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Autore: Equilibrista Bendata    10/04/2014    1 recensioni
– Fai podismo?
Domanda curiosa, e anche strana, irriverente e maleducata se è la prima domanda che vi fa un estraneo.
E' esattamente questo che pensa Cassandra, una diciassettenne qualunque, quando incontra l'affascinate e arrogante Feibush, appena arrivato in città. E ancora più fastidioso è ritrovare questo ragazzo ovunque: a scuola, al parco, fuori di casa.
Ma chi è questo intrigante sconosciuto? E cosa nasconde lo zio di Cassandra, il bonario e paffuto Denis? E la voce che perseguita la ragazza fin da bambina, che significato ha? E' solo pazzia quella che l'affligge, o c'è dell'altro?
Tutto inizia dal podismo per portarci nel mondo di tutti i giorni, un mondo, però, che nasconde mille e una insidie in cui Cassandra si ritroverà immersa, in un caleidoscopio di personaggi, luoghi e storie straordinarie.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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UNA REALTA’ DA INCUBO

 
Nel pomeriggio Bedville cadeva nel torpore generale: i negozi si svuotavano di clienti, gli anziani sedevano vicino alle finestre per guardare fuori oppure per leggere un libro su cui si addormentavano, la biblioteca storica si riempiva di amanti della lettura o studenti in cerca di un luogo silenzioso, la maggior parte dei giovani restava in casa, più o meno occupati nello studio che fossero.
La campana della chiesa gotica suonò le quattro del pomeriggio e proprio in quel momento Cassandra stava togliendo i panni asciutti dal filo nel piccolo giardino sul retro. Una volta tornata a casa, aveva pranzato velocemente con una carota e due biscotti, aveva caricato la lavatrice e si era immersa nello studio dal quale era riemersa, indolenzita e stanca, solo in quel momento. Avrebbe voluto finire di leggere Re Lear per poterlo riportare alla biblioteca, ma era troppo sfiancata e rischiava di non ricordare quello che avrebbe letto. Inoltre, non aveva molta voglia di tornare dietro alla scrivania dove era stata fino a quel momento, china su quaderni e libri.
Finì di piegare gli ultimi abiti e li ripose nella cesta di vimini, poi si portò le mani alla schiena e si sgranchì un attimo. Aveva bisogno di fare una camminata o, meglio, una corsetta sia per smaltire lo stress, sia per farsi passare quel mal di schiena lancinante che la tormentava sempre dopo ogni pomeriggio di duro lavoro.
Posò la cesta di vimini sul tavolo in salotto e si diresse in camera. Indossò una leggera maglia a maniche corte con sopra una giacchetta azzurra, un paio di pantaloni grigi di cotone e le sneakers sformate con le quali era solita andare a correre o a fare lunghe passeggiate nei boschi. Andò in bagno e si rinfrescò il viso; si guardò allo specchio mentre si asciugava: i grandi occhi grigi erano cerchiati da spesse occhiaie violette e i morbidi capelli dorati avevano bisogno di una lavata; aveva un brufolo sul mento e un altro stava spuntando sulla guancia destra.
Che cesso, disse la vocetta, da un punto remoto della sua testa.
– Non hai tutti i torti – rispose la ragazza, uscendo dal bagno.
Si legò i capelli in una coda alta, scrisse un bigliettino per suo zio nell’eventualità rientrasse prima di lei e uscì.
L’aria era tiepida e ideale per fare un giro, così Cassandra si diresse con passo e respiro regolare verso il centro della città costituito da un bel parco, grande e ben curato dall’amministrazione di Bedville. Sovrappensiero, passò davanti al panificio, all’edicola, al negozio della fioraia e a quello della parrucchiera; attraversò la strada principale e si diresse verso il parco: visto dal secondo piano di una delle case che si affacciavano sul centro città, il Bedville Park appariva come un enorme rettangolo di verde che si apriva fra le strade asfaltate e i negozi. Si sviluppava attorno ad un laghetto e costituiva il fiore all’occhiello di tutti gli abitanti del paese: enormi ippocastani si innalzavano maestosi, affiancati da aceri possenti, delicati alberi dei tulipani e vecchie querce secolari, il tutto a formare un armonioso cerchio concentrico attorno all’acqua limpida del laghetto sul quale si affacciava il vero re del parco: un enorme salice si ripiegava in tutta la sua maestosità sulla superficie dell’acqua, i rami pendoli adornati da foglie lanceolate di un verde ceruleo a formare una campana segreta, la chioma folta che non lasciava intravedere il tronco ricurvo e rugoso. I vecchi del luogo solevano dire che quell’albero era lì prima ancora che Bedville fosse costruita, custode del lago e del parco che attorno ad esso era stato preservato, e che nessuno, neppure il fondatore della città, si diceva, avesse avuto il coraggio di abbattere per un motivo che, quando era bambina, Cassandra aveva domandato a un vecchietto vispo e arzillo che stava seduto su una panca proprio in quel parco, durante una fiera primaverile.
– Quel salice è la casa di un mostro – le aveva risposto l’anziano.
– Un mostro? – gli aveva fatto eco lei, un palloncino rosso nella mano destra, i capelli legati in simpatiche codine, l’espressione incuriosita.
– Si dice che nelle notti di luna piena, una luce si accenda sotto il grande salice e danze infernali vengano eseguite alla sua ombra. Ebbri di vino, demoni, diavoli e creature mostruose strisciano poi fuori dal suo tronco per poter catturare le giovani più belle della città e portarle con loro. Non faranno più ritorno a questo mondo.
L’ometto aveva raccontato questa storia con voce lugubre e gracchiante, e una volta conclusa aveva lanciato uno sguardo divertito alla bambina per vederne la reazione. Cassandra, di tutta risposta, si era portata un dito alla bocca, lo aveva battuto due volte sulle labbra carnose come era solita fare quando le veniva in mente una domanda complessa, e aveva chiesto: – Mi domandavo; come fanno demoni e diavoli a vivere nel tronco per tutto il mese? Deve essere parecchio stretto, là dentro – e aveva indicato il non lontano salice. – Nessuno che vive qua vicino rimane infastidito dalla confusione che fanno? Perché non chiamano la polizia?
Il suo flusso di domande, però, era stato interrotto dallo zio Denis che era tornato dal banco dei gelati e avendo udito le domande fatte da sua nipote, le aveva messo in mano il cono al cioccolato e le aveva detto, torvo: – Nessuno li può vedere, per questo non si può chiamare la polizia.
– Ma se nessuno li può vedere, come fate a dire che escono e rapiscono le persone?
– Infatti, tesoro, non esistono.
– Ma il signore…
– Ma il vecchio Tom, qui, è un po’ pazzo. Vero, Tom?
Sorridente, Tom aveva strizzato l’occhio alla bambina e stretto la mano allo zio, andandosene senza aggiungere altro e canticchiando fra sé e sé. Ovviamente, Cassandra era stata sempre una bambina curiosa e intelligente, e le volte successive che aveva visitato il parco aveva cercato, sfuggendo all’attenzione dello zio, di entrare sotto la campana di foglie creata dal salice: i tentativi erano stati molteplici, i fallimenti altrettanti poiché zio Denis l’aveva sempre beccata a pochissimi passi dai rami ricurvi e, nonostante fosse molto distante o addormentato su una panchina o girato di spalle a chiacchierare con una o più persone, immancabilmente si rendeva conto che Cassandra si era fatta troppo vicina al salice. Era stata sgridata più e più volte, ma questo non aveva fatto altro che aumentare il suo interesse per l’albero finché un giorno, poco tempo dopo il suo decimo compleanno, lo zio aveva soddisfatto la sua centomilionesima domanda sul salice e, scostati i rami penduli dell’albero, gli aveva mostrato cosa c’era sotto: la pianta aveva un tronco largo e possente con una corteccia scura e ruvida ricoperta da un edera rampicante, la luce sotto i rami arrivava filtrata e quell’ambiente poteva essere descritto in tre parole: fresco, verde e brillante. Non c’era, però, alcuna traccia di demoni, diavoli o che altro, nessuna luce, nessuna porta, solo un ordinario salice la cui quiete, negli ultimi anni, era stata spesso disturbata da quella bambina testarda. Era ovvio che il vecchio Tom si era inventato tutto e ben presto si era dimenticata del salice, dei diavoli e di tutte le sue possibili fantasie.
Cassandra imboccò una delle strade pedonali e ciclabili che si snodavano dentro il Bedville Park. In quella stagione, il parco offriva uno spettacolo meraviglioso poiché i colori dell’autunno ornavano le foglie degli alberi in modo tale da farle sembrare d’oro, bronzo, ottone e rame. L’erba verde e ben curata veniva impreziosita da un manto di foglie cadute che danzavano leggiadre nell’aria prima di posarsi a terra, oppure sulla superficie del laghetto, formando cerchi concentrici.
La ragazza correva tranquilla, ma non era l’unica ad aver avuto l’idea di sfruttare quella bella giornata per recarsi lì: anziani passeggiavano tranquilli qua e là, chiacchierando del più e del meno fra loro; un ragazzo sedeva su una panchina, dipingendo; dei bambini si rincorrevano sul prato; due innamoratini passeggiavano lungo il laghetto, abbracciati; due ragazzi correvano davanti a lei, perfettamente sincronizzati. Andare al parco la calmava, le permetteva di scaricare i nervi, di svuotare la mente e non era solo dovuto al movimento fisico che faceva, ma anche, e soprattutto, all’ambiente che la circondava: il prato verde, gli alberi rigogliosi, il laghetto tranquillo. Era come se entrasse in sintonia con quel posto e questo la tranquillizzasse da dento; Cassandra aveva sempre imputato il potere di quel luogo di metterle serenità al fatto che vi aveva passato la sua infanzia e i momenti felici con zio Denis.
Si stava beando del paesaggio e dei colori dell’autunno, persa nei suoi pensieri quando, voltandosi per guardare avanti, notò una persona che camminava nella sua direzione, a una decina di metri da lei, e di colpo la sua pace si frantumò in mille pezzi, facendole tornare i nervi a fior di pelle.
Vestito come quella mattina, eccetto per una maglia bianca con su la scritta nera “Fitch”, aveva le mani in tasca e il volto abbassato e in ombra, anfibi neri in pelle lucida avevano sostituito le belle e costose Prada. Rallentò la sua corsa, senza fermarsi; se lo avesse fatto si sarebbe resa più evidente e quindi continuò a procedere. Era a cinque metri di distanza. Avrebbe potuto voltarsi e tornare diretta a casa, ma se lui avesse alzato lo sguardo e l’avesse riconosciuta? E comunque non aveva intenzione di mostrargli le spalle. Meglio proseguire. Tre metri. La cosa migliore da fare era continuare a correre e forse lui non l’avrebbe notata, sembrava immerso nei suoi pensieri.
Trasse un profondo respiro e accelerò il passo. Quando ormai la ragazza pensava di essere in salvo, Feibush alzò la testa e la vide, a meno di un metro di distanza.
– Dunque, avevo ragione. Fai podismo.
– Addio – rispose lei senza fermarsi, sperando di liquidarlo senza problemi. Attese che da un momento all’altro apparisse alla sua sinistra, e invece percorse parecchi metri senza che nessuna chioma ribelle entrasse nella sua visuale. Continuò a correre ma la mente non si svuotava, come suo solito; ripensava a com’era vestito, agli anfibi che gli davano un’aria molto dark e ai capelli scompigliati e troppo lunghi che le facevano venire in mente i surfisti.
Svoltando l’angolo, lanciò un’occhiata alle sue spalle e vide che il percorso dietro di lei era sgombro, non c’era traccia di Feibush. Probabilmente si era andato a sedere da qualche parte oppure era uscito dal parco, diretto a casa. Che gliene importava?
Continuò a correre attorno al parco cercando di evitare di pensare a qualcosa che le richiamasse alla mente il ragazzo; finito un giro del parco decise di farne un altro e accelerò il passo poiché non era ancora sufficientemente stanca.
Concluso il secondo giro, era madida di sudore, il petto le si alzava veloce e alcuni capelli erano sfuggiti dalla coda e le si erano appiccicati al collo sudato. Era abbastanza stanca e soprattutto, nell’ultima mezz’ora, aveva smesso di pensare a qualsiasi cosa per concentrarsi sul respiro e sul ritmo; soddisfatta, ritornò verso casa con passo costante e tranquillo, finalmente pacificata con sé stessa. Superata la fioraia, che nel frattempo aveva chiuso, fu avvolta da un odore di dolce appena sfornato che arrivava dal panificio e, rammentandosi di avere degli spiccioli nella tasca dei pantaloni, decise di fermarsi per concedersi un dolcetto. Entrò e si mise in fila dietro ad una signora anziana che aveva già ordinato.
– Allora, signora Bird, come li vuole questi muffin? Al cioccolato, ai mirtilli oppure all’arancia? – Il panettiere era basso e grassottello, dai baffoni neri e folti, gli occhi scuri e luccicanti come bottoni; indossava un grembiule bianco sopra una maglietta arancione leggermente sporca di farina.
– Cinque al cioccolato e cinque ai mirtilli, signor Branson – rispose l’anziana. – Mi dica, suo figlio come sta?
Immersa nell’osservare i dolci esposti, Cassandra drizzò le orecchie; non era venuta lì per quel motivo, era stata guidata semplicemente dall’odore e dalla sua golosità e aveva avuto notizie del figlio di Branson la settimana prima, da suo zio.
– Benissimo, signora Bird! Benissimo! Gli studi procedono alla grande, ha veramente dei buoni voti e all’officina si sente come a casa; quel ragazzo adora i motori!
– Sono contenta di sentirlo. E’ così tanto tempo che non lo vediamo qui, in città
– E’ sempre stato un ragazzo indipendente – spiegò il signor Branson mentre incartava i muffin. – Sin da bambino gli piaceva uscire da solo, andare a scuola a piedi invece che con il pullman scolastico, restare sotto la pioggia a guardare i fulmini finché sua madre non lo sgridava. Un ragazzo indipendente e forte che ha trovato la sua strada, la sua vocazione lontano da casa, però. Con tutto me stesso desirerei tornasse a vivere di nuovo con noi, signora Bird, ma non posso ignorare i suoi sogni.
– Certo che no.
– Mi accontento del fatto che da domani Liam sarà da noi, per una settimana.
– Signor Branson! Questa sì che è una buona notizia!
– Veramente. – L’uomo si era illuminato ed era al settimo cielo. – Starà un po’ da noi in questi giorni, ha detto di aver bisogno dell’aria di casa. Signora Bird, – gli porse la busta di carta con dentro i dolci da lei richiesti, – ci pensa? È quattro anni che non dorme sotto il nostro tetto, assieme a me e mia moglie.
Lui e la signora Bird continuarono a parlare della meraviglia che erano i figli e quanto era bello riaverli con sé dopo così tanto tempo, ma Cassandra non li ascoltava più. Fissava con sguardo perso le scaffalature vuote dove la mattina il signor Branson esponeva il pane fresco, pronto per la vendita, e pensava a quello che aveva appena sentito: Liam sarebbe tornato e, non solo, sarebbe rimasto per una settimana. Sette giorni, sette giorni in cui avrebbe potuto incontrarlo e vederlo di nuovo, dopo quattro lunghi anni. Chissà com’era diventato. Era diventato ancora più alto di quanto non fosse? Aveva fatto ricrescere i capelli che aveva rasato a zero prima di partire oppure aveva mantenuto quel taglio militare? Quando sorrideva, aveva sempre le fossette ai lati della bocca? E poi, com’era Bronken City? La scuola, procedeva davvero così bene? E la sua ragazza?
Si ritrovò a sorridere, coinvolta dalla felicità del signor Branson e della signora Bird e avvolta dalla sua stessa gioia di rivedere uno dei pochi, veri amici che aveva mai avuto. Solo per un momento, la vocetta malefica nella sua testa le fece notare che non sentiva Liam da quattro anni e che probabilmente non sarebbe stato così interessato a rivedere una persona che non aveva mai avuto l’accortezza di chiedere di lui o mettersi in contatto in qualche modo. Cassandra cacciò via quel pensiero perché non si sarebbe fatta frenare da quelle congetture – in parte veritiere, doveva ammetterlo, lasciandosi sfuggire l’occasione di ritrovare un amico, di riprendere in quel brevissimo tempo che le sarebbe stato concesso un’amicizia che si pentiva di non aver sviluppato prima. Almeno avrebbe potuto smettere di riempire la casa di dolci e suo zio non si sarebbe più lamentato dell’aumento del suo adipe.
Acquistato anche lei un muffin e salutato i due sorridenti presenti, Cassandra uscì dal panificio con passò baldanzoso e un espressione felice, anche la stanchezza sembrava passata. Si domandava se anche la figlia della fioraia, Esther, sarebbe tornata a Bedville, uno di quei giorni; sarebbe stato fantastico se anche lei fosse rientrata, anche per pochissimo tempo, nella stessa settimana in cui Liam veniva a trovare i suoi. Avrebbe raggiunto l’apice della felicità nel rivederli entrambi, assieme, e anche se fra loro le cose erano andate raffreddandosi, lei ci avrebbe messo tutta sé stessa per farsi perdonare di quella sua sciocca infantilità che non le aveva permesso di riconoscere il loro valore sin da bambini. Imboccò la strada di casa sua ed estrasse il muffin, addentandolo contenta.
– Lo sai che i dolci fanno ingrassare?
Un po’ era sovrappensiero, un po’ non se lo aspettava, Cassandra ebbe un sussulto, il muffin le sfuggì di mano e per non farlo cadere, lo fece danzare in aria come un giocoliere finché non lo afferrò. Il respiro accelerato per lo spavento e gli occhi sgranati, si voltò a guardare Feibush che se ne stava pigramente appoggiato al muro, le braccia conserte.
– Non. Farlo. Mai. Più – sibilò a denti stretti.
– Lo dicevo per te.
– Risparmiatelo – e riprese a camminare, dando un altro morso al dolce, con il rumore delle suole gommate di un paio di anfibi che calcavano la ghiaia del marciapiede al suo seguito. Decise di ignorarlo, un paio di metri e sarebbe stata a casa.
Si fermò davanti al cancello in ferro battuto nero, si leccò le dita per pulire i bricioli di muffin ed estrasse le chiavi di tasca. Non badò assolutamente al fatto che Feibush si era fermato al suo fianco, le mani nelle tasche del giacchetto di pelle nera e lo sguardo fisso sulla casa.
– Quindi, è qui che abiti – considerò con voce piatta.
– No, è qui che compirò la prossima rapina. – Aprì il cancello ed entrò, chiudendoselo alle spalle. – Sai, faccio la ladra professionista.
– Hai delle briciole qui – osservò con tono indolente e si indicò l’angolo destro della bocca.
Cassandra si spolverò infastidita le labbra e si diresse verso la porta. Salì i tre gradini del portico, inserì le chiavi nella toppa e si voltò. Feibush era sempre lì, le mani in tasca, lo sguardo su di lei.
– Hai bisogno di qualcosa? – La sua era una domanda retorica, era ovvio.
– Se proprio insisti, entrerei volentieri per un tè.
– Mi dispiace, ma bevo solo Coca Cola.
– Andrà bene lo stesso – fece lui, distaccato.
Girò la chiave e aprì la porta. – Vuoi che ti indichi qual è la strada più veloce per tornare a casa? Questo lo farei volentieri.
– Non ce n’è bisogno, sono già arrivato.
Lei alzò un sopracciglio. – Sì, certo.
– No, davvero. – Detto questo si volse, attraversò la strada senza aver controllato prima se arrivassero macchine o meno, percorse pochi metri lungo il marciapiede opposto, si fermò davanti ad un cancello uguale a quello di Cassandra, lo aprì e dopo aver tirato fuori un mazzo di chiavi dalla tasca del giacchetto, le infilò nella porta ed entrò. Gli fece un cenno con la testa come a dire “Hai visto? Io sono sempre serio” e poi, con quel suo solito sorriso divertito stampato sul viso, le chiuse la porta in faccia.
Con foga, la ragazza entrò in casa, sbatté la porta alle sue spalle e andò alla finestra del salotto per controllare: scostò la tenda e vide una luce accedersi al piano superiore nella casa davanti alla sua, e l’ombra di Feibush avvicinarsi alla finestra di quello che doveva essere un corridoio. Cassandra lasciò andare la tenda e gettò le chiavi di casa sul tavolinetto del salotto; per un attimo aveva creduto che il ragazzo mentisse e che per qualche strano motivo fosse riuscito ad entrare nella casa di fronte alla sua, per poi, però, uscirvene subito dopo. Invece, aveva detto la verità e questo le diede modo di chiedersi, per la prima volta da quando stava lì, se non vi abitasse già qualcun altro in quella casa fino al giorno prima; si rese conto di ricordarsi aver visto due, forse tre volte una donna anziana, poco loquace e molto acida aggirarsi vicino alla porta dell’edificio. Cercò di ricordarsi quando era stata l’ultima volta che l’aveva vista. Non ci riuscì.
Persa nei suoi pensieri, non si rese conto che suo zio Denis la stava chiamando; si voltò a guardarlo, stupita di trovarlo in casa.
Cassandra era orfana.
Non sapeva chi fossero sua madre e suo padre, non sapeva da dove venissero, non sapeva dove fosse nata e se loro l’avessero mai amata. Per quello che poteva immaginare, sarebbe potuta essere la figlia di una qualche prostituta. Non li aveva mai cercati, né mai amati o rimpianti. Era stata lasciata, ancora in fasce e sporca di sangue, di fronte ad un orfanotrofio, dove aveva passato i suoi primi mesi di vita. Perché mai avrebbe dovuto cercare quelle persone che con la stessa facilità con cui l’avevano messa al mondo, l’avevano anche abbandonata in una fredda notte d’inverno? Li doveva cercare per sapere il motivo?
Non le era mai interessato, perché aveva sempre avuto zio Denis a rallegrale la vita.
Non era lo zio naturale, ma lei era cresciuta chiamandolo in quel modo e solo quando era stata parecchio grandicella, aveva iniziato a chiedere dei suoi genitori e a chiedere perché lui fosse lo “zio” e non il “papà”. Denis era stato gentile e aveva dimostrato moltissimo tatto spiegandole che, durante una visita a un orfanotrofio per consegnare una bottiglia di vino della sua enoteca alla direttrice, l’aveva vista in una culla e, rapito dai suoi grandi occhioni, era tornato lì il giorno successivo, e quello successivo ancora, fin quando la direttrice non gli aveva suggerito l’adozione. Così era nata quella convivenza felice.
– Scusa, non ti avevo sentito.
– Questo l’ho notato. – Indossava un grembiule giallo con fantasie floreali stampate sopra, aveva gli occhiali tondi adagiati sul naso socratico e un mestolo in mano ad indicare che stava cucinando. – Con chi stavi parlando?
– Parlando? – Era distratta, la luce della casa davanti brillava da dietro la tenda.
– Ti ho sentita parlare.
– Con nessuno. – Attraversò la stanza e salì due gradini delle scale che conducevano al piano di sopra, poi si volse verso Denis. – Cosa c’è stasera per cena?
Lo zio la fissò serio per alcuni istanti, poi sorrise gioviale. – Pizza, stavo preparando la salsa. Mi vieni a dare una mano?
– Il tempo di una doccia e arrivo – e scomparve al piano di sopra.
Denis ne ascoltò i passi leggeri fin sopra la sua testa, poi lo scrosciare dell’acqua della doccia e lo sbattere di una porta gli fecero capire che si era chiusa in bagno. Si diresse alla finestra dove aveva trovato sua nipote e guardò dallo spiraglio lasciato dalla tenda appena spostata: il sole era calato oltre l’orizzonte e un’ombra bluastra si era impossessata della strada; le luci della casa di fronte erano accese e le tende tirate, tre figure si ergevano come ombre al piano inferiore, in una stanza equivalente a quella in cui si trovava lui in quel momento. Erano immobili, le une di fronte all’altra, nessuna muoveva mani o braccia, pareva che non respirassero neppure; le osservò per parecchi minuti.
Improvvisamente, due delle tre figure sparirono in un sol movimento, come dissolte nell’aria; Denis non ebbe alcuna reazione, aguzzò semplicemente la vista e pochi istanti dopo vide uscire dal caminetto della casa due enormi corvi che si alzarono nel cielo violetto e si diressero a sud, scomparendo velocemente dal suo campo visivo. Riportò l’attenzione sull’ombra che se ne stava in piedi, ormai sola, al centro di quello che doveva essere un salotto simile al suo; la luce si spense, l’ombra si unì alle altre ombre. L’uomo continuò a fissare la casa ora immersa nel buio; strinse il mestolo che aveva in mano e lo spezzò, un’espressione cupa sul volto sempre bonario e allegro. La voce di sua nipote che cantava sotto la doccia lo risvegliò, il pensiero ostile che aveva ottenebrato il suo viso passò e l’odore di salsa che bruciava lo riportò alla realtà delle cose; lasciò la finestra e corse in cucina.
Nello stesso momento, una tenda al piano superiore nella casa di fronte frusciò leggera.
***
Quella sera suo zio era riuscito a superare sé stesso in quanto a capacità culinarie e le pizze che aveva cucinato erano sublimi. Avevano appena finito ed erano seduti al tavolo in cucina, Cassandra giocherellava con un pezzo crosta che non aveva mangiato e Denis sorseggiava del buon vino rosso, gli occhi chiusi per godersi quel momento di estasi.
– Ho visto che sei passata dal panificio prima di tornare a casa – osservò l’uomo posando il bicchiere vuoto sul tavolo.
– Avevo voglia di mangiare qualcosa di dolce.
– Meno male, credevo tu fossi andata là a fare il tuo solito giro spionistico.
– No, stavolta no – Con la forchetta aveva disegnato una faccia sorridente usando delle gocce di olio. – Liam torna in città per questa settimana.
– Ne sarai contenta.
– Certo – rispose sovrappensiero. – Mi stavo chiedendo, da quanto tempo la casa davanti alla nostra è disabitata?
Denis si era rilassato sulla sedia, le mani incrociate sul pancione rotondo, gli occhi socchiusi. A quella domanda, i suoi occhi porcini si aprirono di scatto e indagarono dubbiosi la nipote. – Perché?
– Sarà un’impressione – alzò la testa e guardò l’uomo, concentrata, – ma ho pochi ricordi dei suoi abitanti. Mi ricordo solo di un’anziana signora. Il fatto è che si trova esattamente davanti alla nostra casa e da camera mia posso vedere tutte le sue finestre, eppure mi sembra di non aver mai visto una luce accesa la sera o di avervi visto qualcuno, negli ultimi anni.
– La sua proprietaria se ne è andata qualche tempo fa; che io sappia non vi è tornato a vivere nessuno da allora e non è stata mai affittata.
– Credo che l’abbiano appena fatto – L’immagine di Feibush che le chiudeva la porta in faccia balenò nella mente della ragazza. – Quando sono tornata, c’era una luce accesa.
Denis si alzò e iniziò a sparecchiare. – Forse sono solo venuti a controllare che tutto fosse in ordine. Si saranno finalmente decisi a venderla oppure, come hai detto tu, hanno intenzione di affittarla. Mi passeresti il tuo piatto, per cortesia? – Suo zio non capiva, l’avevano già affittata. – Mi stavi dicendo che Liam tornerà in città, giusto? Una settimana, hai detto?
– Sì, una settimana. – Gli passò il piatto sporco e si poggiò al mobile della cucina, mentre lui, indossati un paio di guanti di gomma rosa, iniziava a pulire le stoviglie sporche. – Pensavo di andare a trovarlo, non so, magari domani pomeriggio.
– E’ una splendida idea, Cassie. Sono sicuro che gli farà piacere.
– Tu credi? – La vocetta malefica si era fatta padrona della sua bocca. – Non vorrei risultare inopportuna. – Suo zio fece saettare gli occhi nella sua direzione, accigliato. – Sì, insomma, capisci cosa intendo? Sono quattro anni che non ci vediamo e non ci sentiamo, non ho mai chiesto di lui e forse… forse è meglio se non vado.
– Apri bene le orecchie. – Denis la minacciò con una spazzola insaponata che usava per raschiare i residui di cibo più tenaci. – Sono quattro anni che mi fai rimpinzare di dolci, panini e muffin, e ora che ne hai la possibilità, mi stai dicendo che non andrai a trovare il ragazzo che io potrei accusare di aver causato la mia obesità? – Sventolò la spazzola in modo minaccioso. – Tu ci andrai e, soprattutto, tutto andrà alla grande.
– Sì, ma se lui mi chiede come mai non mi sono mai fatta sentire? – Prese il bicchiere e se lo riempì di succo alla pera. – Al posto suo, lo farei.
– Invece, non te lo chiederà – affermò, sicuro. – Non ne avrà ragione.
– Be’, veramente ne avrebbe. – Bevve un sorso di succo.
– No, ci ho già pensato io. – Cassandra si versò un po’ di succo sulla maglietta e per poco non soffocò dallo stupore, ma lui la ignorò. – Cosa credevi? Il signor Branson è nato molto prima di te e ha capito il tuo giochetto da parecchio tempo. Inoltre, ogni volta che andavo là e facevo domande su Liam, lui mi diceva di salutarti da parte sua e che era felice che suo figlio avesse una cara amica che si interessava di lui in modo così delicato e indiscreto. – Guardò la nipote che lo fissava a bocca aperta. – E non guardarmi con quella faccia, hai fatto tutto da sola.
Ripresasi dallo shock iniziale, la ragazza prese uno strofinaccio e cercò di tamponare la macchia di succo. – Oggi, però, quando ero lì, non mi ha dato l’impressione di sapere qualcosa. Effettivamente, neppure tutte le altre volte che ci sono andata.
– E’ un uomo dal cuore d’oro e non ti metterebbe mai in imbarazzo. Gli ricordi suo figlio e sono certo che gli abbia parlato di te ogni volta che ne ha avuto modo. – L’idea che il signor Branson avesse raccontato a Liam il suo sciocco stratagemma per sapere come stava la fece arrossire e vergognare. Avrebbe preferito sapere subito che era stata scoperta, così avrebbe smesso di andare al panificio per passare decine e decine di minuti a scegliere quale dolce prendere oppure quale taglio di pane sarebbe stato il migliore per quello che suo zio avrebbe cucinato quella sera. – Non crucciarti, troppo – disse Denis che aveva notato la sua espressione. – Quel che è fatto, è fatto.
– Avresti potuto dirmelo.
– E precludermi la possibilità di avere dolci a domicilio? – Cassandra lo guardò, oltraggiata. – Non sia mai!
Continuarono a scambiarsi delle battute, l’uno che finiva di pulire la cucina, l’altra che finiva di sparecchiare e spazzare, e la giovialità e la leggerezza dello zio fecero dimenticare a Cassandra le preoccupazioni legate a Liam, la storia della casa davanti, persino Feibush uscì dalla sua testa.
Finito in cucina, Denis si sedette in salotto e disse che avrebbe finito di leggere il libro sui vini, mentre la ragazza se ne andò in camera sua dopo aver dato la buonanotte all’uomo. Indossò un pigiama bianco con piccoli e dolci orsetti sorridenti, prese Re Lear dalla borsa, si rannicchiò sul divano sotto la finestra e, alla luce tenue e rosata dell’abat-jour, si mise a leggere.
Denis si affacciò verso le undici e le consigliò di andare a letto, altrimenti sarebbe stata troppo stanca il giorno successivo. Lei annuì e disse che avrebbe finito il libro, così lo avrebbe potuto portare indietro alla biblioteca. Lo zio scrollò le spalle e andò a letto. Lesse ancora e ancora fin quando, coccolata dalla morbidezza del divano e dei cuscini e sopraffatta dalla stanchezza, ad un’ora imprecisa, si addormentò, la testa poggiata sul davanzale della finestra, le gambe ripiegate e Re Lear aperto sul petto.
***
Il parco era buio come non mai, anche le luci dei lampioni erano insolitamente spente e l’unica fonte di luce proveniva da un lampione rotto ad un angolo della strada che illuminava debolmente e ad intermittenza i dintorni. Bastò quella luce a rendere evidente il profilo indistinto di una creatura che, immensa e silenziosa, passava lì vicino: a prima vista sembrava un cane, ma entrando nel cono di luce si mostrò in tutta la sua mostruosità. Alto due metri e con un manto nero e lucido come la pece, il lupo a due teste alzò i due musi e annusò l’aria, le bocche irte di lunghi denti giallastri aperte per assaporarla in ogni sua particella. Miagolii nel buio proruppero da un punto indistinto, poi il baccano di un bidone divelto lo sostituì, un gatto impaurito corse nel cono di luce; ci fu un movimento fulmineo, il rumore sinistro di ossa rotte, un rantolo.
La testa sinistra della bestia lasciò scivolare dalle proprie fauci insanguinate il corpo spezzato a metà del felino, mentre l’altra guardava indifferente in un’altra direzione; la bestia uscì dal cono di luce e si diresse verso il parco. Si soffermò altre due volte per inspirare l’aria con un rumore roco e sinistro finché non giunse davanti al salice; annusò ancora, girò intorno all’albero ed entrò sotto la sua campana di foglie. Osservò il tronco, lo ispezionò e poi strappò l’edera con i denti e sgraffiò la corteccia con un solo movimento della zampa, lasciandovi tre enormi solchi. Attese e le due teste ghignarono davanti allo spettacolo che si andò manifestando davanti ai loro occhi: piano piano un nero marciume si andò diffondendo sul tronco dai tre graffi che brillavano rossi, salì verso la chioma e scese verso le radici, e lentamente il possente salice morì, i suoi rami cadenti si rattrappirono, le foglie ingrigirono e caddero.
Il lupo bicefalo uscì da sotto la campana di rami ormai morti, alzò nuovamente le teste al cielo e annusò. L’aria era carica di una miriade di odori: l’odore dolciastro di marciume, quello salato di terra bagnata, quello acre di benzina, quello invitante di carne mortale, e poi c’era un odore peculiare, un odore che solo i suoi nasi potevano percepire, un odore che prima era solo minimamente percepibile nell’aria ma che andava crescendo e aumentando di intensità. Aprì gli occhi e la poté vedere: dorata e finissima, arrivava da tutti i punti della città e andava a depositarsi ovunque. Ambrosia.
Il lupo aveva la bava alla bocca, gli occhi rossi saettavano frenetici ovunque, i suoi sensi elettrizzati da tutta quell’ambrosia che, leggiadra e sottile, stava ricoprendo tutta la città. Trattenendosi dall’ululare dall’eccitazione, le due teste si concentrarono e notarono che l’ambrosia confluiva verso un punto preciso della cittadina; la bestia si mise a seguire quella traccia leggera, ignorando due cani randagi che, tremanti, si erano rannicchiati in un angolo ombroso, speranzosi di non essere visti. Si fermò davanti ad una casa che sembrava una comune casa umana, se non fosse stato per l’enorme quantitativo di polvere dorata che si era depositata sul suo tetto e che aveva aderito alle sue pareti.
Le due teste si guardarono attorno e notarono che una luce fioca era accesa nella casa a fronte. C’era la possibilità di essere visti da un mortale, ma la bestia se ne disinteressò: se qualcuno avesse ficcato il naso, avrebbe avuto un pretesto per saziare la sua fame. Il lupo chiuse gli occhi e si concentrò: le due teste iniziarono a staccarsi fra loro, il corpo era scosso da sussulti e si stava liquefacendo, sembrava catrame. Con un guaito, si spezzò a metà e rimase così per pochi istanti in uno spettacolo macabro, le due metà del corpo in bilico su un paio di zampe ciascuno; la pelle iniziò poi a bollire e alle due gambe che ogni metà del corpo già aveva se ne aggiunsero altre due, e anche una coda. A processo finito, due lupi immensi si guardarono e digrignarono i denti in un ghigno che sembrava quasi umano.
Silenzioso, il primo dei due aprì il cancello col muso, salì i gradini e arrivato davanti alla porta, guardò prima la serratura con attenzione e poi si osservò la zampa destra. La zampa parve diventare liquida, perse la sua conformazione usuale e assunse una forma appuntita. L’animale l’avvicinò alla serratura, la punta vi entrò senza problemi e anche il resto della zampa, che si adattò senza problemi come plastica liquida. Pochi istanti e la serratura scattò. Il lupo fece segno al compagno ed entrarono.
L’ambrosia aveva visto giusto: da fuori l’edificio sembrava una comunissima casa, ma all’interno mostrava la sua vera natura. Appena entrati, i lupi si ritrovarono in un atrio immenso, l’intero ambiente era immerso in una penombra grigia e nera e l’unica luce penetrava dalla coppia di alte bifore incrostate che affiancavano l’immenso portone in legno scuro. Nonostante questo, gli occhi sensibili delle due bestie notarono che fra le varie nicchie che si aprivano nei muri, apparivano delle porte che davano su quell’immenso ingresso e, silenziosi e discreti, diedero un’occhiata veloce dentro ognuna di esse: scoprirono una biblioteca, un salone con un immenso tavolo e una cucina adiacente, una stanza completamente vuota; sulla loro destra c’era anche un lungo corridoio con varie altre porte che vi si affacciavano.
Si concentrarono su quest’ultimo e finalmente i loro orecchi dall’udito finissimo sentirono quello che avevano sperato: il suono di respiri stava ad indicare che oltre quelle porte c’erano parecchie persone addormentate, ed era esattamente per loro che i lupi erano lì.
Come fulminato, il secondo dei due si immobilizzò davanti ad un uscio, rizzò le orecchie, inspirò rumorosamente e i suoi occhi guizzarono famelici in quelli del compagno che si avvicinò e, come aveva fatto prima, aprì la porta. Era una camera: una luce debole entrava da una piccola finestrella quadrata, incrostata, e permetteva di distinguere i mobili che adornavano quella stanza: un armadio con motivi floreali, una cassapanca con i medesimi motivi e un letto molto particolare: era fatto con dei rami intrecciati e sopra di esso, tesa fra quattro grandi rami che salivano a coppia dalla testata e dal fondo, c’era una tela bianca con sopra ricamata una luna crescente. Fra le leggere lenzuola bianche, qualcuno si mosse e gli occhi rossi dei lupi brillarono, malevoli. Quello che si era fermato davanti alla porta, si fece avanti fremente, mentre l’altro lo osservava, ugualmente smanioso.
Il muso era a pochi centimetri dalla testa della preda quando vi fu un guizzò e il lupo proruppe in un uggiolio dolorante; indietreggiò, la coda fra le gambe, scuoteva l’enorme testa a destra e a sinistra, senza sosta, come infastidito da una mosca. Gocce di sangue scuro e denso cadevano ad ogni suo movimento; una freccia era stata piantata nell’occhio sinistro e la punta aguzza spuntava da dietro la nuca.
Dal letto si era alzata una figura esile e ansante che aveva afferrato, fulminea qualcosa da sotto il materasso: un arco. Incoccò una freccia dalla faretra appesa alla testata del letto e prese la mira: il lupo ferito la guardò folle e tentò un ultimo disperato assalto. Un sibilo e la freccia si piantò nel petto della bestia che stramazzò a terra, il respiro rauco, la bocca gorgogliante di schiuma e sangue.
Il compagno era indietreggiato nel corridoio e quando vide l’esile figura inforcare un’altra freccia e puntarla nella sua direzione, decise di darsi alla fuga ma si ritrovò la strada sbarrata. L’ululato di dolore e il tumulto generale avevano svegliato gli altri abitanti del luogo e ora erano tutti lì, attorno a lui. I suoi occhi rossi e irosi non riuscivano a distinguere i loro visi in penombra, ma potevano vedere senza problemi il baluginare di varie armi.
– Chi ti manda? – domandò una voce profonda alle sue spalle.
Il lupo non rispose, i suoi occhi saettavano in tutte le direzioni alla ricerca di una via di fuga.
– Evidentemente è duro d’orecchi – gli fece eco un’altra voce maschile, sprezzante.
La figura armata di arco comparve sulla porta, la freccia incoccata puntata alla testa del lupo. – Rispondi, o farai la fine di tuo fratello.
– Uccidendomi di certo non fareste il vostro interesse – L’animale si leccò le labbra e digrignò i denti. La sua voce era rauca e aspra. – Non credo siate così sciocchi.
– Da quando in qua il nostro interesse ti sta così a cuore? – gli domandò la voce sprezzante. – A proposito, ce l’hai un cuore?
– Lo sapete perfettamente – Aveva fatto scattare i denti come una tagliola, infastidito. – Potrei esservi utile.
– Sì, mi hai letto nel pensiero: avrei proprio bisogno di una nuova pelliccia per il prossimo inverno. – La voce del ragazzo era calma e irriverente come se stesse scherzando con un lontano amico. – Ti prego, rendi meno scenica la tua fine e dicci l’unica cosa che vogliamo sapere: chi è il tuo committente?
Il lupo fissò una a una le figure scure che lo circondavano e ghignò. – Piuttosto la morte.
Un sospiro. – Peccato.
Fu un attimo: il lupo scattò in avanti e molteplici armi trapassarono l’enorme bestia che riempiva tutto il corridoio con la sua mole. Qualcuno esultò, ma non vi fu alcun guaito, alcun stramazzo al suolo, neppure una goccia di sangue: infatti, il corpo del lupo iniziò a ribollire, pezzi di carne nera infilzati da armi di vario tipo caddero a terra e iniziarono a gonfiarsi, facendo cadere le armi affilate che li trapassavano. In brevissimo tempo, una decina di copie più piccole del lupo originale fissavano sghignazzanti i presenti. La voce sprezzante imprecò e si avventò sul primo lupo che trovò, seguito dalle altre figure.
La colluttazione durò una decina di minuti e, alla fine, del lupo non rimanevano che delle chiazze scure per terra e sui muri. Le figure si guardarono fra loro, affannate. Una risata malvagia riecheggiò alle loro spalle, tutti si voltarono e videro un minuscolo gatto nero con gli occhi di bragia nell’atrio, illuminato dal fascio di luce tenue che entrava dalla porta lasciata aperta. Era l’alba.
Un’altra imprecazione, qualcosa di argenteo guizzò nell’aria verso l’animale, il gatto sparì ridacchiando fuori dalla porta, un coltello tintinnò sul marmo scuro proprio nel punto in cui l’animale era stato fino ad un istante prima.
– Maledizione – sibilò la voce sprezzante e nella penombra tutte le figure lo guardarono, preoccupate.
***
Cassandra si svegliò di colpo.
Era sudatissima, il pigiama le aderiva al corpo in modo soffocante, i capelli formavano una rete sottile sul suo viso, il respiro era affannato. Si mise lentamente a sedere sul divano, togliendosi i capelli di faccia, e si guardò attorno.
La luce del sole entrava tenue dalla finestra e immergeva la stanza in una luce pescata, la sveglia segnava le sette e un quarto, l’abat-jour era rimasta accesa dalla sera prima, il letto era intatto. Guardò a terra e vide Re Lear spuntare da sotto il divano. Lo raccolse e lo posò accanto a sé.
Si passò una mano sul viso. Aveva fatto un incubo orrendo, ma ora che si era svegliata i particolari le sfuggivano: c’era una specie di cane a due teste, una strana abitazione, tetra e cupa; e poi sangue, rabbia, armi e infine un senso di crudele soddisfazione. Sfregò gli occhi: e dire che la sera prima non aveva mangiato pesante.
Il cinguettio dei passerotti giungeva allegro dall’esterno. Si volse a guardare fuori dalla finestra: il cielo era una mistura di rosa, arancio, verde e azzurro, le nuvole sfilacciate dal vento transitavano pigre su quella tela delicata, le strisce degli aerei apparivano scolorite qua e là. Lo sguardo di Cassandra vagò leggermente addormentato dal cielo alla strada sottostante, indugiò per un attimo sulla porta della casa di fronte e poi passò oltre.
Dato che ormai era sveglia e non aveva alcuna voglia di rimettersi a dormire, concluse che era meglio mettersi in movimento. Avrebbe fatto una scappata alla biblioteca storica che, nonostante l’apertura fosse attorno alle nove, aveva messo a disposizione un’enorme cassetta della posta verde nel quale gli utenti potevano lasciare i libri che dovevano restituire. Le bibliotecarie avrebbero poi pensato a prelevarli e ad inviare tramite e-mail una ricevuta di consegna.
Passò in bagno per una sciacquata veloce, si vestì e poi andò in cucina dove fece colazione con un bicchiere di latte fresco e una banana; più tardi si sarebbe fermata a prendere un caffè da qualche parte.
Uscì di casa silenziosamente e aprì il lucchetto della bicicletta. Mentre si chiudeva alle spalle il cancello, notò una polvere finissima e brillante che ricopriva il sellino. Ne prese un po’ sulle dita e l’avvicinò al viso per capire cos’era: sembrava sabbia e aveva dei bei riflessi dorati. La strofinò fra le dita e scoprì che non era granulosa e ruvida, ma setosa come la farina. Il naso iniziò a pizzicarle e starnutì. Doveva essere una qualche sorta di polline, si convinse; il che era strano visto che erano in autunno inoltrato, un autunno molto caldo, ma non così caldo da far saltare alle piante il periodo di riposo per tornare automaticamente a quello dell’impollinazione.
Spolverò via tutta la polvere lasciandosi sfuggire altre due starnuti e partì alla volta della biblioteca che si trovava dall’altra parte di Bedville. La maggior parte delle case aveva ancora le finestre chiuse e le luci spente, ma le strade erano già trafficate da persone che lavoravano fuori città. Arrivò alla biblioteca in dieci minuti, lasciò il libro e poi si diresse all’Eagle’s Eye per un caffè.
Era un bar piccolo ma pittoresco il cui proprietario, di origini italiane, aveva tappezzato il locale di foto di Roma, la sua città natale. Parlava con un accento divertente e spesso intercalava l’inglese all’italiano.
Appena entrata, Cassandra fu investita dal calore dei locali e dall’odore di caffè. C’erano altre due persone che stavano facendo colazione, leggendo il giornale.
Il signor Rostagno si volse a guardare chi era entrato e un sorriso brillante apparve sul faccione rosso. – La bella Cassandra! Il solito mocaccino?
– Sì, grazie. – Si sedette su una delle alte sedie. Era straordinario, ma si ricordava i caffè preferiti di tutti i suoi clienti. Oppure era semplicemente una deformazione professionale.
Le due persone sedute accanto a lei stavano parlando, tetre.
– E’ un vero peccato – disse uno. Era un uomo sui cinquant’anni con calvizie incipienti e occhi acquosi. – Era il simbolo della città.
– Credi che lo toglieranno? – L’interlocutrice era una donna più giovane con un corto caschetto di capelli grigio metallico e un lungo naso adunco.
– Devono toglierlo. Per quanto sia sempre stato parte integrante del parco, non possono lasciarlo lì. Marcirebbe e rischierebbe di far ammalare tutti gli alberi attorno. Per non parlare dell’estetica, completamente rovinata.
Chissà di cosa stavano parlando, pensò la ragazza. L’unione del caffè e del cioccolato del suo mocaccino la occuparono per il restante tempo e la svegliarono completamente, dandole la carica necessaria per quella nuova giornata iniziata così presto.
Godutasi sino in fondo il calore piacevole del mocaccino e il sapore amaro del caffè unito al cioccolato, pagò il conto e salutò il signor Rostagno che gli sorrise, allegro.
Inforcò la bici e si diresse a scuola, decidendo sul momento di fare il giro più lungo dato che era in largo, larghissimo anticipo. Sovrappensiero pedalò tranquilla e passò davanti al parco, quando vide una piccola folla riunita all’imboccatura della strada pedonale e ciclabile che aveva percorso il giorno prima, a corsa. Incuriosita, vide la madre di Esther fra i presenti e decise di fermarsi per sentire cosa fosse successo.
Frenò e si fermò proprio accanto alla donna che, stretta in un cardigan giallo di lana, si volse a guardarla, il viso intristito. – Buongiorno, signora Evans.
– Buongiorno Cassandra. – Si strinse ancora di più nel cardigan come se avesse molto freddo. – Hai saputo la notizia?
– Quale notizia?
– Il salice. È morto. – Indicò con la testa l’albero al centro del parco. Rattrappito, i rami neri e spogli, l’imponente signore del Bedville Park se ne stava lì, silenzioso e triste. Ora capiva di cosa parlavano i due signori all’Eagle’s Eye.
– Com’è possibile? – domandò la ragazza, incredula. – Ieri stava benissimo, l’ho visto con i miei occhi.
– Sono solo ipotesi, ma potrebbe essere un’infestazione di qualche parassita o di un fungo. Sai, con questo clima insolito, troppo caldo ed umido, non ci sarebbe da stupirsene.
– Non è recuperabile in alcun modo? – Non poteva crederci, non voleva crederci. Quell’albero era l’emblema della sua infanzia, ma anche di tutta Bedville.
La signora Evans scosse il capo. – No, assolutamente. Le radici sono andate. Il sindacato ha già disposto il suo abbattimento.
Cassandra rimase lì, impotente come gli altri, a guardare quell’enorme pianta, che fino al giorno prima aveva come vegliato sull’intero parco con la sua ombra rassicurante, stagliarsi scheletrica contro il cielo. Le persone vicino a lei parlottavano a voce bassa come in casa di un morto.
Arrivò a scuola circa cinque minuti prima dell’inizio delle lezioni. Nonostante avesse avuto la possibilità di arrivare molto prima, era rimasta, come altri assieme a lei, a fissare, quasi vegliare, il salice del parco, ben sapendo che al prossimo passaggio la sua figura ormai familiare non l’avrebbe più rassicurata.
L’inizio per nulla positivo di quella giornata la rese ancora più apatica: quella mattina rispose in malo modo a quasi tutti coloro che le rivolsero la parola, compreso il professore di matematica che, malevolmente contento, colse l’occasione e le mise un bel cinque. Fumante di rabbia, nell’ora di educazione motoria corse davanti a tutti per scaricare la sua energia negativa e mise un po’ troppa forza nel lancio della palla medica, colpendo un innocente compagno di classe e causandogli un taglio al sopracciglio; passò l’ora di storia a scarabocchiare ai bordi della pagina del libro, le due di latino a braccia conserte e nel laboratorio di scienze appiccò il fuoco alla propria giacca che aveva maldestramente appoggiato sul tavolo degli strumenti.
Dopo essere stata sgridata dalla professoressa di biologia e punita per la sua disattenzione con l’obbligo di ripulire tutti i tavoli dopo la fine della lezione, uscì dalla scuola semivuota con mezz’ora di ritardo rispetto al suono dell’ultima campanella: puzzava di alcol, i suoi capelli erano leggermente bruciacchiati sulle punte e aveva una striscia nerastra sulla guancia destra.
Si diresse torva alla rastrelliera delle biciclette e quando vide Feibush, appoggiato al muro che giocherellava con il suo anello dorato, per poco non bestemmiò. Fra le tante giornate schifose che aveva vissuto, quella aveva già raggiunto il top del top, e di certo Feibush non avrebbe aiutato a renderla migliore. Girò sui tacchi, pronta a tornare a casa a piedi.
– Non stai dimenticando qualcosa?
– Preferisco camminare – rispose lei, senza voltarsi. In realtà sarebbe voluta tornare a casa il prima possibile per farsi una doccia e togliersi quell’odore di alcol di dosso, e quindi desiderava ardentemente la sua bicicletta, ma camminare le avrebbe fatto bene, si disse.
Feibush la raggiunse. – Sono qua solo per riferirti un messaggio. – Le sue sopracciglia si inarcarono stupite nel vedere lo stato in cui versava. – Però, bella cera.
– Da parte di chi?
– Tuo zio, credo. Mi ha detto di dirti che è arrivato.
– Mio zio?
Fece spallucce. – Ti aspettava all’uscita e visto che non arrivavi più, mi ha lasciato detto questo.
– E fra tutte le persone a cui avrebbe potuto lasciare questo messaggio, proprio a te, uno sconosciuto? – Lo guardò, insospettita.
– Veramente, ci siamo conosciuti stamattina – Lei continuò a guardalo, dubbiosa. – Se non ricordo male, viviamo uno di fronte all’altra. – Cassandra ignorò l’espressione impudente che Feibush le rivolse e ritornò indietro, verso la bicicletta. Era ufficiale: doveva tornare a casa il più velocemente possibile.
– Tuo zio è tornato da qualche viaggio?
– No – Suo zio odiava viaggiare. – Mette difficilmente piede fuori da Bedville.
– Interessante.
Liberata la bicicletta dalla rastrelliera, Cassandra si voltò per chiedere al ragazzo cosa fosse interessante, ma questi era sparito. Montò sulla bici e si rammentò di non fargliela passare liscia la prossima volta che le avesse dato della maleducata.
***
Cassandra suonò il campanello di casa Branson con nervosismo.
Tornata da scuola, si era fatta una bella doccia e asciugata i capelli con cura. Aveva poi passato le due ore successive a decidere come vestirsi, cosa che solitamente non avveniva vista la sua propensione a indossare abiti scompagnati. Per quelle due ore aveva desiderato avere un guardaroba un po’ più femminile, il che era nuovo per lei, amante dei jeans e nemica delle gonne com’era. Alla fine aveva optato per un morbido maglione in angora e un classico paio di jeans.
Aveva persino tentato di truccarsi.
Cosa stai cercando di fare?, le era stato chiesto, mentre tentava di applicare dell’eyeliner.
– E’ evidente – aveva risposto automaticamente, nonostante le sue varie promesse di non dare filo a quella sua pazzia galoppante. – Tento di truccarmi.
Che è un tentativo lo noto. Tutto questo per il figlio del panettiere?
– E’ un mio caro amico.
Certo, e io ho scritto scema sulla fronte. Fammi indovinare: ti piace.
– Ovvio che no – aveva detto Cassandra, contemplando il pastrocchio che era riuscita a ottenere e concludendo che sarebbe stato meglio andare struccata.
Bell’occhio nero, non c’è che dire. Peccato non ti possa aiutare con l’altro, lo farei volentieri.
– Sempre gentile, vero?
Ti odio, lo sai.
– Anch’io, e ora fammi il piacere di stare zitta – aveva replicato la ragazza, uscendo dal bagno e dirigendosi al piano di sopra, pronta per uscire. La voce aveva ubbidito ed era scomparsa.
Non c’era voluto molto per arrivare a casa Branson e lei si ricordava perfettamente la strada. Era una bella casa in stile georgiano con le pareti esterne in mattoni rossi, un bel portico, le finestre regolari con infissi bianchi come la grande porta con un batacchio dorato. Era stata lì solo altre due volte e nulla sembrava cambiato se non il rampicante che adornava una parte della facciata, più grande ed esteso di quanto ricordasse.
A rispondere fu una voce maschile. – Sì?
– Ehm, sono Cassandra. Cassandra Bright.
– Bright! – La voce tonante risuonò emozionata in tutta la strada e la porta d’ingresso si aprì ancora prima del cancello. Sulla soglia comparve statuario, Liam Branson. La ragazza lo salutò con una mano, imbarazzata. Era cambiato: cresciuto d’altezza, ora sfiorava il metro e novanta, le sue spalle si era fatte più larghe e le braccia che uscivano da sotto le maniche rimboccate di una maglietta verde scuro erano muscolose. Per sua fortuna, aveva fatto ricrescere i capelli che ora ricadevano, lisci e scompigliati, attorno ad un viso sorridente e radioso. Notò che le fossette erano sempre lì.
– Liam. – Lo salutò nuovamente una volta giunta sotto il portico e rimase lì, leggermente imbarazzata.
– Cassandra! Dio, quanto tempo è passato. Entra, dai. Ho appena fatto i muffin. – Per lo meno in quello non era cambiato: Liam era un cuoco provetto come il padre e amava preparare dolci. Soprattutto i muffin, i preferiti di Cassandra. Le prese il cappotto e lo appese all’appendiabiti. – Vado un attimo in cucina a tirarli fuori dal forno prima che brucino. Accomodati pure in salotto.
Seguendo più il suo istinto che la sua memoria, trovò il soggiorno e si andò a sedere sul divano color crema. Nel caminetto scoppiettava allegro un fuoco che emanava un caldo gradevole e confortante.
Liam arrivò con un vassoio in cui aveva messo dei muffin alle gocce di cioccolato spolverati di zucchero a velo. Li posò sul tavolino davanti al divano e si andò a sedere sulla poltrona lì vicino. Rivolse un ampio sorriso a Cassandra. – Prendi pure e non fare complimenti.
Aveva lo stomaco chiuso e avrebbe preferito qualcosa da bere piuttosto che da mangiare, ma non volle essere scortese. – Grazie.
– I muffin sono i tuoi preferiti, giusto? – Lei annuì mentre masticava. – Papà mi ha detto che ieri sei passata da lui e ne hai comprato uno. Così mi sono ricordato che erano i tuoi preferiti.
Cassandra sorrise, le guance gonfie di muffin.
– Da quanto tempo non ci vedevamo?
Lei deglutì. – Quattro anni.
– Quattro anni. – Ripeté e si strofinò le mani, lo sguardo perso a fissare le fiamme nel camino. – Com’è andata qua, a Bedville? Novità interessanti? Sai, mio padre non faceva che raccontarmi di come tutto fosse tranquillo e normale e semplice e molto… Bedville, insomma. Per esempio, che mi dici della vecchia Demelza?
Cassandra si fece scappare un risolino. La vecchia Demelza era una delle tante anziane signore che abitavano in città, una di quelle che vivono in una grande casa con tanti gatti e molti centrini e pizzi dispersi per la casa. Loro, però, la ricordavano come la signora a cui durante l’estate rubavano le albicocche del suo albero che sconfinava nel campo adiacente. Quando la donna li beccava in flagranza di reato e li rincorreva goffamente minacciandoli con una teiera, loro fuggivano ridendo con le tasche piene di frutti per andarsi a rifugiare in qualche fienile vuoto, dove si dividevano il malloppo. – E’ sempre là, con le sue teiere.
– E con tutti i suoi Pallino, Tippy e Duchessa – osservò lui facendo riferimento ai gatti di Demelza. – Cavoli, quanto mi mancano quei tempi.
– Anche a me. E tu? Cosa porti da Broken City?
Il suo viso si rabbuiò un poco. – Nulla di che. Le grandi città sono tutte uguali: caotiche, sporche e dispersive. Broken City non è una grande città, ma è comunque dispersiva, sporca e caotica come una metropoli, il che è anche peggio visto che è tutto concentrato in uno spazio più piccolo.
La ragazza lo guardò con attenzione. Suo padre aveva sempre detto che si trovava benissimo nella nuova città, che gli piaceva e ora gli confessava questo. Forse aveva raccontato una bugia al padre per evitare di dargli dei dispiaceri.
– La scuola mi piace e con il lavoro che faccio ci guadagno abbastanza da vivere senza dover gravare su mio padre e mia madre – proseguì. – Questi sono i soli lati positivi di quest’avventura fuori porta. Non nego di avere degli amici laggiù, a differenza di qua, e non voglio dire che non mi diverto, non sarei onesto. È solo che talvolta mi sento un po’ come un pesce fuor d’acqua e, nonostante tutto, Bedville mi manca. – Guardò Cassandra negli occhi. – Patetico, vero?
Lei scosse il capo. – No, perché mai? È normale che ti manchi Bedville, in fin dei conti è dove sei cresciuto e dove hai lasciato la tua famiglia. Non c’è nulla di patetico in questo.
Lui le sorrise. – E di te, cosa mi dici?
– Le solite cose. – Giocherellò con l’orlo del maglione rosa cipria che indossava. – Mio zio è ingrassato di dieci chili, quest’estate ho lavorato alla biblioteca e lo scorso anno mi sono rotta una gamba.
– Se la normalità è rompersi una gamba, be’, tuo zio dovrebbe stare molto più attento a quello che fai.
– E’ stato un incidente sciocco, sono caduta da un albero.
Lui inarcò un sopracciglio. – Un albero? E cosa ci facevi su un albero?
– Stavo recuperando un pallone di alcuni bambini, giù al parco. – Lui la fissava, divertito. – Che dovevo fare? Erano disperati e me lo hanno chiesto quasi in ginocchio. Non potevo dire di no.
– Certo. – Si stava trattenendo dal ridere. – Tu, che ti arrampichi su un albero. Ripeto: quanto mi manca Bedville. – E scoppiò a ridere davanti all’espressione contrariata di Cassandra che si fece contagiare dalle sue risate.
Parlarono un altro po’ della gente di Bedville, di quello che non era cambiato e di quello che sarebbe dovuto cambiare, mangiando i muffin di Liam e sorseggiando dell’aranciata che era andato a prendere in cucina. Era da tempo che la ragazza non passava un pomeriggio come quello e si rese conto che la vocetta malvagia aveva avuto torto: era come se lei e Liam si fossero visti per l’ultima volta la scorsa settimana. Nulla sembrava essere cambiato.
Verso le sei e mezzo decise che era ora di rientrare. Uscendo sul portico notò che nuvole cupe coprivano le stelle e un vento freddo soffiava da nord.
– Mi ha fatto piacere vederti – disse Liam.
– Anche a me.
Si passò una mano fra i capelli castano scuro, lo sguardo basso. Per chissà quale motivo, nella testa di Cassandra apparve la faccia strafottente di Feibush. – Domani pomeriggio sei libera?
– Sì, credo di sì.
– Che ne dici di un caffè? Potremmo andare al parco e così potresti farmi vedere l’albero da cui sei caduta. – Gli sorrise. Liam riusciva ad essere piacevole anche quando scherzava.
– Va bene.
– A domani, allora.
Cassandra uscì dal cancello e lo chiuse. – A domani.
Si allontanò tranquilla, sentendo la porta di casa Branson chiudersi dietro di lei. Aveva fatto bene ad andare a trovarlo perché aveva passato un pomeriggio gradevole e aveva ritrovato una persona a lei cara. Sulla strada del ritorno incontrò il signor Branson che la salutò e le chiese se fosse tutto a posto. Le domandò anche se fosse andata a trovare Liam e quando gli rispose positivamente, l’uomo si illuminò, felice come una pasqua, e la salutò allegro, lasciandosi dietro una scia di odore di pane caldo.
Ti rendi conto che spera in un matrimonio fra te e suo figlio?
– Ma fammi il favore – commentò la ragazza a voce alta, un lieve sorriso sulle labbra.
La cosa che più mi disgusta è che l’idea non ti dispiace.
Non aveva mai pensato a Liam in quel senso e non era assolutamente vero quello che la voce insinuava; aveva sempre visto il ragazzo come un amico, quasi un fratello e non vedeva il perché avrebbe dovuto cambiare opinione proprio dopo quell’incontro.
Perché lo trovi bello, ecco perché.
– Come dovrei trovarlo? Brutto e antipatico?
E’ un pappamolla, disse la voce. E cucina.
– Fammi indovinare – sussurrò la ragazza, inviperita. – Il tuo ragazzo ideale sarebbe uno stronzetto senza ritegno, troppo innamorato di sé per poterti anche solo apprezzare, pronto a infrangerti il cuore alla prima occasione. Se tu fossi una persona, sono sicura che apprezzeresti quel cafone idiota di Feibush che…
Non finì la frase. Fu come se le avessero dato uno schiaffo: un dolore bruciante si diffuse all’altezza dello zigomo sinistro e una fitta le attraversò la testa. La voce sibilò velenosa e scomparve. Cassandra si passò una mano sulla guancia e proseguì, preoccupata. Non era mai successo nulla di tutto ciò in vita sua e si domandò cosa fosse realmente successo – si era data uno schiaffo da sola senza rendersene conto oppure una corrente di aria gelida aveva sferzato il suo viso fino a provocarle quel bruciore? Entrambe le alternative le sembravano piuttosto inverosimili, e quale fosse stato il fattore scatenante, l’essersi presa semplicemente gioco della voce o l’aver nominato Feibush? Archiviò quelle domande per il prossimo scontro con quella presenza folle.
Cassandra imboccò la strada di casa con passò leggero. Vide che le luci in casa erano spente e questo significava che suo zio era ancora all’enoteca. Lanciò un’occhiata veloce anche alla casa di Feibush e vide che anche lì non c’era neppure una luce accesa.
Entrò nel cancello e cercò le chiavi nella borsa, ma quando alzò lo sguardo, il panico le chiuse lo stomaco. La porta era accostata. Si guardò velocemente attorno e vide che la bici di suo zio non c’era. Non poteva essere lui.
Lasciò andare le chiavi nella borsa, deglutì e spinse la porta per entrare. Si aspettava di vedere tutto messo a soqquadro e invece tutto appariva completamente in ordine, come lo aveva lasciato lei prima di uscire. Controllò la porta per vedere se era stata forzata, ma non c’era alcun segno di effrazione. Eppure era sicura di averla chiusa prima di uscire.
Silenziosa, andò in cucina, aprì il cassetto dei coltelli e prese una mannaia. Avrebbe dovuto chiamare la polizia, lo sapeva, ma l’adrenalina stava avendo la meglio sulla sua razionalità.
Lasciò la borsa sul divano e con il passo più silenzioso che potesse avere, salì le scale. Poteva sentire il suo cuore batterle in gola, lo scricchiolare debole delle scale sotto i suoi piedi e il suo respiro accelerato.
La porta della sua camera era aperta. Diede un’occhiata veloce e vide che, a parte l’usuale disordine che lasciava, non c’era nulla fuori posto, neppure il computer portatile che aveva lasciato sul letto. Iniziò a convincersi che forse aveva chiuso male la porta e questa si era aperta da sola.
Indipendentemente dalle sue convinzioni, proseguì l’ispezione nel bagno dove tutto era a posto. Quando uscì, quasi completamente convinta che non ci fosse nessuno, si voltò verso la porta della camera di suo zio e un brivido la percorse: la porta era chiusa. Lei non l’aveva chiusa e Denis la lasciava sempre aperta perché, per qualche ragione a lei sconosciuta, odiava i corridoi con le porte chiuse a tal punto che lei doveva studiare e dormire con la porta spalancata.
Cassandra strinse il manico della mannaia e posò la mano sudata sulla maniglia di camera sua. Il suo cervello stava analizzando i possibili scenari che potevano prospettarsi oltre quella porta: ladri in procinto di svuotare i cassetti, la finestra aperta e la stanza in subbuglio, suo zio che dormiva placidamente e a cui sarebbe venuto un infarto nel vederla entrare con un coltello oppure la stanza vuota e ordinata.
Deglutì e aprì di scattò la porta facendola sbattere contro il muro. La stanza le apparve in tutta la sua normalità e perfezione, come suo zio era solita lasciarla, e lei si lasciò andare in un sospiro di sollievo. Abbassò la mannaia ed entrò. Era entrata poche volte in quella stanza, ma i muri color carta da zucchero con rifiniture bianche in alto la facevano sembrare quasi una grotta, un “covo” che suo zio aveva arredato con un letto, un comò, una cassettiera e una bella scrivania. Poteva sembrare spartana se non fosse stato per il piumone riccamente rifinito che copriva il materasso, il lampadario elaborato che pendeva dal soffitto, uno strano bastone dorato sormontato da una pigna e decorato con foglie di vite appoggiato vicino alla porta, e dei vasi di cristallo adagiati sulla cassettiera.
La ragazza stava osservando proprio questi ultimi quando una sensazione sgradevole la indusse a voltarsi e ciò che si trovò a fronteggiare era molto, ma molto peggio di tutti i possibili scenari apocalittici che la sua mente avesse mai elaborato.
Era rimasto rannicchiato sotto la scrivania per tutto quel tempo e poi il lupo era sgusciato fuori, enorme e mostruoso, ergendosi al centro della stanza e puntando i suoi occhi rossi sull’unico altro essere vivente in quella casa. Non era lei che stava aspettando, ma sarebbe andata comunque bene.
Il lupo saltò sul letto facendolo scricchiolare sotto il suo peso notevole e si leccò i baffi, ringhiando sommessamente.
Cassandra era sbiancata. In un recesso della sua mente paralizzata dalla paura, si rese conto che quella era la bestia mostruosa del sogno, solo che non aveva due teste. Comunque, questo non la rendeva meno spaventosa.
In uno scatto rapidissimo, il lupo tentò di avventarsi su di lei ma, spinta dall’istinto primordiale di sopravvivenza, si spostò di lato, la bocca aperta in un urlo senza rumore, e l’animale andò a sbattere contro la cassettiera, facendo cadere tutti i bei vasi.
Confusa dalla paura, Cassandra si era dimenticata della mannaia e quando stringendo le mani in una morsa terrorizzata sentì il legno intarsiato del manico rinfrancarla con la sua solidità, in un attimo agì: si avventò sulla testa del lupo stordito e iniziò a colpirlo all’altezza del collo. Sentì uno schizzo caldo sulla guancia: sangue corposo e scuro le macchiò le mani, le impregnò i vestiti e le scarpe. Quello che stava facendo era orribile e abominevole, ma la bestia che aveva davanti lo era allo stesso modo e, soprattutto, la sua mente continuava a ripetere: o te o lui, o te o lui, o te o lui, o te o lui, o te o lui.
Il lupo lanciò un ululato di dolore e cercò di morderle una gamba e lei, per sfuggirgli, fece qualche passo indietro, inciampò e cadde. La mannaia le sfuggì di mano e volò lontano, sotto il letto; indietreggiò fino a sentire dietro di sé la porta, intanto che il lupo scuoteva la testa e si rimetteva in piedi, tremante. Disperata e con le spalle al muro, Cassandra si guardò attorno e mentre la creatura si girava verso di lei, prese lo strano bastone dello zio. Non era propriamente un’arma, ma in quel momento qualsiasi cosa le sarebbe parsa tale.
L’animale ringhiò infastidito, enormi gocce di sangue cadevano dalle ferite che aveva sul collo, il pelo raggrumato e scuro. Si erse in tutta la sua mole e la sovrastò prima di avventarsi su di lei. Cassandra chiuse gli occhi e affondò il bastone alla cieca proprio mentre l’animale si avventava su di lei.
Il lupo guaì e si ritrasse. L’idea della ragazza era stata quella di infilargli il bastone in bocca, preferibilmente nel palato molle, ma avendo chiuso gli occhi aveva mancato il bersaglio e aveva infilato il bastone nell’occhio sinistro dell’animale. Quest’ultimo stava scuotendo freneticamente la testa sia per il dolore che per liberarsi del bastone, affondato abbastanza da accecarlo, ma non abbastanza da trapassargli la testa da parte a parte.
Cassandra lo fissò per alcuni istanti e, resasi conto di avere via libera, si alzò e corse fuori dalla stanza, verso le scale. L’animale si liberò del bastone con un ultimo scossone e con un balzo colpì la ragazza alle spalle. Lei cadde in avanti, battendo la testa sul primo gradino delle scale; il lupo le addentò un polpaccio, i denti affilati e grossi entrarono nella carne morbida della ragazza e questa urlò così forte che sentì un fiotto di sangue in gola. Era dolore puro quello che stava provando, un dolore senza paragone e uguali, un dolore che le perforò la mente, le mozzò il fiato, le appannò la vista.
Il lupo mantenne salda la presa e la tirò leggermente verso di sé. Lasciò la gamba per un attimo, il petto ansante, la bocca aperta con la lingua penzoloni da una parte e i denti gialli coronati di rosso. I suoi occhi erano folli, i suoi sensi in estasi per l’odore del sangue, il sapore della carne, le urla di quella mortale. Si lasciò andare in un ululato prolungato.
Gli occhi appannati dalle lacrime e gli orecchi sordi per il dolore, Cassandra approfittò di quel momento di distrazione: si allungò sul primo scalino e si spinse con tutto il corpo in avanti. Rotolò giù dalle scale ripide; il polpaccio le doleva ad ogni colpo, la spina dorsale colpiva con un rumore sinistramente osseo gli spigoli dei gradini, picchiò la testa una volta, due volte, perse il conto.
Atterrò ai piedi delle scale in posizione fetale. Aveva il viso gonfio, le mani sporche di sangue non suo, la gamba dolorante e calda. Alzò stancamente la testa e vide in cima alla scala gli occhi rossi del suo mattatore. Una parte della sua mente le gridava di alzarsi, di zoppicare in cucina e di prendere un altro coltello. Le diceva che ce la poteva fare. Concentrò tutta la sua forza sulle gambe e tentò di alzarsi, ma l’arto ferito cedette sotto il suo maldestro tentativo e il lupo emise un suono, quasi uno sbuffo beffardo.
Madida di sudore, esausta e rabbiosa per quella situazione inverosimile, guardò la bestia fermarsi a metà scala, leccarsi i baffi e fare un balzo. Che cosa strana: non aveva mai immaginato la sua morte, eppure se l’era aspettata un po’ diversa, un po’ più da vecchia, un po’ più normale. La vista si andava appannando; batté le palpebre e quando le fauci del lupo furono vicinissime, vide un lampo argenteo.
Poi, il nulla.
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E riecco qua un altro capitolo di 'The Pillar'! In questo capitolo (finalmente) la storia decolla, nubi scure si addensano all'orizzonte. Chissà cos'altro si cela dietro quello che è appena successo. Be', causa impegni improrogabili, non potrò pubblicare presto il prossimo capitolo, quindi siate pazienti e prendetevi pure la briga di immaginare e cercare di capire cosa succederà :) A presto, EB
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Spoiler del prossimo capitolo:
Denis dondolò la testa. – Più o meno. La verità è che creature come noi, Cassie, emanano un’energia molto, molto speciale e tale energia aziona una polvere che i nostri nemici, negli ultimi millenni, hanno usato per darci la caccia, l’ambrosia.
[...]
Liam l’accompagnò fino a camera sua e si fermò sulla soglia. La ragazza lo guardò, interrogativa. – Devi disinfettarti.
– Cosa?
Indicò il taglio. – E’ meglio se lo disinfetti, eviterai inutili rogne.
– Ah, questo – e si passò una mano sullo zigomo. – Guarirà da solo, non ti preoccupare. Piuttosto, posso chiederti una cosa?
La ragazza annuì, mentre cercava nella cassapanca un paio di pantaloni più comodi di quelli che indossava.
– Riesci a credere anche in minima parte a quello che ti è stato detto?
 
  
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