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Autore: Silver Shadow    18/04/2014    1 recensioni
Okay questa è la mia seconda fanfiction e io sono tipo "aiuto" (?) La scrivo per tutti gli appassionati di Percy Jackson che è un pezzo della mia vita. E' ambientata fra La maledizione del titano e La battaglia del labirinto, ed è incentrato sul dolore dei ragazzi dopo ciò che è successo in quella vecchia discarica degli dei. In quanto a Percabeth non attiene del tutto alla storia del libro ma a me piaceva così; spero piaccia anche a voi. Chu! >
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Nico di Angelo, Percy Jackson, Talia Grace
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando mi risvegliai, non misi subito a fuoco ciò che avevo davanti. Tutte le pareti attorno a me erano bianche, persone vestite di bianco e arancione entravano ed uscivano dalla stanza che, quando mi guardai intorno, mi resi conto essere più grande di quello che pensavo. C’erano due file di letti addossati alle due pareti, e io ero steso su uno di quelli, con addosso solo dei pantaloni verdi e larghi e un lenzuolo bianco che mi arrivava sopra la vita. Accanto a me c’era un comodino e, dall’altro lato, uno strano aggeggio con una busta contenente del liquido trasparente appeso sopra. Dalla busta spuntava un tubo, anche questo trasparente, che finiva in un ago, ed era infilato nell’incavo del mio gomito. Ero nell’infermeria del Campo.
Cercai di sedermi, i muscoli che bruciavano, la testa che cominciava a girare, ma prima di poterci riuscire una mano mi riportò dolcemente steso sul letto.
- Non ci provare nemmeno – mi canzonò Talia, con un finto tono di rimprovero. Il suo sguardo esprimeva troppo sollievo e tradiva la sua voce ferma. Le sorrisi.
- Cosa è successo? – la mia voce suonò spaventosamente roca, tanto che trasalii al solo sentirla. Talia ridacchiò piano, come se la sua risata potesse svegliare un qualche mostro malvagio.
- Sei svenuto sulla spiaggia. Io e Annabeth (più io in realtà, viste le tue condizioni) siamo riuscite a riportarti in albergo e la visita dell’ultimo giorno è stata annullata. Quando siamo tornati in città ho avvisato tua madre e le ho detto che ti avrei portato al Campo. Appena ci ha visti, Chirone ci ha spediti in infermeria, ed eccoci qua. Resteremo per un po’. – mi spiegò con calma. La studiai. I capelli erano sciolti e lisci sulle spalle, aveva due cerotti incrociati su una tempia e una fasciatura al braccio, qualche livido qua e là, ma niente di serio. All’improvviso mi ricordai di Annabeth e del suo terribile aspetto e, leggendomi l’ansia in faccia, Talia mi sorrise.
- E’ qualche letto più in là. Sta riposando. Dopo qualche cubetto di ambrosia si è sentita meglio e ha deciso di dormire un po’. – il suo sguardo si spostò a destra, più lontano, e io lo seguii. Quando la vidi, sorrisi.
Aveva avuto la forza di darsi una sciacquata –o forse l’aveva fatto qualcun altro – e ora i suoi capelli biondi risplendevano al sole. Aveva gli occhi chiusi e i cerchi appena sotto erano spariti. L’espressione era tranquilla, il petto si alzava e abbassava regolarmente. Aveva diverse fasciature, cerotti e lividi blu in evidente contrasto con la sua pelle chiara,ma sembrava stare bene. Il peso sul cuore che non mi resi conto di avere fino a quel momento si alleggerì un po’.
- Percy – Talia richiamò la mia attenzione facendomi voltare verso di lei. - Come stai? – mi chiese, abbassando il tono di voce, un’espressione un po’ affranta sul viso.
Mi toccai il naso che non sembrava essere gonfio e scesi giù sulle labbra un po’ tagliate ma non più sanguinanti. Avevo una specie di cerotto gigante bianco sul punto dove la spada di Alexander mi aveva ferito e avevo i muscoli indolenziti, lividi un po’ dappertutto.
- Bene. Cioè, sono stato meglio, ma per come è andata, è andata bene – le sorrisi, cercando di rassicurarla. Notai in quel momento che, nonostante gli innumerevoli letti presenti nella stanza, solo il mio e quello di Annabeth erano occupati.
- Okay –mi rispose lei, alzandosi. – Adesso vado, devo fare rapporto a Chirone che si aspetterà una spiegazione per quanto successo.. – scosse la testa. – Forse se avessi lasciato che vi baciaste quel giorno tutto questo non sarebbe successo – la vidi sollevare un angolo delle labbra, ma la sua espressione ancora un po’ triste rendeva evidente la falsità di quel sorriso. Si allontanò ed uscì prima che io potessi risponderle.
Ripensai a tutto quello che era successo, chiudendo gli occhi, e mi sembrava che fossero passati anni da quella sera in albergo con Annabeth. Forse però l’accaduto mi aveva fatto capire che non posso più esitare, non posso più aspettare. Non posso mai.
- Percy – una vocina sottile e roca mi chiamò dal fondo della stanza. Quando mi girai, vidi il viso di Annabeth rivolto verso di me, un’espressione tranquilla e riposata sul viso, un sorriso che metteva in risalto i tagli sulle labbra. E’ colpa mia, pensai. È colpa mia e della mia gelosia e della mia stupidità e di tutte le cose di me che mi hanno impedito di vedere come stavano veramente le cose, di farmi capire chi era veramente Alexander e perché si stava avvicinando così tanto ad Annabeth.
Probabilmente avevo un’espressione che rispecchiava ciò che stavo pensando, perché aggrottò la fronte sollevandosi su un gomito per guardarmi meglio.
- Stai bene? – mi chiese, la voce stavolta chiara, nessuna traccia della debolezza e della paura provata fino a poche ore prima. Le sorrisi e mi sfilai lentamente l’ago dal braccio, il liquido bianco ormai svuotato dalla sacca. Lentamente, mi alzai tenendo gli occhi chiusi per frenare il leggero capogiro che mi aveva travolto e, con le uniche forze che mi rimanevano, mi alzai.
Mi diressi lentamente verso il letto di Annabeth, ogni passo come un ago conficcato nel fianco, ma deglutii e strinsi gli occhi facendomi forza fino ad arrivare sul suo letto e sedermi per recuperare un po’ di stabilità. Una volta calmo, aprii gli occhi e la guardai. I suoi occhi grigi erano di nuovo luminosi, le labbra schiuse in un’espressione di incredulità e forse imbarazzo che non riusciva a nascondere a causa delle guance che si stavano lentamente dipingendo di rosso, il corpo conservato sotto le lenzuola, il busto piegato e il peso sorretto solo dalle braccia che la aiutavano a restare seduta. Mi avvicinai a lei passando una mano fra i suoi ricci biondi, lisciando qualche ciocca e facendogliela ricadere sul viso. Il suo sguardo vagava ovunque ma non su di me, o sui miei occhi. Non mi rendevo molto conto di quello che stavo facendo, e forse era la stanchezza o lo shock o tutto quello che mi era successo in quegli anni, ma la avvicinai delicatamente a me e la strinsi. La strinsi con cautela ma con forza, aspettando che le sue mani piccole e calde si posassero sui miei fianchi. Quando appoggiò la fronte sulla mia spalla, io affondai il viso tra i suoi capelli che profumavano di camomilla, accarezzandole meccanicamente la schiena e cercando, nella mia testa, le parole giuste da dire.
- Mi dispiace, Annabeth – mormorai. – Avrei dovuto stare più attento, starti più vicino, accorgermi prima, e invece.. Posso solo immaginare quanto ti sia sentita abbandonata e frustrata e arrabbiata e disperata e tutte le cose che avevi il diritto di provare durante tutto il tempo che sei rimasta legata a quella trave mezza rotta.. – le parole mi morirono in gola ma non ebbi bisogno di continuare perché la stretta di Annabeth, un po’ più forte, mi faceva capire che andava tutto bene, e che l’importante fosse che lei era lì e che io ero lì e che noi eravamo lì. Insieme.
Non credo che sarei comunque stato capace di resistere molto a lungo. Mi allontanai da lei quanto bastava per guardarla negli occhi, continuando a tenerle le mani sulle spalle e sentendo le sue mani che stringevano forte la mia maglia, sui lati. Avrei voluto mordermi un labbro ma era già abbastanza spaccato e non volevo peggiorare la situazione. Tutto ciò di cui avevo bisogno era curare le ferite di Annabeth, farle capire che il suo dolore poteva essere condiviso con me e che per nulla al mondo l’avrei abbandonata. Mai più.
Non mi resi conto che mi avvicinai al suo viso e posai le labbra sulle sue, quando lo feci. Sentii i muscoli delle sue spalle irrigidirsi di colpo e poi rilassarsi gradualmente sotto le mie mani. Abbassò le palpebre e chiuse le labbra sulle mie, lasciando che i graffi di entrambi si toccassero e venissero curati dalle labbra dell’altro. Il suo tocco era insieme leggero e forte, una pressione delicata ma pur sempre una pressione. Lentamente, la spinsi con le spalle verso il basso in modo da farla sdraiare, e la seguii sdraiandomi accanto a lei. Mi allacciò le braccia al collo e piegò la testa schiudendo le labbra nello stesso istante in cui io, un po’ titubante, facevo scorrere la lingua sulle sue ferite e la insinuavo nella sua bocca in modo da toccare la sua. Un brivido mi percorse tutta la schiena a quella vicinanza con lei, al suo corpo piccolo ma forte che si agitava sotto le mie mani, al contatto con sua pelle morbida quando feci scivolare le dita sotto l’orlo della sua maglietta, e capii, dal gemito che emise dal fondo della gola, che anche lei aveva voluto quel contatto con me da quanto lo desideravo io..
Le mie labbra si staccarono dalle sue e vagarono lungo tutto il suo viso, scendendo dalla mascella verso il collo dove indugiai, afferrando il più delicatamente possibile la sua pelle fra i denti e tirandola appena, sentendo i suoi mugolii che aveva inutilmente tentato di soffocare, abbracciandole la vita e tentando di restare in silenzio quando le sue unghie iniziarono a perforarmi la pelle nuda della schiena. Non sapevo quanto potevo spingermi in là ma sapevo quanto volevo.. Così, quando afferrai l’orlo della sua maglietta per sollevarla, la guardai come a chiederle il permesso, e lei mi guardò con i suoi occhi che si erano all’improvviso scuriti, come se il desiderio ne cambiasse il colore. Le sfilai la maglietta verde dell’infermeria lasciandola cadere a caso vicino a letto, avvinghiandomi a lei in modo che i nostri corpi aderissero perfettamente. La sentii trattenere il fiato quando le mie mani raggiunsero il gancio del suo reggiseno, giocandoci un po’.
- Posso? – le chiesi, con una sicurezza nella voce che stupì anche me. Il cuore mi batteva forte contro il suo petto ed ero sicuro che lei riuscisse a sentirlo. Annuì appena, e cominciai ad armeggiare con il gancio, litigandoci, senza riuscire a smuoverlo. Annabeth soffocò una risata e, senza riuscire a trattenersi, buttò la testa all’indietro prendendo a ridere convulsamente, un suono limpido e chiaro che mi scaldava il cuore. Allontanai le mani da quel maledetto gancio e finsi un’espressione offesa che non durò molto, finché anche io scoppiai a ridere assieme a lei. Quando, con le lacrime agli occhi, riuscimmo a fermarci, eravamo entrambi seduti sul letto. Non m’importava di non andare oltre, non m’importava di aver rovinato un momento di quel tipo con la mia idiozia, perché il calore che mi si stava espandendo dentro offuscava tutti gli altri pensieri, e il solo fatto di essere arrivato fino a quel punto con lei mi fece sentire vivo come non mai. Le presi le mani, guardandola negli occhi. Lei mi guardò di rimando, ancora col sorriso a fior di labbra e i capelli un po’ arruffati.
- Okay, davvero ci voleva tanto? – mi chiese lei alzando un sopracciglio, ma senza cancellare il sorriso dal suo volto.
- No, sul serio, ma mi ha visto? Riesco a fare a botte con un gancio! Figurarsi se non ci mettevo tanto a darti un bacio – le misi il broncio. Lei rise di nuovo, scuotendo la testa.
- Io ho visto che riesci a fare a botte con mostri, esseri umani e dei, ma che ci metti anni per riuscire a baciare una ragazza. Non è che sei un po’ gay? – mi chiese con la testa piegata di lato, un’espressione curiosa sul volto.
- Ma vaffanculo, Annabeth! – risi, stringendola a me e baciandola di nuovo, sentendo il suo sorriso sulle labbra.
  
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