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Autore: Aron_oele    02/05/2014    14 recensioni
Judith Montgomery è una ragazza bionda ed americana.
Judith Montgomery è una ragazza alta, che fuma Marlboro light e che vive a New York.
Judith Montgomery è una ragazza che ha vissuto tre mesi in Giappone, ospite di una famiglia strampalata.
Judith Montgomery sono io, e questa è la mia storia.
***
Per la serie "Non vi libererete mai di me" ecco a voi una nuova storia, senza trama, in cui frammenti di vita a Nerima, attimi, spezzoni, giorni, fotografie, Ranma, Akane, momenti, avventure, persone, pensieri e parole, vengono mostrati a voi dal punto di vista di due occhi castani ed estranei, quelli di Judith, appunto.
Ps: Lo sapete che non so fare le introduzioni!
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akane Tendo, Nuovo personaggio, Ranma Saotome, Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Judith Montgomery è una ragazza bionda ed americana.

Judith Montgomery è una ragazza alta, che fuma Marlboro light e che vive a New York.

Judith Montgomery è una ragazza che ha vissuto tre mesi in Giappone, ospite di una famiglia strampalata.

Judith Montgomery sono io, e questa è la mia storia.

Memorie di una viaggiatrice distratta

“Sono nata nell'epoca sbagliata.

Dovevo nascere con le macchine da scrivere, le polaroid, le tele in bianco e nero,

i cellulari inesistenti, le lettere, le tazze di tè, gli abbracci, le

canzoni, i viaggi. I viaggi.”

L' aeroporto di Tokyo era davvero enorme, e per una abituata all'America dove, si sa, tutto è più grande della normale decenza, non era cosa da tenere in poco conto.
Eccolo lì ad un passo da me: il Paese del Sol Levante.
La prima cosa da fare, mi ero detta, sarebbe stato un bel giro nella città che desideravo visitare fin da quando ero bambina. Ma a ben vedere, dopo quasi quattordici ore di volo, la prima cosa che effettivamente feci fu quella di uscire dalla grande vetrata delle porte scorrevoli e accendermi una sigaretta.
La prima boccata d'aria giapponese sapeva d'oriente, di tradizioni e leggende, di piccoli ponti di legno che attraversano ruscelli all'ombra di alberi di ciliegio fioriti, di lanterne, di kimoni e di cibi esotici.
Mi legai i capelli in una morbida treccia che gettai su un fianco, Rayban sugli occhi, pantaloncini di jeans, Canon da perfetta turista in una mano, sigaretta nell'altra ed ero pronta all'avventura.
“Pronta” per così dire, con un trolley che pesava più di me e senza nemmeno una cartina geografica.
Ero ansiosa di vedere la città in cui modernità e tradizione si fondono come rocce sciolte dalla lava, ma ero ancora più ansiosa di conoscere quella che sarebbe stata la mia “famiglia adottiva” per tutta la durata del soggiorno.
Quando avevo letto della possibilità di fare uno scambio culturale in Giappone, appeso in malo modo sulla bacheca di un corridoio del mio college, non ci avevo più visto dalla gioia, affascinata come sono sempre stata da questo Paese. Così avevo fatto subito domanda e adesso mi ritrovavo su quell'isola gigante con in tasca solo una lettera, una foto ed un indirizzo.
Famiglia Tendo, Nerima.
Provai a chiamare un taxi con un fischio, ma niente, nessuna risposta. Allora pensai che probabilmente non fosse quello il modo più consono, in fondo non ero a New York dove basta gridare più forte degli altri per farsi sentire. Così, mi avvicinai ad un taxi verde con le bande laterali gialle, posteggiato di fronte all'uscita dell'aeroporto, sorrisi al conducente e attaccai al finestrino il foglio con scritto l'indirizzo, cercando di fargli capire che volevo salire con invitanti cenni della testa e il dito indice puntato ad intermittenza. Senza che lui dicesse una parola, la portiera posteriore sinistra si aprì automaticamente, e noi americani che ci vantiamo tanto di essere tecnologici.
A bordo del taxi, che sfrecciava senza problemi nelle vie caotiche della capitale, finalmente mi era concesso di osservare la città. Per certi versi mi ricordava la mia New York: affollata, caotica e romantica, come una fotografia in bianco e nero.
Ero nella più grande metropoli del mondo. Piena di cartelli pubblicitari colorati e sgargianti, di altissimi grattacieli colmi di vetro e metallo, di strade larghissime che si intersecavano le une con le altre creando un reticolato di luci gialle e rosse, alternate alla vista da parchi enormi e pieni di verde.
Anche a Tokyo sembrava tutto così veloce, come se la gente avesse sempre fretta, corresse sempre da qualche parte: chi dietro ad uno spuntino improvvisato, chi ad un bambino che attraversava la strada senza guardare, chi alla metropolitana che stava partendo senza di lui.
Per certi versi, stare a Tokyo era proprio come stare a casa.
Però poi, oltre la modernità dell'enorme città, si potevano vedere le montagne. Montagne che da quella distanza sembravano blu, con le cime ricoperte di neve.
E allora, all'incauto spettatore, si apriva un mondo, un mondo oltre i grattacieli e i treni ad alta velocità, un mondo che ha come protagonisti il Fuji e i ciliegi in fiore, i dragoni e i templi con i tetti rossi e spioventi, i piccoli stagni e i fuochi d'artificio.
Mentre sporgevo con tutta la testa fuori dal finestrino, lasciando che la velocità mi scompigliasse i capelli e facevo centinaia di foto tutt'intorno a me, mi resi conto che Tokyo mi aveva già rapito il cuore.
Ma non sapevo fino a che punto quello stesso cuore sarebbe rimasto lì.

Lentamente il paesaggio cominciò a cambiare: le case erano più basse, le strade più strette, si riusciva a vedere il cielo.
Finalmente si poteva rallentare, respirare.
Il taxi si fermò davanti ad un enorme e massiccio muro di cinta bianco.
<< Siamo arrivati signorina, questo è l'indirizzo >> annunciò il conducente in un inglese perfetto.
Scesi dal taxi e lo salutai con la mano, quindi cercai dentro la borsetta di cuoio un po' d'acqua e ne presi una lunga sorsata. Provai a sistemarmi alla meglio i capelli e a tirare su la maglietta, che continuava imperterrita a voler pendere sulla mia spalla.
Percorsi tutto il muro ruvido con una mano, fino ad arrivare all'enorme portone di legno scuro. Tirai su gli occhiali da sole sulla testa per tenere a bada le ciocche ribelli, che a tutti i costi volevano uscire dalla mia treccia, e cominciai a provare: “Kon'nichiwa, o ai dekite ureshi”(*) “Kon'nichi-...” ma, con un cigolio da fare invidia a qualunque film horror, le ante della porta si spalancarono, forse perché nella foga di provare le mie frasi in giapponese le avevo spinte con tutta la forza che avevo in corpo, e adesso mi ritrovavo a sbirciare verso il punto da cui sentivo provenire delle voci.
Come se le mie gambe avessero una propria autonomia, mi ritrovai in giardino a fissare chi, con altrettanto stupore, fissava me.
Sfoderai il migliore dei miei sorrisi ed esordii con una delle frasi in giapponese imparate a memoria con l'aiuto delle lezioni on-line, pregando di aver pronunciato tutto in maniera almeno comprensibile e salutandoli in perfetto stile orientale, con tanto di inchino.
Anche loro si inchinarono, tutti insieme e, passato lo sbigottimento iniziale dovuto al trovarsi una perfetta estranea nel giardino di casa, sorrisero felici e si avvicinarono.
La prima ad arrivarmi di fronte fu una splendida ragazza alta e longilinea, con il lineamenti del viso duri e un po' marcati, come il taglio del suo caschetto castano. Mi prese il mento fra due dita e mi fece girare di profilo scattandomi una fotografia, confabulando qualcosa che postumi interpretai come “sei carina, mi frutterai parecchi guadagni!”. Io rimasi completamente paralizzata sotto lo sguardo inquisitore di quella che, scoprii dopo, si chiamava Nabiki ed era la secondogenita Tendo.
Ma un aiuto non tardò ad arrivare da un'altra splendida ragazza, anch'essa con i capelli castani, ma morbidi e lunghi, tenuti insieme da un fiocchetto bianco che le faceva ricadere le punte ondulate sulla spalla, anch'essa con gli occhi scuri, ma meno acuti e penetranti di quelli di Nabiki, avrei detto molto più dolci e materni.
Ridendo, si rivolse alla ragazza alla mia sinistra: << Sei sempre la solita, non si è neanche presentata che già pensi a come guadagnarci su! >> poi tornò a concentrarsi su di me, si avvicinò e mi posò due baci sulle guance: << Tu devi essere Judith, la ragazza americana vero? Io sono Kasumi e questa è mia sorella Nabiki! >>
Non ebbi neanche il tempo di rispondere che la bella sorella maggiore si girò verso gli altri componenti della famiglia, invitandoli a darmi il saluto occidentale, “così come avevano provato”.
In men che non si dica mi ritrovai stretta nell'abbraccio del capo famiglia: un uomo alto, dai lunghi capelli neri e con la pelle imbrunita, gli occhi gentili e un fisico che avrebbe fatto invidia a qualunque ventenne nel mio Paese. Anche lui mi baciò entrambe le guance con le sue ruvide e, quasi piangendo, mi disse: << Benvenuta a casa nostra bambina!! Sei come una quarta figlia per me! Io sono Soun ma puoi chiamarmi papà! >>
Non riuscii a trattenere una risata mentre la mia prima interlocutrice staccava il padre da me e mi dava anche lei un bacio, uno solo, corredato da una strizzata d'occhio e un altro paio di foto alle mie gambe.
Fra le risate generali si fece largo l'ultimo componente di quella bizzarra famiglia, una ragazza minuta, con i capelli a caschetto lucidi e neri come quelli del padre e con due grandi occhi color del Bourbon. Occhi che, pur somigliando molto a quelli delle sue sorelle, avevano una luminosità e una gentilezza che li faceva risplendere più degli altri.
Anche lei, come il resto dei Tendo prima, si avvicinò a me con un sorriso a trentadue denti e, presentandosi come “Akane”, mi diede i famosi due baci sulle guance che sembravano essere un rito di passaggio obbligatorio.
Quando ormai pensavo che l'imbarazzante momento delle presentazioni fosse finito, da dietro uno dei grandi alberi che torreggiavano nel giardino della casa, sbucò, con una falcata simile a un salto, aggraziato e felino, un ragazzo.
Anzi, il più bel ragazzo che avessi mai visto.
Alto, altissimo, con dei lunghi capelli nerissimi tenuti a bada in un buffo codino, due occhi blu stranamente grandi per un orientale, tanto muscoloso che i pettorali sbucavano prepotentemente dalla casacca di fattura tipicamente cinese. Mi guardò per un momento, quasi incerto su quale fosse la cosa migliore da fare e poi, sfoggiando dei bellissimi denti bianchi e diritti, mi sorrise porgendomi la mano: << Io sono Ranma, benvenuta fra noi! >>
Afferrai quella mano, così grande che dentro ci sarebbero potute stare comodamente entrambe le mie, e finalmente parlai la mia lingua madre: << Il piacere è tutto mio! >> dissi scivolando da quella presa ruvida, << Non avevo capito aveste un fratello! >>
<< Ma Ranma non è il loro fratello! >> intervenne una voce non molto lontana che apparteneva ad un uomo corpulento e alto, con la faccia buffa, un paio di occhiali tondi e una bandana bianca a coprire la testa priva di capelli, << È mio figlio! Io sono Genma, Genma Saotome! >> ed anche lui mi diede due baci sulle guance, abbracciandomi goffamente. Poi si scostò e posò una mano sulla spalla vestita di verde oliva di Soun e, scrutandomi, si sorrisero soddisfatti.
Nel vederli vicini, che si guardavano con complicità, mi che, nella lettera di presentazione che avevo ricevuto, si parlava di una famiglia allargata. Avevo immaginato, da buona americana patita di film, che ci fossero matrigne e sorellastre e non mi sarei mai aspettata di trovare un affascinante giovane uomo e suo padre.
Che bizzarra famiglia era quella.
Avrei dovuto capire subito in che guai, meravigliosi guai, mi sarei andata a cacciare abitando con loro.

Solo un'ora più tardi, dopo che Ranma aveva trasportato con una sola mano l'enorme valigia che credevo pesante come un lottatore di sumo (visto che, per tirarla fuori dal bagagliaio del taxi, sia il conducente che io avevamo rischiato più volte un'ernia) e l'aveva posata come fosse una piuma sul pavimento di quella che sarebbe stata la mia stanza, mi ritrovai seduta con loro a pranzo e, finalmente, con un po' di tempo per osservarli meglio.
A capotavola, l'estremità più lontana dell'enorme tavolo di legno massiccio, scuro e profumato, sedeva Soun, imperturbabilmente accucciato sulle sue stesse gambe, nonostante la mole, mentre mangiava con estrema lentezza il suo riso, prendendolo dalla ciotola blu scura e portandoselo alla bocca senza sporcare minimamente i folti baffi neri che gli coprivano il labbro superiore. Il suo viso recava i segni di un passata bellezza e le sue espressioni lasciavano intendere che fosse un uomo buono. Forse per quello o forse perché sapevo che aveva cresciuto tre figlie da solo, quell'uomo, da subito, mi ispirò simpatia e rispetto.
Alla sua sinistra Kasumi, agghindata con un carinissimo grembiule fiorato, sembrava avere molto più dei suoi ventun anni e, con placida tenerezza e non poca apprensione, continuava a guardare il piatto di tutti noi, per accertarsi che avessimo abbastanza riso, abbastanza verdure, abbastanza salsa, che fossimo sazi o che non scottasse troppo. Solo di tanto in tanto prendeva un boccone dalla sua ciotola rosa, per poi tornare a posare lo sguardo castano sulle sue sorelle e su suo padre, con estremo affetto, e su noi ospiti con gentilezza. Se non fossi stata sicura che era davvero una delle figlie di Soun, avrei creduto che fosse la moglie, tanta era la dedizione con cui si prendeva cura di ogni minimo particolare. Kasumi era quella che, nella New York del nostro secolo, consideriamo una razza ormai estinta: una ragazza di altri tempi. Dolce, gentile, premurosa e con solidi valori. In America le ventunenni di questo genere possiamo ammirarle solo in qualche bel romanzo ottocentesco.
Alla destra di Soun invece, sedeva sgraziatamente Genma, che non smetteva nemmeno per un secondo di elogiare, a volte in giapponese, altre in inglese, la “fantastica cucina di Kasumi”, sputacchiando su tutto il tavolo pezzetti di cibo e ridendo a squarcia gola con l'amico al suo fianco.
Si vedeva subito che era un uomo simpatico ed allegro e, chissà per quale strano motivo, mi ricordava un orso, o meglio un paffuto e divertente panda.
Proprio alla destra di Genma, sullo stesso lato del lungo tavolo, come una statua di durissimo marmo, sedeva Ranma, che creava uno strano contrasto con il padre. La schiena dritta e i muscoli delle braccia in bella vista, non sembrava far caso a nessuno se non alla sua ciotola azzurra stracolma di riso.
Solo ogni tanto, e fu una cosa a cui feci caso dal primissimo momento, guardava di sottecchi Akane. Non le parlava, come non parlava a nessuno degli altri, ad eccezione di Genma a cui rivolgeva, circa ogni cinque minuti, insulti di ogni genere, ma, inclinando leggermente la testa verso di lei, per un impercettibile attimo, la fissava con i bellissimi occhi blu semi chiusi e l'ombra di un sorriso sulle labbra, e poi tornava a guardare davanti a sé.
Al suo fianco, così vicina a lui tanto che le loro gambe si sfioravano, con la ciotola di riso gialla, sedeva lei, Akane.
Akane, forse perché aveva la mia età, forse perché era stata lei a spedirmi la lettera con la foto di famiglia, forse per un sacco di motivi, fu quella che sentii subito uno spirito affine. Non sapevo ancora niente di lei, eppure qualcosa mi diceva che era così simile a me....
Davanti alla più piccola delle Tendo, sull'altro lato della tavola, seduta diritta e composta, intenta a prelevare distrattamente il riso dalla sua ciotola verde scuro, c'era Nabiki che, con lo sguardo attento ma ostentando una finta indifferenza, guardava tutto e, lo sapevo, faceva caso ad ogni minimo dettaglio. Capii subito che era la ragazza più sveglia della casa, acuta e penetrante, scaltra e sofisticata. La guardavo mentre si passava le bacchette fra le dita con noncuranza, mentre mi studiava o osservava la sorella seduta di fronte a lei, oltre il vaso bianco che tratteneva a stento un lungo ramo fiorito.
E poi c'ero io, a capotavola, che cercavo in ogni modo di non far trasparire il dolore che provavo a star seduta in quella scomoda posizione, inginocchiata davanti al tavolo basso, con le lunghe gambe rannicchiate su un bel cuscino e le caviglie sovrapposte che non trovavano pace.
Io, che prendevo un chicco di riso ogni mezz'ora, rendendomi conto che che, mangiare in una vera casa giapponese, con vere bacchette giapponesi, non era come andare a China Town e prendere il take-away da gustare sul divano di casa credendo di essere un'esperta di posate orientali.
Io, che cercavo di rendermi invisibile agli sguardi penetranti di Nabiki, di capire le battute di Genma, che sorridevo mestamente a Kasumi, che guardavo ammirata Soun, che cercavo di non diventare bordeaux ogni qual volta incrociavo gli occhi di Ranma e che muovevo la testa in segno di “sì” o “no” alle curiose domande di Akane.

Finito di mangiare quello che mi parve essere la versione giapponese del pranzo del Ringraziamento, Kasumi insistette moltissimo perché andassi a farmi un bagno caldo e a riposarmi. Non provai neanche a dire di no, visto l'intera famiglia, più o meno ad alta voce, le dava ragione su tutta la linea.
Fu Akane ad accompagnarmi a fare un tour della casa, prima di spedirmi a letto.
Per prima cosa mi mostrò il giardino, enorme e ben curato, con un piccolo stagno di acqua limpida da cui rimbalzava una tipica carpa salterina e tantissimi alberi di specie diverse che facevano ombra sulle pareti bianche dell'esterno. Il tutto protetto da quel muro di cinta che era stato il mio benvenuto. All'interno di quel rigoglioso giardino faceva capolino un altro edificio, che non era grande come la casa, ma esteriormente aveva la stessa architettura.
<< Questo è il dojo di famiglia, la nostra palestra! >> mi spiegò Akane facendomi entrare in un enorme salone ricoperto interamente da assi di legno chiaro e dal profumo intenso.
Rimasi incantata a guardarmi intorno, riflettendo sull’enorme fortuna che avevo ad essere capitata in una famiglia che possedeva un dojo, simbolo delle arti marziali, simbolo di forza e di rispetto, di tradizioni e di onori.
<< Chi di voi pratica le arti marziali? >> le chiesi con il tono di voce ancora estasiato e sognante.
<< E lo chiedi? Io! Non si vede? >> la voce, che non somigliava affatto a quella cristallina e acuta di Akane, ma era più bassa e profonda, era quella di Ranma che stava appoggiato senza grazia sullo stipite della porta a due ante e mi faceva l'occhiolino gonfiando il bicipite destro per farne bella mostra.
Sorrisi timidamente ma non ebbi il coraggio di dire che sì, si vedeva eccome!
Akane, dal canto, suo prese ad urlargli frasi in giapponese di cui io capii solo “baka” che interpretai come “stupido” visti i gestacci, provocando le accese risate del ragazzo, che si stava allontanando.
Non appena quella che pareva essere una presenza ingombrante, almeno per lei, tolse il disturbo, Akane riprese il suo naturale colore perlaceo e mi spiegò che anche lei era un'artista marziale, proprio come suo padre e il padre di Ranma. Poi mi mostrò il resto della casa, costruita secondo la tradizione, con parquet e muri di carta di riso. La cucina, regno della sorella maggiore che, ormai avevo capito, era anche la mamma di quella strana famiglia allargata; la sua stanza, ordinata, profumata e tutta gialla; quella di Nabiki, con i muri tappezzati di fotografie, quella di Kasumi, piena di pizzi, merletti e libri; quella matrimoniale di Soun; quella spartana e poco ammobiliata di Ranma e Genma; quella vuota di qualcuno che “non si sarebbe fatto vedere per un po'” ed infine la mia, dove trovai il mio trolley e un futon ad attendermi.

***

 

Dopo una lunga dormita, mi svegliai al tramonto, in quello che mi pareva ancora un sogno.
Sciolsi i capelli ormai mossi e scesi le scale calde e scure che portavano al piano di sotto, scalza ed intorpidita mentre un aroma di tè avvolgeva, come in un abbraccio, tutta la casa. Arrivata sull'ultimo gradino, uno scorcio di luce aranciata, che proveniva dal mio primo tramonto giapponese, mi illuminò il viso.
E lì mi accorsi che era tutto reale.
Che ero a casa Tendo.
Quella che poi avrei finito per chiamare solo casa.
Che ci sarei rimasta per tre mesi della mia vita.
I tre mesi più belli della mia vita.
Mentre mi avvicinavo alla porta scorrevole che dava sul giardino e vedevo il sorriso di Akane accostarsi a me, mentre guardavamo insieme l'ultimo sole della giornata che scendeva lontano, mi resi finalmente conto che quello che dicono sui viaggi è vero: la persona che parte non è mai la stessa che torna.
Ed in questo caso, nel mio caso, la ragazza che tornò in America, di sicuro non era la stessa che era partita.
Ma io allora non potevo saperlo.
Come anni prima di me un ragazzo, anche io quel giorno non sapevo ancora che casa Tendo non ti lascia mai il cuore.


E così ebbe inizio la mia storia, quella che vorrei raccontarvi in questo diario, che più che la mia è la loro.
E così ebbe inizio un'avventura, la loro, la mia, la nostra.
Ed ora che sono qui, in una sera d'autunno, seduta su una delle anonime sedie bianche dell'aeroporto internazionale John Fitzgerald Kennedy e sulle gambe ho il mio fidato portatile “Apple”, perché tutte noi bionde ed americane ci sentiamo un po' Carrie Bradshaw, ve la racconterò.
Scusatemi fin da ora se la mia narrazione vi risulterà noiosa, o piena di dettagli inutili, o senza i particolari che voi desiderereste sapere ma, ve l'ho detto, sono una viaggiatrice distratta.

***

(*) La traduzione dovrebbe essere “Buongiorno, piacere di conoscervi” mi scuso in anticipo se c'è qualcuno che sa parlare bene il giapponese, io conosco solo pochissime frasi quindi ho usato il traduttore online, non vi offendete!

Eh così sono tornata! Mi dispiace per chi di voi sperava che fossi sparita per sempre ( lo so che eravate in molti, giù quelle mani).
Ebbene, una nuova avventura di cui, se siete arrivati fino qua, avete appena letto l'inizio.
L'idea sarebbe quella di farvi vedere la vita nella Nerima del nostro tempo, attraverso gli occhi castani di una ragazza qualunque, che potrebbe essere me, te, lei, l'altra, ognuna di noi.
(Mi pentirò di avervelo detto ma Judith ha dei tratti in comune con me...) Non c'è una vera e propria trama di fondo (tant'è vero che volevo fare una raccolta di one shot), sono solo attimi di vita, spezzoni, fotografie, giorni, persone. E poi vabbè, Ranma e Akane ed il loro amore, che non possono mai mancare.

Bene, passiamo alle note tecniche: lo so, il titolo è ripreso da uno di quegli orrendi film italiani con Scamarcio, ma (la frase, solo la frase) mi piaceva tanto, quindi...
Questa storia non è proprio un vero AU, anche se siamo in un tempo completamente diverso, per cui qualcosa potrebbe risultare un pelino OOC eheh.
Sappiate che, come sempre (chi mi legge lo sa) non ho linee guida e scrivo capitolo per capitolo, trasportata dall'ispirazione quando e se arriva (a proposito Vanni, ci sono anche con te, non mi sono dimenticata!) quindi pazientate con me, ok?

Il primo grazie alle mie stupende Faith84, Spirit99 e VioletArmstrong2013 che sono delle fantastiche consigliere/ supportatrici/ rialzatrici di autostima :)
Il secondo grazie a chiunque leggerà e/o recensirà, fa davvero sempre piacere.
Ho finito di scassarvi l'anima, al prossimo capitolo!

 

  
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