebbe più riuscita a chiuderla.
Aveva paura che se davvero non si fosse trattenuta, avrebbe finito col gridare che si, avrebbe potuto non esserci davvero.
Che non sapeva se un cuore infranto potesse rompersi ancora prima di quel fottuto giorno, in quel fottuto terminal.
Che la piaga lasciata dalla morte di suo fratello faceva ancora male, ma si stava richiudendo, fino a quando lui non ci aveva infilato dentro la lama di un coltello e aveva fatto uno strazio di quella che non sarebbe mai diventata una cicatrice.
Ma che anche lei non aveva scelta.
Che arrivata a quel punto non sarebbe più stata capace di vivere anche solo un giorno senza sapere di avere Izzy.
Che si sentiva un mostro, un’egoista, ma non poteva fare a meno di volerlo tutto per sé. Perché così come lui non aveva altri che lei, lei non aveva altri che lui.

Però.

Però sapeva che lui avrebbe reagito male, nel sentire una cosa del genere.
Dopo così tanto tempo assieme, aveva imparato che Izzy era fragile, vulnerabile, ma che non lo avrebbe mai ammesso né tanto meno accettato di buon grado.
Doveva fare buon viso a cattivo gioco, scendere a un compromesso con se stessa, scendere a patti con se stessa.

E per questo non parlò.
Rimase in silenzio, ignorò quel nodo che le stringeva la cosa e strinse forte le dita tra i capelli corvini del chitarrista, chinandosi per baciarlo.

In fondo, si disse, avevano tempo.

Tempo per parlare, tempo per chiarire.

Tempo per i giudizi, tempo per le confessioni; tempo per accettare le più grandi delle paure e le più amare verità.

Avevano tempo.

Aveva bisogno di credere che fosse così.

 


 

 

PARLA IZZY:

 

 

Il brutto delle dipendenze, è che non finiscono mai bene.

Specie se la tua dipendenza è la dipendenza stessa.

Perché arriva sempre quel momento in cui quello che ti faceva star bene, che ti faceva andar su di giri, che ti regalava parvenze di felicità, smette di farti bene e inizia a farti male.

Desi l’ho lasciata io, si.

La scusa ufficiale era la sua età che avrebbe potuto stroncare il mio futuro sul nascere.

Con la droga ho dovuto smettere perché alla fine mi avrebbe ucciso.

Con te, invece, è stato diverso, ma non so spiegare perché nemmeno adesso.

Se guardo indietro negli anni, quelli che ho passato con te sono tra i più felici della mia vita.

Nonostante i problemi, nonostante tutto.

Sei un punto luminoso in un mare di tenebre rischiarato da tenui fuochi fatui.

Eppure spezzai il legame che mi legava a te.

Fisicamente.

Psicologicamente, ancora oggi dubito di avercela davvero fatta.

E comunque, dicono che sia impossibile liberarsi dei vizi finché non si tocca il fondo.

Ma come si fa a capire quando l'hai toccato?

Perché non importa quanto una cosa ci faccia male.

A volte smettere e' ancora più doloroso.

 

   
 
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