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Autore: niiietta    12/04/2014    0 recensioni
Era lo scoppiettio del fuoco. La brezza fresca d'estate. Il cuore di corde, pennate alle voci. Felpe profumate di sapone, alberi lucidi e bruni.
Vento fresco, brividi alla pianta dei piedi. Morbidezza di caramella, agli occhi fiocchi di neve, secche stagioni, cafféllatte, panna, torte al cioccolato e gelsomini. Muoversi di musica, limpide risate.
"E lì restavamo,
Fermi come le stelle sui boschi.
Così felici,
Il calore sembrava autentico in quelle ossa.
E quando il vecchio pino cadde cantammo,
Solo per benedire quel mattino.
Cresciamo, cresciamo, costanti come il mattino, felici come una nuova alba, costanti come i fiori.
Cresciamo, cresciamo. Diventiamo ancora più grandi."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le rotelle dei nostri trolley sbatacchiavano e creavano rumore intorno noi, mischiandosi a quello delle altre persone e al loro vociare.
Isabella, aveva lo sguardo dritto in avanti. Era uno sguardo che sapevo riconoscere, sempre.

Ogni volta che mi trovavo di fronte ad una persona amavo catturarne gli occhi. Son sempre stata convinta, infatti, che se li si osserva a fondo si possono scorgere più cose di quanto le si può conoscere attraverso le parole, attraverso i gesti. La pelle.
E quelli di Isabella avevo imparato a scorgerli bene. Il colore, la profondità, la proiezione. La presenza o meno di striature dorate addensate al castano. E, ora, erano troppo densi e proiettati dentro di sé per essere all’interno di quell’aeroporto.
Spostai un ciuffo chiaro di capelli dal viso, portandolo dietro l’orecchio. I suoni e la gran voce degli avvisi continuava a disturbare anche i miei, di pensieri. Pensieri aggrovigliati, di tutti quegli anni - pochi, in effetti - che avevamo alle spalle. Pulsavano troppo pesanti sotto la pelle, per non essere dentro la testa. Persone, colori, parole, odori. Tutto, ruotava troppo in fretta, talmente tanto da essere in grado di coprire l’esterno.
Le porte scorrevoli degli arrivi, ogni tanto, lasciavano intravedere stralci di persone, sorrisi, sentimenti che scorrevano fra loro. L’ansia del groviglio non cedeva, continuava a disturbarmi e farmi sospirare. Di tanto in tanto guardavo il viso di Isabella, i suoi occhi, e non mi accorgevo che erano quasi identici ai miei.
Le porte scorrevoli si avvicinarono, sempre più, si aprirono, varie volte, finché, arrivate di fronte, lo fecero per noi. E bloccarono ogni suono, e mi fecero fischiare le orecchie.
Il passato, pesava addosso. Non sapevo cosa sarebbe potuto accadere: se ciò che ci eravamo prefisse sarebbe andato a buon fine, se la nostra nuova vita a Londra avrebbe davvero alleviato tutti i mali. Non potevo saperlo.
L’unica cosa certa era Isabella di fianco a me e il sorriso di Damon che, fra la folla, riportò a galla i suoni e mi fece superare le porte, per correre da lui.

 

Capitolo primo.

Bagagli.

Annalisa

 

L’aria chiusa e pungente di Londra mi colpiva le narici mentre correvo alla fermata del bus. Sorpassavo le vie incastrate di case in mattoni scuri e portoni colorati, passando di fronte al The Hart. Oggi non avrei avuto da lavorare e volevo proprio sbrigarmi ad arrivare a casa. Presi in velocità il cellulare dalla tasca della borsa a tracolla scura, sbuffando e tenendomi di fretta la cuffia. Quante volte aveva rischiato di volarmi dalla testa?
Il sole di tanto in tanto sorrideva fra le nuvole cupe, ricordandomi quelle strane giornate al corso di fotografia in cui Isabella e Roberto urlavano isterici contro le ISO delle loro reflex. O quelle al mare, a casa, in cui non si capiva se volesse piovere o meno.
Sorrisi per conto mio, gli occhi al cielo, e le dita a infilare le cuffie alle orecchie. Il volume non troppo alto, per sentire i rumori della strada, il passo più veloce - quasi sentivo la voce di Clelia dirmi di andare più piano, per i suoi crampi! – e sbucai poco dopo nella via principale. Un ultimo tratto verso la fermata e sospirai di sollievo, un motivetto per la testa. Restai in piedi, alcune persone ad aspettare come me.
Alex, un mio compagno di corso, mi salutò passando in sella alla sua bicicletta, quel sorriso grande che guardavo sempre durante le ore di speaking. Quei suoi occhioni castano chiaro rendevano migliore il tempo da passare a lezione, anche se studiare a Londra, per ora non ancora al College ma alla scuola d'inglese, rendeva le lezioni già entusiasmanti di suo.
Il rosso dell’enorme bus irruppe davanti ai miei occhi che ormai erano fissi nel grigiore intorno e mi affrettai a salire, obliterando la carta e prendendo posto al piano inferiore, nella parte centrale.
Era ormai Ottobre ma per me era ancora Settembre. Non mi sembravano reali quei mesi passati a Londra, dopo tutto quel tempo in cui, per me ed Isabella, era stato solo un sogno. Erano anni che organizzavamo di venire a studiare qui e appena diplomate l’unico problema era stato trovare una sistemazione perché per il resto era tutto pronto: un anno alla scuola d'inglese, per ottenere lo IELTS, così da poter fare la domanda di ammissione al College. Era stata dura capire cosa veramente volessimo fare, ma una volta deciso - che anni, quelli in cui la confusione ci torturava - unire Londra e le ambizioni era stato quasi ovvio.
La prospettiva di non trovare una casa stroncava tutti i nostri piani, ma ci aveva pensato Damon a mettere le cose a posto. Damon - oh Damon! - nostro caro - ricco - amico inglese che aveva studiato da noi in Italia durante la nostra terza superiore per imparare la lingua! Era stato mio vicino di casa e compagno di classe di due amici miei e di Isabella, Roberto e Giacomo. Le giuste coincidenze per fare amicizia. E anche una grande fortuna, perché grazie a lui avevamo trovato sistemazione in una delle case che il padre aveva messo a disposizione.
L’autobus si fermò al semaforo che avrebbe portato al ponte sul Tamigi quando una Porsche nera si fermò bruscamente, un’altra macchina di fronte a lei. Catturò i miei occhi, così come aveva fatto il grande bus rosso alla fermata. La musica di sottofondo e il rumore intorno non mi fecero sentire che diceva ma un ciuffo di capelli biondo scuro e un braccio che si agitava per aria, fuori dal finestrino, mi fece sbattere gli occhi perplessa e continuare a guardare la scena. Amavo osservare le macchine fuori e cominciai a fantasticare sul perché di quella fretta e su cosa potesse pensare chi stava alla guida della macchina di fronte e abbozzai un sorriso. Va bene, il semaforo era scattato, ma nemmeno il bus era partito!
Quando ebbe strada libera sfrecciò velocemente, lasciandomi ancora più perplessa.
Non si corre, nenno*, anche se hai una Porsche fighissima e tanti soldi in tasca. Le regole della strada sono importanti! - lo dico sempre anche a Damon.L’autobus ripartì poco dopo e ripresi a guardare i colori di Londra e del fiume. Per quanto potesse essere interessante un fiume sporco ma... era pur sempre il Tamigi!
Tempo di un po’ di canzoni e arrivai a Notting Hill Gate. Obliterai nuovamente e fui sulla strada, un breve tratto a piedi – frettoloso anche questo – e arrivai alla fermata di Roland Park Ave. Voltai gli occhi verso destra, aspettando arrivasse quello che mi avrebbe portata vicino a casa. Anche prendendo un secondo bus avrei dovuto fare un pezzo a piedi, figuriamoci non prendendolo per nulla!
Quando arrivò un bagliore scuro venne coperto dal rosso. Qualche fermata e Lansdowne Rise e Lansdowne Crescent furono più vicine, come il nostro stupendo palazzo bianco a quattro piani – l’ultimo un attico – identico a quello a fianco e non aspettavo altro che tornare a casa, ossia l’elegante e costoso appartamento al secondo piano. Probabilmente Damon era già a casa mentre Isabella non lo sapevo.
Se il secondo bus fosse arrivato due secondi più tardi avrei notato la Porsche nera fermarsi nel parcheggio della casa dietro alla fermata.

 

Harry


Il rumore della porta di Starbucks che si chiudeva alle mie spalle tenne con sé l’odore di cannella e miele.
Gongolai, afferrando la cannuccia verde con la lingua per gustarmi il mio frullato al mango. Sentivo gli occhi ridermi – quanto mi piaceva? – e continuai la mia passeggiata per Portobello Road.
Camminare da solo schiariva i pensieri e accendeva i particolari intorno. Le facciate colorate dei negozi, gli indaffarati con le spese, i vestiti, la frutta. Le librerie e il vociare dei negozianti. La strada pulita e l’odore di latte e cappuccino nei bar vicini.
Alcune ragazze si fermarono a fare una foto con me ma non mi disturbarono. Adoro stare con le fans ma a Portobello Road non ne avevo mai incontrato tante da non poter proseguire le mie camminate.
Una signora mi salutò e ricambiai ridacchiando, la cannuccia di nuovo fra le labbra.
Avevamo sempre tanti impegni con le uscite dei singoli e del nuovo album, “Take me home”, ed ero così entusiasta – sorrisi nuovamente fra me – ma il tempo libero era sempre la pausa perfetta.

Ripresi a catturare tutto ciò che mi stava intorno, rilassando le tempie. I sorrisi che mi circondavano rendevano migliori i colori.
L’aria e le ultime gocce di frullato fecero rumore dentro la cannuccia che scivolò dalle labbra – mi ero sporcato di frullato – quando una luce particolare attirò la mia attenzione.
Mi voltai. Capelli lunghi e scuri, si muovevano scomposti sopra un maglioncino rosa tirato sulle braccia. I polsini di una camicia bianca spuntavano dalle maniche, sotto una gonnellina blu a pois piccolissimi bianchi. Il laccio al collo e una Canon fra le dita.
Seguivo i suoi movimenti. S’era fermata per fare la foto all’insegna di un negozio. Pungevano le nocche, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Strinsi la plastica del contenitore prima di tenerlo lungo il fianco, ormai vuoto.
Le linee delle braccia mi fecero notare il tono di pelle – agli occhi odorava di noce – ma fu qualcos’altro a bloccarmi. Lo sguardo fisso e più scuro con la quale fissava la foto sul piccolo schermo. Mosse le labbra in un sospiro – la luce erano gli occhi? O i capelli? – e continuò a camminare.
Non decisi nulla, non ricordo nemmeno di aver respirato, quando cambiai direzione e seguii i suoi passi.
Il modo in cui si muoveva la gonna avrebbe attirato il mio sguardo, eppure continuavo a fissare quelle ciocche di capelli. La luce di Londra era sempre stata scura, eppure bastava un bagliore più intenso e cambiavano colore. Prendevano striature più intense e più chiare – dorate? – e mi chiesi se avessi già visto un colore simile.
I mocassini blu scuro, abbinati alla gonna, era come se saltellassero sotto i suoi passi, eppure erano lenti. Continuavano a muovere quei capelli dove attorcigliava le dita per spostarli dal viso, quando si fermava a fare una fotografia. Quando vidi il suo sguardo sorridere, guardando una foto, mi ricordai di affrettare il passo perché nel guardarla mi ero fermato.
Che cosa stavo facendo? Seguivo sul serio una ragazza lungo la strada senza sapere neanche chi fosse o il motivo? A quanto pare, lo stavo facendo.
Non mi andava nemmeno di pormi troppe domande. Se mi lasciavo ai pensieri avrei potuto distrarmi e perderla di vista.
Un venditore la fermò, cercando di venderle della frutta. Lei rise, gentile – lo capivo solo dall’espressione, troppo rumore per sentirne la voce – e cercò di rifiutare ma poi andò via con una busta di uva bianca e bruna.
Mi faceva sorridere, più delle facciate dei negozi, più degli indaffarati con le spese. Più dei vestiti, della frutta, delle librerie e del vociare dei negozianti. Della strada pulita e dell’odore di latte e cappuccino nei bar vicini.
Del profumo di miele e cannella che mi ero lasciato dietro la porta di Starbucks. Della cannuccia e del frullato al mango.
Mi ero perso nell’odore delle gambe quando si fermò e cambiò strada all’improvviso. Guardai velocemente il cartello della strada. Elgin Crescent?
Aggrottai la fronte e mi sbrigai un’altra volta, più curioso che mai. Stavo davvero sorridendo da solo per lei?
Buttai il contenitore di frullato vuoto in un bidone all’angolo della strada prima di rallentare. C’era più silenzio e non osavo immaginare cos’avrebbe potuto pensare nel trovarsi un tizio a seguirla. E se mi riconosceva? Ancora peggio.
Anche i suoi passi rallentarono e cominciò a guardarsi di più intorno. Cosa l’aveva attirata in quella strada? Si sentiva solo il rumore del vento.
Teneva il viso alzato, gli occhi fissi su qualcosa. Non capii cosa attirasse così la sua attenzione finché non si fermò sotto l’ombra degli alberi che sbucavano da un recinto. Era uno degli abituali giardini di Notting Hill. Entrò oltre il rumoroso cancelletto e, avvicinandomi di più, lessi il cartello: Colville Square Gardens.
Restai lì fermo. Non si voltava. Non l’aveva fatto nemmeno una volta. E quando la vidi sedersi sola, su una panchina, socchiusi le palpebre e tornai indietro. Le foglie degli alberi erano verde su noce.

 

Isabella

 

Era ormai imbrunito il cielo quando vibrò il cellulare dentro la borsa.
Il silenzio era tanto che riuscii pure a sentirlo, mentre mi dirigevo verso casa. Quella giornata al lavoro era stata seccante, soprattutto alla fine. Quell’uomo non voleva smetterla di darmi noia e il turno sembrava non voler finire. Quando era arrivato Sam a darmi il cambio, ero praticamente scappata per andare alla fermata del bus.
Infilai la mano dentro la borsa e lo presi – quanto si agitava! – per rispondere senza neanche vedere chi fosse.
«Pronto?» sbuffai, cercando di non farmelo cadere dalle mani.
«Isabella! Dove sei finita?» mi chiese la voce di Annalisa, preoccupata.
«Anna, sono praticamente dietro casa! Sam non voleva arrivare e ho fatto tardi per quello» le spiegai, mettendomi a posto e riprendendo il ritmo più svelto. Volevo davvero arrivare a casa!
«Quello scemo – rise lei, sospirando piano – Dai, ti aspetto a casa, allora. Volevo scendere a far la spesa ma tu come al solito non hai le chiavi e Damon è uscito» concluse.
Mi fece ridere: «Va bene, faccio in fretta, allora» le dissi solo, chiudendo dopo poco la telefonata.
Ero stanca. Io e Annalisa lavoravamo nello stesso bar vicino alla scuola e “quello scemo di Sam” lo conoscevamo bene entrambe. Lo perdonavo solo perché sapevo com’era fatto e non riuscivo a tenergli il muso.
La voglia di camminare di fretta non mi apparteneva e il fatto che stessi andando così veloce diceva tutto. Controllai persino l’orario!
Chi me l’aveva fatto fare, il giorno, di prendere il bus anziché la metro?
Svoltai per Ladbroke Groove e un qualcosa fece stringere il mio stomaco. M’imposi di tenere lo sguardo in avanti, tutto il tempo, senza guardarmi intorno finché non svoltai ancora per Lansdowne Crescent. Sapevo bene quanto non dovessi leggere il nome dei giardini che c’erano proprio dietro casa nostra e soprattutto quanto non dovessi guardare gli alberi che c’erano dentro. Erano pericolosi.
La porta di casa un sollievo, salire da Annalisa ancora meglio.
Anche se, nonostante fossi stanca, riuscì a convincermi a farle compagnia al supermercato. Già, sollievo...
Un ragazzo biondo di occhi ridenti azzurri salì su un Range Rover nero, in Lansdowne Rise, diretto verso casa.

 

Harry

 

«Harry, io esco» mi salutò Louis, infilandosi la giacca di jeans.
Lo guardai distrattamente. Non aveva la solita tuta, indossava i jeans scuri e una maglietta. Eleanor.
«Okay» risposi semplicemente, sorridendo verso di lui.
Ricambiò il sorriso ed entrò dentro l’ascensore interno alla casa euforico, come ogni volta che andava dalla sua ragazza. Eleanor...
Non mi era mai piaciuta tanto, però se lo rendeva felice ero contento uscisse con lei.
Stavo sulla poltrona bianca del salotto principale, al quarto piano e non facevo nulla di particolare se non mangiucchiare ogni tanto qualcosa e guardare la televisione.
Con Louis abitavamo insieme in un attico un po’ particolare che occupava la parte superiore di due palazzi identici. Dico particolare perché è complicato persino per me che ci vivevo raccontare com’era fatto.
Il piano dove mi trovavo ora comprendeva due saloni grandi, uno all’ingresso e uno subito dopo, di cui quell’altro era diciamo... la sala da pranzo. Poi un bagno e la cucina.
Sotto questo piano c’era il mio – che era come una casa a sé stante – mentre l’altra parte della casa si trovava nel palazzo a fianco a questo e comprendeva solo l’attico di quel palazzo – tutto di Louis – e la parte ancora superiore, una terrazza abbastanza grande.
Tutte e due gli attici erano circondati per tutto il perimetro da vetrate e ora, anziché la televisione, guardavo il cielo. Seguivo il percorso delle nuvole, la loro forma e avrei potuto fare una foto da mettere su Instagram ma non avevo idea di dove fosse il mio iPhone...
Sospirai e mi lasciai andare con capo sulla testiera della poltrona, le ciglia basse.
Non capivo perché il silenzio mi turbasse così tanto. Non lo capivo mai. Sentii un nodo allo stomaco, sensazione più che familiare. Cominciava sempre così, poi decidevo di vestirmi e uscire, andare da qualche parte. Sbuffai e scivolai ancora di più per il divano, sospirando forte.
Che potevo fare? Non volevo proprio uscire. Anche se... l’ultima volta era stato piacevole. Tanto.
Quella ragazza... mi chiedevo ancora il perché di quel giorno e mi piaceva pensarci e sorridere per conto mio, quando forse non avrei avuto nulla di cui sorridere.
I suoi capelli scuri... la pelle che era tutt’altro che candida. Quello soprattutto, mi chiedevo perché. E se fosse stata una turista? No, no doveva essere inglese. Eppure quella macchina fotografica...
Sorrisi nuovamente. Non avere risposta era meno piacevole, ma non aveva importanza. Perché crearsi cattivi pensieri quando poteva restare un sorriso?
Il cellulare cominciò a squillare, facendomi sollevare il capo. Quella maledetta suoneria.
Mi guardai intorno, di malavoglia, cercando di capire dove accidenti fosse finito. Non lo vedevo...
Sbuffai sonoramente, sollevandomi e trascinandomi intorno, seguendo la suoneria. Va bene, la casa era enorme ma il suono sembrava piuttosto vicino.
Sollevai tutti i cuscini, spostai tutte le cose inutili che trovavo in giro – quelli erano i boxer di Louis? - ma niente. La suoneria cessò e non feci in tempo a decidere se sedermi o meno che cominciò un’altra volta.
Marimba. Quella suoneria. Perché non mi decidevo a cambiarla?
Ancora più affrettato smontai la casa pur di trovarlo e alla fine lo vidi incastrato ai cuscini del divano dove poco prima era seduto Louis. Ovviamente.
Quando vidi che a chiamarmi era proprio lui restai perplesso. Louis?
«Pronto?» tentai, quando un’altra chiamata stava per chiudersi.
«Harry! – strillò, facendomi spaventare – Perché cazzo non rispondi al telefono?!»
Restai a bocca aperta. Cosa... come...
«Non importa! – continuò, senza neanche farmi parlare – Di chi cazzo è questa merda di Bentley ferma di fronte al parcheggio?!» strillava ancora e non prendeva nemmeno fiato. Che cazzo stava dicendo?
Feci prima ed uscii per andare sulla passerella che mi avrebbe portato alla parte di casa di Louis. Dalla sua sala giochi, affacciato ai vetri, lo vidi fermo all’entrata/uscita del garage, il motore della macchina ancora acceso e il clacson a suonare. Cercai di non ridere, nel vedere quella Bentley nera di fronte a lui a impedirgli di uscire. Se solo avessi osato farlo mi avrebbe ucciso.
«Harry ci sei ancora?! Harry, cazzo mi senti?!» continuò, sempre più isterico. Non ridere.
«Sì, sì – risposi subito, trattenendomi – Mi sono affacciato. Quella... mi sembra... di quel tizio... coi capelli ossigenati, quello... che... mi pare abbia la casa sotto di me».
«Cosa aspetti allora?! Chiamalo e digli di muovere quel fottuto culo e togliere questa cazzo di macchina da mezzo ai coglioni!».
Wow. Tutto il tempo per quelle parolacce e sarei già andato.

«Tranquillo, Lou, ora vado» risposi con calma, cercando di chiudere la chiamata. Ovviamente con Louis ancora a urlare.
Feci marcia indietro per scendere, sempre per la passerella, al mio piano, l’unico attraverso il quale si poteva accedere al palazzo.
Arrivai al piano di sotto e cercai di frenare la risatina che avevo liberato durante il tragitto.
Sì, mi stavo divertendo.
Suonai il campanello e aspettai, ridacchiando ancora. Chissà quanto stava impazzendo Louis lì sotto, con tutta la fretta che aveva. L’unica volta nella sua vita in cui era uscito in orario.
Non riuscivo a smettere di ridere.
Il rumore di passi, quello di come si fermarono davanti all’uscio e della porta aprirsi. Non ci fu bisogno di fermare la risata perché ci pensò la persona che mi aprì a farlo.
E capii che la luce erano i capelli e gli occhi.

 





Questa storia è una parte importante della mia vita. Per due anni scalpitava per mostrarsi, io troppo timorosa ma alla fine, beh... eccola qui.
(*nenno: ciccio, tizio... in english, dude ahah)
(nella trama, fra le virgolette, un estratto dalla canzone "Old pine" di Ben Howard)
  
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