Nami non aveva mai visto tanti cibi diversi tutti insieme. Evidentemente la rivalità tra i due fratelli aveva portato a risultati a dir poco sorprendenti. La tavola era imbandita di tutto ciò che al mondo si può sognare, cibi rivenienti da tutti paesi. Dal sushi alle crepes, dagli spaghetti agli hamburger… Sembrava di essere a una sagra invece che a una semplice cena. E la cosa più bella era che sembrava tutto buonissimo!
Lei si sedette a un lato della panca, mentre accanto le si sedettero
Sanji e sua sorella. Capotavola c’era Chopper mentre dall’altro lato c’erano
Rufy, Nara e Usop.
“Zoro e Robin?” chiese quest’ultimo.
“Non importa…Loro sanno badare a loro stessi…” disse Rufy che aveva la
bava alla bocca alla vista di tutto quel ben di Dio.
Nami notò che gli sguardi assassini dei due fratelli non erano affatto
diminuiti. “Scommetto che sarà tutto buonissimo… ma, tu come ti chiami?”
La ragazza dai capelli biondi arrossi leggermente. “E’ vero, con la
storia della gara mi ero dimenticata di presentarmi… Io sono Sakura, piacere”
Nessuno la stava a sentire. Rufy, Chopper e Usop si erano già gettati
sul cibo, fregandoselo a vicenda l’uno dal piatto dell’altro. Nara stava
scegliendo minuziosamente solo il cibo preparato da Sanji, cosa che non faceva
certo piacere alla sua amica, mentre Sanji era occupato a servire Nami solo con
i suoi piatti.
“Vedo che vi interessa molto…” aggiunse con una goccia che le pendeva
dal capo. Quindi decise di lasciare perdere e iniziare a mangiare anche lei,
prima che si spazzolassero via tutto.
Alla fine della cena, tutti avevano mangiato di tutto. Erano passati
dal dolce, al secondo, dal primo all’antipasto, insomma, ne era venuto fuori un
casino non indifferente. Nami si era ritrovata a mangiare quello che sembrava
un Babà con sopra un calamaro fritto. Sanji aveva scoperto una fetta di pizza
cosparsa di cioccolata, mentre Usop era riuscito a mangiare una torta con i
funghi dentro. I ragazzi avevano decisamente bisogno di un digestivo, ma per
fortuna era stato preparato anche il sorbetto al limone, unica cosa alla quale
i fratelli avevano lavorato insieme e della quale tutti gli furono molto grati.
Finita la cena, Sakura e Sanji lavarono i piatti, mentre gli altri,
seduti al tavolino, parlavano del più e del meno. Nara si stava concentrando su
Chopper e sullo studio dei suoi poteri.
“Ah proposito, ma che vuol dire che il frutto di Gom Gom fa parte della
categoria degli Zen-Zen?” chiese Rufy come ricordandoselo improvvisamente.
Nara si alzò da terra e fregò una siringa dal ruck di Chopper. “Posso
prenderti un po’ di sangue?” Lui era titubante ma alla fine acconsentì. Mentre
lo stava facendo rispose “Vedi, i frutti del diavolo si dividono in quattro
categorie principali. Gli Zen-Zen, che sono quelli che danno poteri riferiti
alla natura, come il tuo. Ci sono poi quelli di Zoo-Zoo, che trasformano in
animali, quelli di Hito-Hito che si riferiscono a cose create dall’uomo e
infine quelli di Hen-Hen che comprendono tutti gli altri, come quello di
Chopper”
“O quello di Fior Fior” aggiunse Sakura. “La Robin di cui parlavate
prima è lei, no? Ha un potere fantastico”
“Allora anche tu te ne intendi di frutti del diavolo” esclamò Sanji
sorpreso.
“Si” rispose lei. “Il mio sogno è quello di riuscire a riprodurre un
frutto del diavolo”
“Sul serio?!” dissero tutti. “Ma è impossibile!”
“No” fece Nara. “Non ci sono cose impossibile a questo mondo. Esiste
solo ciò che si vuole fare e ciò che non si vuole fare” Si risedette sulla
panca assieme a Rufy, strofinandosi contro di lui. “E in questo momento c’è una
cosa che vorrei fare…”
“Eh?” Rufy sembrò un po’ disorientato e si allontanò leggermente.
Lei sbuffò scocciata mentre Nami, alzandosi, la guardò con aria di
superiorità. “Vado in camera mia.” Si rivolse alle due ragazze. “Voi dove
dormite?”
Prima che Nara potesse dire qualsiasi cosa, intervenne Sakura. “Abbiamo
i sacchi a pelo, se per voi va bene potemmo dormire sul ponte”
Sanji si girò con gli occhi a cuore verso la ragazza dai capelli blu.
“Non sia mai detto che una leggiadra fanciulla debba dormire all’aperto. Ti
cederò volentieri il mio letto, cherie!”
Nara guardò scocciata la sua amica che l’aveva interrotta. “No, grazie”
Si alzò anche lei, uscendo. “Puoi venire un attimo, Sakura?”
Lei, finito di asciugare il piatto che aveva in mano, lo appoggiò sul
lavandino e la seguì fuori, chiudendo la porta dietro di sé.
“Quelle due mi sembrano un po’ strane…” disse Usop. “Voglio dire, sulla
testa di Rufy pende una taglia di 100 milioni… E noi siamo pirati, eppure non
hanno la minima paura…”
“Forse ci sono abituate… Per cercare i frutti del diavolo devono
entrare in contatto con i pirati… E poi Sakura è mia sorella, quindi…”
“Si, lei si, però… vabbè…”
“Sanji, io ho ancora fame…”
“Ma come può essere??” gridarono tutti.
* * *
Nara prese il suo zaino che era ancora appoggiato in un angolo dalla
mattina e ne tirò fuori due coperte. Sakura le si avvicinò e prese quella che
la sua amica le porgeva.
“Perché mi hai interrotto?”
“Cosa volevi dire?”
Nara sbuffò. “Era l’occasione giusta per chiedere a Rufy se potevo
dormire con lui…”
“Non ti piacerà sul serio cappello di paglia!”
La ragazza dai capelli blu si avvicino a Sakura e le sussurrò qualcosa
in un orecchio. Poi si allontanò di nuovo, osservando l’effetto delle sue
parole.
La ragazza dai capelli raggi di sole rimase ferma per qualche minuto.
“Perché? Allora ti piace sul serio…”
“Non è necessario che tu lo sappia. Ti chiedo solo questo piccolissimo
favore…”
Sakura scosse la testa. “Non mi sembra tanto piccolo e poi… Non mi
piace fare cose di cui non so il perché!”
Nara le strinse la mano. “Ti prego” piagnucolò. “In nome dei favori che
ti ho fatto”
“Quali?”
Si staccò. “Bè, quelli che ti farò!”
“Ahhh” Sakura sorrise. “E va bene… Ma ti avverto, se succede qualcosa
che non mi va, ti scoprirò subito”
“Va bene… basta che tu lo faccia. Domani.”
* * *
Niko Robin vide una flebile luce in lontananza. Forse era arrivata.
Accelerò il passo, nonostante la stanchezza dei muscoli e finalmente lo stretto
corridoio si allargò in una piccola grotta, illuminata soltanto da piccoli
buchi che comunicavano con la cima del promontorio, perciò la visibilità era
molto scarsa. Di forma rotonda, non sembrava nascondere alcun segreto e neanche
quella fantomatica mappa che stava cercando. Si guardò intorno, finché non
riuscì a notare un segno rosso dipinto nella parete di fronte a lei. Sembrava
antico. Si avvicinò e lo sfiorò con la mano. Quattro linee sistemate a mo’ di
quadrato e un quadrato più piccolo in mezzo. Toccò ancora il centro,
spingendolo con l’indice. Sentì una specie di tac, come se avesse toccato qualche
bottone. La stanza nella quale si
trovava vibrò e poi… Il nulla. E lo scenario cambiò.
Si guardò intorno, stupita. Era una giornata nuvolosa, nella quale il
sole giocava a nascondino con alcuni nuvoloni neri. Una grande piazza
familiare. Persone. Molte persone. Tutte lì per vedere un’esecuzione. Robin si
girò verso il centro. L’uomo baffuto che stava per essere ucciso sorrise.
“Se volete il mio tesoro, prendetevelo. Ho lasciato tutto in un certo
posto…” Poi le spade degli esecutori si chinarono su di lui. Sangue e la gente
esultò. Ma il sole scomparve definitivamente e la pioggia cominciava a cadere,
prima lenta, poi inesorabilmente sempre più forte. Pensare che proprio in
quella giornata uggiosa iniziò l’era dei pirati.
Le gente correva da tutte le parti, ignorando Robin che rimaneva ferma
in mezzo. Sembrava che nessuno la vedesse.
“Gold D. Roger…”
Aprì la mano davanti a lei. La pioggia che scendeva non l’aveva ancora
bagnata. Com’era possibile? Vide le gocce attraversare il suo palmo e cadere a
terra. Era diventata impalpabile e invisibile, come un fantasma. Che razza di
incantesimo era? Poi la sua attenzione venne attirata da due persone. Un
ragazzo e una ragazza. Si erano trattenuti lì fino a quando il corpo del
condannato non era stato rimosso. Lei cercava di trattenere i singhiozzi,
mentre le lacrime si confondevano con le gocce di pioggia, mentre i lunghi
capelli corvini, zuppi, le si appiccicavano alle guance. Il ragazzo le aveva
messo uno delle sue grosse braccia attorno alle spalle e cercava di farle
coraggio.
Una folata di vento, come se qualcosa, o qualcuno, invitasse Robin a
seguire quella strana coppia. Lei lo fece. Non sapeva il perché, ma ci doveva
essere un motivo a tutto quello.
I due si diressero verso una barca leggermente nascosta dietro un
promontorio. Il mare era in burrasca, ma l’equipaggio era intenzionato a
partire comunque. Robin salì a bordo. Il ragazzo si staccò e osservò tutti gli
altri membri.
“E ora che si fa?”
“Niente” rispose un uomo che portava i capelli come petali di un fiore.
“La nostra epoca è finita. D’ora in poi ognuno farà ciò che vuole”
“Ma come?” Il ragazzo si risentì. “Noi-”
“Teach, tu sei giovane, puoi riprendere il mare e continuare la vita
del pirata. Ma per noi…”
Lui non sembrò convinto, benché potesse vedere il segno di assenso da
parte di tutti, finché non intervenne la ragazza. “Hanno ragione loro. Tu
continua il tuo sogno, io… Io ora devo pensare a qualcos’altro…” Si mise una
mano sulla pancia.
“Hai fame?”
“Ma no, cretino!” gli rispose lei. “Sono incinta!”
“Cosa?!”
Da quella marmaglia emerse un altro ragazzo. Familiare, troppo
familiare. Quel viso da ragazzino… A Robin sembrava di averlo già visto.
“E’ meraviglioso” La baciò appassionatamente, stringendo la mano ancora
posata sul ventre. Poi si girò e si rivolse al ragazzo di nome Teach. “Anch’io
non voglio abbandonare la vita del pirata. Sono con te, capitano”
Lui scosse il capo. “Non devi sentirti in obbligo solo perché hai messo
incinta mia sorella”
“Non è affatto un obbligo! Io voglio essere un pirata!”
Alla fine Teach accettò. Robin osservò il viso della ragazza.
Sorrideva, un sorriso che risplendeva come il sole in quella triste tempesta,
mentre le lentiggini le coloravano le guance. Le lentiggini. Prima non le aveva
notate. Così familiari. Ancora troppo familiari.
* * *
Tashigi aprì leggermente gli occhi. Il sole non era ancora troppo alto,
ma la accecava lo stesso. Aveva un po’ di mal di testa. La rugiada del mattino
aveva bagnato anche i suoi capelli blu, ma allo stesso tempo aveva pulito la
foresta, che ora emanava un odore di fiori primaverili.
Lei era ancora stretta al corpo di lui, senza rendersi ancora conto di
ciò che era successo. Solo che lo desiderava ancora, e, se fosse possibile,
ancora più di quanto lo aveva desiderata la notte prima. Voleva sentire ancora
le sue labbra. Abbracciò più forte quel corpo muscoloso e si avvicinò alle
labbra carnose, premendoci sopra le sue. Dolcemente. Lui ricambiò il bacio,
come in trance.
“Kuina…” mormorò, mentre gli occhi si aprivano lentamente alla chiara luce
del mattino.
Lei si alzò di scatto, quasi disgustata. Come se tutto fosse svanito,
la ragione riprese a funzionare, mostrandole la realtà com’era, realtà alla
quale non aveva potuto resistere. Aveva fatto l’amore con lui. Osservò il suo
corpo ancora nudo, mentre le gocce di rugiada brillavano al tiepido solo,
rendendolo ancora più bello. Trattenne un moto di disgusto. Quella vista glielo
faceva desiderare ancora di più, ma la ragione glielo faceva odiare. Si alzò di
scatto per non vederlo e iniziò a rivestirsi.
Lui intanto era ancora intontito e quando i suoi occhi non furono più
appannati, la vide mentre si infilava la camicetta. Anche la sua coscienza si
riaprì, rendendolo consapevole di ciò che era successo. Come aveva potuto
farlo? Ma la domanda più assurda era come poteva averne provato tanto piacere
da volerlo rifare? Non l’avrebbe più toccata, era ovvio, ma si sentiva di
desiderarla ancora, forse più intensamente di prima.
“Senti…” provò a dire, ma non c’erano parole per spiegare.
Lei si voltò verso di lui, cercando di concentrasi solo sul suo viso e
non sul resto del corpo ancora nudo. Ma pure il viso le trasmetteva sensazioni
che non voleva. Cercò di non pensarci. “Hai fatto l’amore con me solo perché
sono come lei!” l’accusò.
“Come chi?” disse alzandosi e cominciando a vestirsi.
“Kuina. L’hai chiamata nel sonno!” La sua voce, benché volesse sembrare
arrabbiata, non trasmetteva odio ma malinconia. Non appena ebbe finito, afferrò
il suo zainetto e la sua Shigure e se ne andò. Doveva combattere con lui,
sconfiggerlo, si ricordava. Lui era un pirata e lei un marine. Ma l’unica cosa
che pensava in quel momento è che andasse tutto al diavolo.
Zoro non si era ancora infilato la maglietta, quando la vide
allontanarsi. Ancora spinto da quella forza che non riusciva a controllare, la
seguì – non prima di aver recuperato le sue spade, naturalmente – e riuscì a
raggiungerà. La afferrò per un braccio, lo stesso che lo aveva stretto quella
notte. “Ascoltami!”
Lei lo fissò con odio. Lui deglutì. Era ancora fuori di sé, benché ora
ci fosse un barlume di ragione in più. Si chinò e la baciò con vigore. Tashigi
non lo respinse neanche, perché in fondo lo desiderava. Le loro lingue si
unirono ancora, finché non mancò loro l’aria e si divisero.
Lui respirò profondamente e le parole gli uscirono di getto, dette non
dallo spirito presuntuoso e un po’ antipatico di spadaccino, comunque troppo
serio per quella situazione, ma dallo spirito di ventunenne innamorato. “Ho
fatto sesso con te perché mi piaci.”
* * *
La scena era cambiata ancora. Una stanza spoglia, illuminata solo dalla
luce di una candela, che rifletteva flebilmente le ombre sulle pareti di legno.
Teach e il ragazzo di prima erano seduti al tavolino, l’uno di fianco
all’altro. Robin li osservava, appoggiata contro il muro.
Teach prese un ago e si punse l’indice, premendoselo un po’ per fa
uscire il sangue. Il ragazzo fece la stessa cosa. Poi misero le due dita l’una
sull’altra, mischiando i rispettivi liquidi rossi.
“Io, Marshall D. Teach, giuro su questo patto di sangue di prenderti
nella mia ciurma quando mio nipote sarà sufficientemente grande”
“Io, Luffy, giuro su questo patto di sangue che entrerò nella tua
ciurma dopo essermi preso cura di mio figlio”
La ragazza dai capelli corvini seduta sul letto si alzò e anche lei,
come aveva fatto suo fratello e suo marito, prese l’ago e si punse, dopodiché
unì il suo indice con gli altri due. “Io, Neku D. Iole, giuro di non fermare
mai mio marito e di prendermi cura di mio figlio durante la sua assenza” Il
patto si concludeva qui.
Robin osservò il pancione della donna, ormai in stato avanzato. Chiuse
gli occhi, fissandosi nella mente il volto di Teach. Familiare anche quello, ma
in modo diverso. Li riaprì, sentendo le urla di Iole. Le doglie. Abbassò la
tesa del cappello davanti a sé, per non vedere. Una ragazza entrò nella stanza,
per aiutarla a partorire. Era giovanissima, non avrà avuto nemmeno sedici anni,
coi lunghi capelli verdi. Si avvicinò al letto dove la donna si era coricata.
“Respira. Andrà tutto bene”
Quando il piccolo nacque, era uno scricciolo. Veramente piccolino. Suo
zio lo prese in braccio e tra le sue grandi braccia sembrava persino più
piccolo. “Allora, come lo chiamiamo?”
“Sei tu il suo padrino, spetta a te” bisbigliò stancamente la donna.
“Il suo nome sarà…” Robin rimase in attesa, aspettando che fosse Teach
a rivelarle quello che in cuor suo già aveva capito. “…Portuguese D. Ace” E
l’immagine svanì di nuovo.
* * *
Zoro fece un altro respiro profondo. Si faceva schifo da solo per
averla ferita in quel modo. Come aveva potuto toccarla in quel modo, quella
notte? Non era un comportamento degno di uno spadaccino. Ora si, che si era
reso conto dei suoi sentimenti, troppo importanti per essere rovinati così. ma
lui era troppo orgoglioso per dirle veramente quanto tenesse a lei. Era già
abbastanza che lo avesse ammesso a sé stesso. L’unica cosa che riuscì a
bisbigliare ancora fu “scusami”. Le lasciò il braccio.
Né lui né lei sapevano più cosa dire ormai, perciò proseguirono la
strada ognuno immerso nei suoi pensieri. Un rumore. Foglie che cadono. Zoro
mise la mano sulla spada, ascoltando il rumore del vento. Qualcosa si stava
muovendo sopra gli alberi, verso di loro. Qualcosa di molto veloce. Poi,
finalmente, questo qualcosa apparve, delineando la sua figura. Un ragazzo.
Saltava di ramo in ramo con l’agilità di uno scoiattolo. Non sembrava
interessarsi a loro.
“Ehi, tu!” Tashigi lo chiamò e solo allora si accorse di non essere
solo. Passò ancora per qualche ramo, poi, esattamente sopra di loro, si lasciò
cadere, atterrando in piedi davanti alla ragazza che lo aveva chiamato.
Era un ragazzo che non superava i venticinque anni. Lei poteva notare i
suoi muscoli al di sotto della maglietta leggera. Sia quella che i bermuda che
portavano erano leggermente sporchi di terra, come se si fosse strusciato a
lungo contro il terreno e poi si fosse pulito con le mani. Anche quelle erano
sporche, notò, mentre lui si risistemava la faretra e l’arco che portava sulle
spalle. “Buongiorno” li salutò lui, ma era un saluto asciutto.
“Noi ci siamo persi. Lei sa per caso qual è la direzione che dobbiamo
prendere?”
Lui alzò il braccio e indicò il nord. “Se proseguite dritti troverete
un fiume. Seguendolo in direzione della foce, arriverete al sentiero che
riporta in città”
“Grazie mille” lo ringraziò. “Meno male che ti abbiamo incontrato”
Quel ragazzo misterioso non rispose, ma spiccò un salto, aggrappandosi
al ramo più vicino. Quindi proseguì la sua strada, mentre Tashigi lo osservava
andarsene, agitando il codino di capelli neri.
* * *
Ora la nuova scena mostrava Luffy mentre saliva a bordo di una
barchetta, alla quale non era nemmeno adatto quel nome, perché era una vera
bagnarola. Stava partendo per raggiungere Teach. Ace aveva solo poco meno di
tre anni, ma Iole non aveva voluto che lui ritardasse la partenza un attimo di
più. Lei se la sarebbe cavata da sola e poi aveva Makino, la ragazza dai
capelli verdi che l’aveva aiutata a partorire. Il mare era calmo ma il sole del
tramonto sembrava piangere mentre lui se ne andava, come un presagio di
sventura. Anzi, sembrava sanguinare, almeno secondo Robin. Poi il suo sguardo
si spostò su Ace. Aveva il pollice in bocca e guardava con occhi sgranati suo
padre che se ne andava. Le venne da pensare che era dolcissimo e si chinò
istintivamente per accarezzargli la guancia. Lui rabbrividì, come se avesse
sentito qualcosa, e si girò, ma naturalmente non vide nulla, in quanto Robin
aveva ancora le sembianze di un fantasma. Sua madre lo prese per mano e si
avviò verso il paese. Mentre camminava, le venne una tosse fortissima, tanto da
costringerla a fermarsi e da spaventare suo figlio. Ma si riprese
immediatamente, benché sembrasse qualcosa di più grave che una semplice
influenza.
La scena cambiò nuovamente. Robin era di nuovo appoggiata alla
finestra, mentre osservava il compiere di quello che già sapeva sarebbe
successo. Iole era a letto, cercando di partorire il suo secondogenito, mentre
fuori infuriava una tempesta. La pioggia cadeva sottile ma forte e il
picchiettare si sentiva distintamente. Un lampo e poi un tuono. Ace aveva
paura, ma sapeva che non doveva disturbare sua madre, perciò stava nella stanza
a fianco, sotto le coperte, cercando di farsi coraggio.
Finalmente, grazie anche alle cure di Makino, il bambino nacque. Era
piccolo, ancora di più di suo fratello e senza lentiggini. Assomiglia alla
madre comunque, mentre suo fratello, lentiggini a parte, è il ritratto di suo
padre. Ma hanno entrambi il colore corvino che li contraddistingue. Robin
sorride, osservando Iole che lo stringe al petto e non si accorge che, fuori, è
spuntato il sole.
“Come lo chiamerai?” chiese la ragazza dai capelli verdi.
L’altra tossì. “Monkey D. Rufy”
Robin sentì una grande malinconia, ma senza capirne il perché. Poi vide
il palmo della donna sporco di sangue e finalmente capì. La scena scomparve
ancora e ancora ne comparì una nuova.
Robin era su un colle illuminato dalla prima luce del mattino. Faceva
abbastanza freddo. Davanti a sé c’era Makino, con in braccio il piccolo Rufy e
con suo fratello al fianco, e singhiozzava. Ace piangeva, invece, cosa che mai
gli aveva visto fare, neanche quando si erano lasciati. Ma in fondo aveva solo
tre anni. La ragazza dai capelli verdi si chinò verso di lui e lo abbracciò,
non riuscendo a frenare le lacrime. Rufy era ancora troppo piccolo per capire e
dormiva, borbottando ogni tanto nel sonno.
Robin si avvicinò e vide la terra smossa e la croce di legno che c’era
a fianco. Nessun nome, ma capire non era difficile. Lei sospirò. Lo aveva già
capito, ma era abbastanza triste. Lei lo sapeva bene, perché aveva avuto lo
stesso dolore. Ciò che si chiedette fu dov’erano in quel momento Luffy e Teach.
Probabilmente nella rotta maggiore. Si inginocchiò e sfiorò nuovamente la
guancia di Ace, stavolta con le labbra. Lui smise di piangere, ma la sensazione
che gli fu trasmessa non era gelida, ma dolce e calda. Non lo sapeva, perché
non vedeva niente, ma la stava guardando negli occhi.
Poi la scena scomparve, definitivamente, e Robin si ritrovò di nuovo
nella grotta scura e fredda. Non aveva trovato ciò che cercava, ma poteva
ritenersi comunque soddisfatta, sebbene non capisse perché proprio a lei fosse
stato concesso l’onore di sapere questa storia. Forse perché era un’archeologa.
Ma, a ben pensarci, era convinta che certi segreti, molte volte, è meglio se
restano tali. Questo era uno di quelli… o forse no. Il perché non ce l’aveva
ancora ben chiaro, ma sentiva ancora la sensazione di fastidio, come di
qualcosa che avesse in mente ma non riuscisse bene a focalizzare. Pensò a tutto
ciò che aveva visto e la sua immagine si concentrò su Teach. E finalmente capì.
Certo, era un po’ diverso, ma in fondo erano passati ventidue anni! Ma
non c’erano dubbi, era proprio Barbanera, quell’uomo che li aveva attaccati per
intascare le loro taglie poco prima che partissero per Skipiea!