Judith
Montgomery è una ragazza bionda ed americana.
Judith
Montgomery è una ragazza alta, che fuma Marlboro light
e che vive a New York.
Judith
Montgomery è una ragazza che ha vissuto tre mesi in
Giappone, ospite di una famiglia strampalata.
Judith
Montgomery sono io, e questa è la mia storia.
Memorie di una viaggiatrice
distratta
“Sono nata nell'epoca sbagliata.
Dovevo nascere con le macchine da scrivere, le polaroid, le tele in bianco e nero,
i cellulari inesistenti, le lettere, le tazze di tè, gli abbracci, le
canzoni, i
viaggi. I
viaggi.”
L' aeroporto
di Tokyo era davvero enorme, e per una abituata all'America dove, si
sa, tutto
è più grande della normale decenza, non era cosa
da tenere in poco conto.
Eccolo lì ad un passo da me: il Paese del Sol
Levante.
La prima cosa da fare, mi ero detta, sarebbe stato un bel giro nella
città che
desideravo visitare fin da quando ero bambina. Ma a ben vedere, dopo
quasi
quattordici ore di volo, la prima cosa che effettivamente feci fu
quella di
uscire dalla grande vetrata delle porte scorrevoli e accendermi una
sigaretta.
La prima boccata d'aria giapponese sapeva d'oriente, di tradizioni e
leggende,
di piccoli ponti di legno che attraversano ruscelli all'ombra di alberi
di
ciliegio fioriti, di lanterne, di kimoni e di cibi esotici.
Mi legai i capelli in una morbida treccia che gettai su un fianco,
Rayban sugli
occhi, pantaloncini di jeans, Canon da perfetta turista in una mano,
sigaretta
nell'altra ed ero pronta all'avventura.
“Pronta” per così dire, con un trolley
che pesava più di me e senza nemmeno una
cartina geografica.
Ero ansiosa di vedere la città in cui modernità e
tradizione si fondono come
rocce sciolte dalla lava, ma ero ancora più ansiosa di
conoscere quella che sarebbe
stata la mia “famiglia adottiva” per tutta la
durata del soggiorno.
Quando avevo letto della possibilità di fare uno scambio
culturale in Giappone,
appeso in malo modo sulla bacheca di un corridoio del mio college, non
ci avevo
più visto dalla gioia, affascinata come sono sempre stata da
questo Paese. Così
avevo fatto subito domanda e adesso mi ritrovavo su quell'isola gigante
con in
tasca solo una lettera, una foto ed un indirizzo.
Famiglia Tendo, Nerima.
Provai a chiamare un taxi con un fischio, ma niente, nessuna risposta.
Allora pensai
che probabilmente non fosse quello il modo più consono, in
fondo non ero a New
York dove basta gridare più forte degli altri per farsi
sentire. Così, mi avvicinai
ad un taxi verde con le bande laterali gialle, posteggiato di fronte
all'uscita
dell'aeroporto, sorrisi al conducente e attaccai al finestrino il
foglio con
scritto l'indirizzo, cercando di fargli capire che volevo salire con
invitanti
cenni della testa e il dito indice puntato ad intermittenza. Senza che
lui
dicesse una parola, la portiera posteriore sinistra si aprì
automaticamente,
e noi americani che ci vantiamo tanto di essere tecnologici.
A bordo del taxi, che sfrecciava senza problemi nelle vie caotiche
della
capitale, finalmente mi era concesso di osservare la città.
Per certi versi mi
ricordava la mia New York: affollata, caotica e romantica, come una
fotografia
in bianco e nero.
Ero nella più grande metropoli del mondo. Piena di cartelli
pubblicitari
colorati e sgargianti, di altissimi grattacieli colmi di vetro e
metallo, di
strade larghissime che si intersecavano le une con le altre creando un
reticolato di luci gialle e rosse, alternate alla vista da parchi
enormi e
pieni di verde.
Anche a Tokyo sembrava tutto così veloce, come se la gente
avesse sempre
fretta, corresse sempre da qualche parte: chi dietro ad uno spuntino
improvvisato, chi ad un bambino che attraversava la strada senza
guardare, chi
alla metropolitana che stava partendo senza di lui.
Per certi versi, stare a Tokyo era proprio come stare a casa.
Però poi, oltre la modernità dell'enorme
città, si potevano vedere le montagne.
Montagne che da quella distanza sembravano blu, con le cime ricoperte
di neve.
E allora, all'incauto spettatore, si apriva un mondo, un mondo oltre i
grattacieli e i treni ad alta velocità, un mondo che ha come
protagonisti il
Fuji e i ciliegi in fiore, i dragoni e i templi con i tetti rossi e
spioventi,
i piccoli stagni e i fuochi d'artificio.
Mentre sporgevo con tutta la testa fuori dal finestrino, lasciando che
la
velocità mi scompigliasse i capelli e facevo centinaia di
foto tutt'intorno a
me, mi resi conto che Tokyo mi aveva già rapito il cuore.
Ma non sapevo fino a che punto quello stesso cuore sarebbe rimasto
lì.
Lentamente il paesaggio
cominciò a
cambiare: le case erano più basse, le strade più
strette, si riusciva a vedere
il cielo.
Finalmente si poteva rallentare, respirare.
Il taxi si fermò davanti ad un enorme e massiccio muro di
cinta bianco.
<< Siamo arrivati signorina, questo è
l'indirizzo >> annunciò il
conducente in un inglese perfetto.
Scesi dal taxi e lo salutai con la
mano, quindi cercai dentro la borsetta di cuoio un po' d'acqua e ne
presi una
lunga sorsata. Provai a sistemarmi alla meglio i capelli e a tirare su
la
maglietta, che continuava imperterrita a voler pendere sulla mia spalla.
Percorsi tutto il muro ruvido con una mano, fino ad arrivare all'enorme
portone
di legno scuro. Tirai su gli occhiali da sole sulla testa per tenere a
bada le
ciocche ribelli, che a tutti i costi volevano uscire dalla mia treccia,
e
cominciai a provare: “Kon'nichiwa, o ai dekite ureshi”(*)
“Kon'nichi-...”
ma, con un cigolio da fare invidia a qualunque film horror, le ante
della porta
si spalancarono, forse perché nella foga di provare le mie
frasi in giapponese
le avevo spinte con tutta la forza che avevo in corpo, e adesso mi
ritrovavo a
sbirciare verso il punto da cui sentivo provenire delle voci.
Come se le mie gambe avessero una propria autonomia, mi ritrovai in
giardino a
fissare chi, con altrettanto stupore, fissava me.
Sfoderai il migliore dei miei sorrisi ed esordii con una delle frasi in
giapponese imparate a memoria con l'aiuto delle lezioni on-line,
pregando di
aver pronunciato tutto in maniera almeno comprensibile e salutandoli in
perfetto stile orientale, con tanto di inchino.
Anche loro si inchinarono, tutti insieme e, passato lo sbigottimento
iniziale
dovuto al trovarsi una perfetta estranea nel giardino di casa,
sorrisero felici
e si avvicinarono.
La prima ad arrivarmi di fronte fu una splendida ragazza alta e
longilinea, con
il lineamenti del viso duri e un po' marcati, come il taglio del suo
caschetto
castano. Mi prese il mento fra due dita e mi fece girare di profilo
scattandomi
una fotografia, confabulando qualcosa che postumi interpretai come
“sei carina,
mi frutterai parecchi guadagni!”. Io rimasi completamente
paralizzata sotto lo
sguardo inquisitore di quella che, scoprii dopo, si chiamava Nabiki ed
era la
secondogenita Tendo.
Ma un aiuto non tardò ad arrivare da un'altra splendida
ragazza, anch'essa con
i capelli castani, ma morbidi e lunghi, tenuti insieme da un fiocchetto
bianco
che le faceva ricadere le punte ondulate sulla spalla, anch'essa con
gli occhi
scuri, ma meno acuti e penetranti di quelli di Nabiki, avrei detto
molto più
dolci e materni.
Ridendo, si rivolse alla ragazza alla mia sinistra: <<
Sei sempre la
solita, non si è neanche presentata che già pensi
a come guadagnarci su!
>> poi tornò a concentrarsi su di me, si
avvicinò e mi posò due baci sulle
guance: << Tu devi essere Judith, la ragazza americana
vero? Io sono
Kasumi e questa è mia sorella Nabiki! >>
Non ebbi neanche il tempo di rispondere che la bella sorella maggiore
si girò
verso gli altri componenti della famiglia, invitandoli a darmi il
saluto
occidentale, “così come avevano provato”.
In men che non si dica mi ritrovai stretta nell'abbraccio del capo
famiglia: un
uomo alto, dai lunghi capelli neri e con la pelle imbrunita, gli occhi
gentili
e un fisico che avrebbe fatto invidia a qualunque ventenne nel mio
Paese. Anche
lui mi baciò entrambe le guance con le sue ruvide e, quasi
piangendo, mi disse:
<< Benvenuta a casa nostra bambina!! Sei come una quarta
figlia per me!
Io sono Soun ma puoi chiamarmi papà! >>
Non riuscii a trattenere una risata mentre la mia prima interlocutrice
staccava
il padre da me e mi dava anche lei un bacio, uno solo, corredato da una
strizzata d'occhio e un altro paio di foto alle mie gambe.
Fra le risate generali si fece largo l'ultimo componente di quella
bizzarra
famiglia, una ragazza minuta, con i capelli a caschetto lucidi e neri
come
quelli del padre e con due grandi occhi color del Bourbon. Occhi che,
pur
somigliando molto a quelli delle sue sorelle, avevano una
luminosità e una
gentilezza che li faceva risplendere più degli altri.
Anche lei, come il resto dei Tendo prima, si avvicinò a me
con un sorriso a
trentadue denti e, presentandosi come “Akane”, mi
diede i famosi due baci sulle
guance che sembravano essere un rito di passaggio obbligatorio.
Quando ormai pensavo che l'imbarazzante momento delle presentazioni
fosse
finito, da dietro uno dei grandi alberi che torreggiavano nel giardino
della
casa, sbucò, con una falcata simile a un salto, aggraziato e
felino, un
ragazzo.
Anzi, il più bel ragazzo che avessi mai visto.
Alto, altissimo, con dei lunghi capelli nerissimi tenuti a bada in un
buffo
codino, due occhi blu stranamente grandi per un orientale, tanto
muscoloso che
i pettorali sbucavano prepotentemente dalla casacca di fattura
tipicamente
cinese. Mi guardò per un momento, quasi incerto su quale
fosse la cosa migliore
da fare e poi, sfoggiando dei bellissimi denti bianchi e diritti, mi
sorrise
porgendomi la mano: << Io sono Ranma, benvenuta fra noi!
>>
Afferrai quella mano, così grande che dentro ci sarebbero
potute stare
comodamente entrambe le mie, e finalmente parlai la mia lingua madre:
<<
Il piacere è tutto mio! >> dissi scivolando da
quella presa ruvida,
<< Non avevo capito aveste un fratello! >>
<< Ma Ranma non è il loro fratello!
>> intervenne una voce non
molto lontana che apparteneva ad un uomo corpulento e alto, con la
faccia
buffa, un paio di occhiali tondi e una bandana bianca a coprire la
testa priva
di capelli, << È mio figlio! Io sono Genma,
Genma Saotome! >> ed
anche lui mi diede due baci sulle guance, abbracciandomi goffamente.
Poi si
scostò e posò una mano sulla spalla vestita di
verde oliva di Soun e, scrutandomi,
si sorrisero soddisfatti.
Nel vederli vicini, che si
guardavano con complicità, mi che, nella lettera di
presentazione che avevo
ricevuto, si parlava di una famiglia allargata.
Avevo immaginato, da buona
americana patita di film, che ci fossero matrigne e sorellastre e non
mi sarei
mai aspettata di trovare un affascinante giovane uomo e suo padre.
Che bizzarra famiglia era quella.
Avrei dovuto capire subito in che guai, meravigliosi guai,
mi sarei
andata a cacciare abitando con loro.
Solo un'ora
più tardi, dopo che Ranma aveva trasportato con una sola
mano l'enorme valigia
che credevo pesante come un lottatore di sumo (visto che, per tirarla
fuori dal
bagagliaio del taxi, sia il conducente che io avevamo rischiato
più volte
un'ernia) e l'aveva posata come fosse una piuma sul pavimento di quella
che
sarebbe stata la mia stanza, mi ritrovai seduta con loro a pranzo e,
finalmente, con un po' di tempo per osservarli meglio.
A capotavola, l'estremità più lontana dell'enorme
tavolo di legno massiccio,
scuro e profumato, sedeva Soun, imperturbabilmente accucciato sulle sue
stesse
gambe, nonostante la mole, mentre mangiava con estrema lentezza il suo
riso,
prendendolo dalla ciotola blu scura e portandoselo alla bocca senza
sporcare
minimamente i folti baffi neri che gli coprivano il labbro superiore.
Il suo
viso recava i segni di un passata bellezza e le sue espressioni
lasciavano
intendere che fosse un uomo buono. Forse per quello o forse
perché sapevo che
aveva cresciuto tre figlie da solo, quell'uomo, da subito, mi
ispirò simpatia e
rispetto.
Alla sua sinistra Kasumi, agghindata con un carinissimo grembiule
fiorato,
sembrava avere molto più dei suoi ventun anni e, con placida
tenerezza e non
poca apprensione, continuava a guardare il piatto di tutti noi, per
accertarsi
che avessimo abbastanza riso, abbastanza verdure, abbastanza salsa, che
fossimo
sazi o che non scottasse troppo. Solo di tanto in tanto prendeva un
boccone
dalla sua ciotola rosa, per poi tornare a posare lo sguardo castano
sulle sue
sorelle e su suo padre, con estremo affetto, e su noi ospiti con
gentilezza. Se
non fossi stata sicura che era davvero una delle figlie di Soun, avrei
creduto
che fosse la moglie, tanta era la dedizione con cui si prendeva cura di
ogni
minimo particolare. Kasumi era quella che, nella New York del nostro
secolo,
consideriamo una razza ormai estinta: una ragazza di altri tempi.
Dolce,
gentile, premurosa e con solidi valori. In America le ventunenni di
questo
genere possiamo ammirarle solo in qualche bel romanzo ottocentesco.
Alla destra di Soun invece, sedeva sgraziatamente Genma, che non
smetteva
nemmeno per un secondo di elogiare, a volte in giapponese, altre in
inglese, la
“fantastica cucina di Kasumi”, sputacchiando su
tutto il tavolo pezzetti di
cibo e ridendo a squarcia gola con l'amico al suo fianco.
Si vedeva subito che era un uomo simpatico ed allegro e,
chissà per quale
strano motivo, mi ricordava un orso, o meglio un paffuto e divertente panda.
Proprio alla destra di Genma, sullo stesso lato del lungo tavolo, come
una
statua di durissimo marmo, sedeva Ranma, che creava uno strano
contrasto con il
padre. La schiena dritta e i muscoli delle braccia in bella vista, non
sembrava
far caso a nessuno se non alla sua ciotola azzurra stracolma di riso.
Solo ogni tanto, e fu una cosa a cui feci caso dal primissimo momento,
guardava
di sottecchi Akane. Non le parlava, come non parlava a nessuno degli
altri, ad
eccezione di Genma a cui rivolgeva, circa ogni cinque minuti, insulti
di ogni
genere, ma, inclinando leggermente la testa verso di lei, per un
impercettibile
attimo, la fissava con i bellissimi occhi blu semi chiusi e l'ombra di
un
sorriso sulle labbra, e poi tornava a guardare davanti a sé.
Al suo fianco, così vicina a lui tanto che le loro gambe si
sfioravano, con la
ciotola di riso gialla, sedeva lei, Akane.
Akane, forse perché aveva la mia età, forse
perché era stata lei a spedirmi la
lettera con la foto di famiglia, forse per un sacco di motivi, fu
quella che
sentii subito uno spirito affine. Non sapevo ancora niente di lei,
eppure
qualcosa mi diceva che era così simile a me....
Davanti alla più piccola delle Tendo, sull'altro lato della
tavola, seduta
diritta e composta, intenta a prelevare distrattamente il riso dalla
sua
ciotola verde scuro, c'era Nabiki che, con lo sguardo attento ma
ostentando una
finta indifferenza, guardava tutto e, lo sapevo, faceva caso ad ogni
minimo
dettaglio. Capii subito che era la ragazza più sveglia della
casa, acuta e
penetrante, scaltra e sofisticata. La guardavo mentre si passava le
bacchette
fra le dita con noncuranza, mentre mi studiava o osservava la sorella
seduta di
fronte a lei, oltre il vaso bianco che tratteneva a stento un lungo
ramo fiorito.
E poi c'ero io, a capotavola, che cercavo in ogni modo di non far
trasparire il
dolore che provavo a star seduta in quella scomoda posizione,
inginocchiata davanti
al tavolo basso, con le lunghe gambe rannicchiate su un bel cuscino e
le
caviglie sovrapposte che non trovavano pace.
Io, che prendevo un chicco di riso ogni mezz'ora, rendendomi conto che
che,
mangiare in una vera casa giapponese, con vere bacchette giapponesi,
non era
come andare a China Town e prendere il take-away da gustare sul divano
di casa
credendo di essere un'esperta di posate orientali.
Io, che cercavo di rendermi invisibile agli sguardi penetranti di
Nabiki, di
capire le battute di Genma, che sorridevo mestamente a Kasumi, che
guardavo
ammirata Soun, che cercavo di non diventare bordeaux ogni qual volta
incrociavo
gli occhi di Ranma e che muovevo la testa in segno di
“sì” o “no” alle
curiose
domande di Akane.
Finito di
mangiare quello che mi parve essere la versione giapponese del pranzo
del Ringraziamento,
Kasumi insistette moltissimo perché andassi a farmi un bagno
caldo e a
riposarmi. Non provai neanche a dire di no, visto l'intera famiglia,
più o meno
ad alta voce, le dava ragione su tutta la linea.
Fu Akane ad accompagnarmi a fare un tour della casa, prima di spedirmi
a letto.
Per prima cosa mi mostrò il giardino, enorme e ben curato,
con un piccolo
stagno di acqua limpida da cui rimbalzava una tipica carpa salterina e
tantissimi alberi di specie diverse che facevano ombra sulle pareti
bianche
dell'esterno. Il tutto protetto da quel muro di cinta che era stato il
mio
benvenuto. All'interno di quel rigoglioso giardino faceva capolino un
altro
edificio, che non era grande come la casa, ma esteriormente aveva la
stessa architettura.
<< Questo è il dojo di
famiglia, la nostra palestra! >> mi spiegò
Akane facendomi entrare in un enorme salone ricoperto interamente da
assi di
legno chiaro e dal profumo intenso.
Rimasi incantata a guardarmi intorno, riflettendo sull’enorme
fortuna che avevo
ad essere capitata in una famiglia che possedeva un dojo, simbolo delle
arti
marziali, simbolo di forza e di rispetto, di tradizioni e di onori.
<< Chi di voi pratica le arti marziali? >>
le chiesi con il tono di
voce ancora estasiato e sognante.
<< E lo chiedi? Io! Non si vede? >> la
voce, che non somigliava
affatto a quella cristallina e acuta di Akane, ma era più
bassa e profonda, era
quella di Ranma che stava appoggiato senza grazia sullo stipite della
porta a
due ante e mi faceva l'occhiolino gonfiando il bicipite destro per
farne bella
mostra.
Sorrisi timidamente ma non ebbi il coraggio di dire che sì,
si vedeva eccome!
Akane, dal canto, suo prese ad urlargli frasi in giapponese di cui io
capii
solo “baka” che interpretai come
“stupido” visti i gestacci, provocando
le accese risate del ragazzo, che si stava allontanando.
Non appena quella che pareva essere una presenza ingombrante, almeno
per lei,
tolse il disturbo, Akane riprese il suo naturale colore perlaceo e mi
spiegò
che anche lei era un'artista marziale, proprio come suo padre e il
padre di
Ranma. Poi mi mostrò il resto della casa, costruita secondo
la tradizione, con parquet
e muri di carta di riso. La cucina, regno della sorella maggiore che,
ormai
avevo capito, era anche la mamma di quella strana famiglia allargata;
la sua
stanza, ordinata, profumata e tutta gialla; quella di Nabiki, con i
muri
tappezzati di fotografie, quella di Kasumi, piena di pizzi, merletti e
libri;
quella matrimoniale di Soun; quella spartana e poco ammobiliata di
Ranma e
Genma; quella vuota di qualcuno che “non si sarebbe
fatto vedere per un po'”
ed infine la mia, dove trovai il mio trolley e un futon ad attendermi.
***
Dopo una lunga dormita, mi svegliai
al tramonto, in quello che mi pareva ancora un sogno.
Sciolsi i capelli ormai mossi e scesi le scale calde e scure che
portavano al
piano di sotto, scalza ed intorpidita mentre un aroma di tè
avvolgeva, come in
un abbraccio, tutta la casa. Arrivata sull'ultimo gradino, uno scorcio
di luce
aranciata, che proveniva dal mio primo tramonto giapponese, mi
illuminò il
viso.
E lì mi accorsi che era tutto reale.
Che ero a casa Tendo.
Quella che poi avrei finito per chiamare solo casa.
Che ci sarei rimasta per tre mesi della mia vita.
I tre mesi più belli della mia vita.
Mentre mi avvicinavo alla porta scorrevole che dava sul giardino e
vedevo il
sorriso di Akane accostarsi a me, mentre guardavamo insieme l'ultimo
sole della
giornata che scendeva lontano, mi resi finalmente conto che quello che
dicono
sui viaggi è vero: la persona che parte non
è mai la stessa che torna.
Ed in questo caso, nel mio caso, la ragazza che tornò in
America, di sicuro non
era la stessa che era partita.
Ma io allora non potevo saperlo.
Come anni prima di me un ragazzo, anche io quel giorno non sapevo
ancora che
casa Tendo non ti lascia mai il cuore.
E
così ebbe inizio la mia storia, quella che vorrei
raccontarvi in questo
diario, che più che la mia è la loro.
E
così ebbe inizio un'avventura, la loro, la mia, la nostra.
Ed ora che
sono qui, in una sera d'autunno, seduta su una delle anonime sedie
bianche dell'aeroporto internazionale John Fitzgerald Kennedy e sulle
gambe ho
il mio fidato portatile “Apple”, perché
tutte noi bionde ed americane ci
sentiamo un po' Carrie Bradshaw, ve la racconterò.
Scusatemi fin
da ora se la mia narrazione vi risulterà noiosa, o piena di
dettagli inutili, o senza i particolari che voi desiderereste sapere
ma, ve
l'ho detto, sono
una viaggiatrice distratta.
***
(*)
La traduzione dovrebbe essere “Buongiorno, piacere di
conoscervi” mi scuso in
anticipo se c'è qualcuno che sa parlare bene il giapponese,
io conosco solo
pochissime frasi quindi ho usato il traduttore online, non vi offendete!
Eh così sono tornata! Mi dispiace per chi di voi sperava che
fossi sparita per
sempre ( lo so che eravate in molti, giù quelle mani).
Ebbene, una nuova avventura di cui, se siete arrivati fino qua, avete
appena
letto l'inizio.
L'idea sarebbe quella di farvi vedere la vita nella Nerima del nostro
tempo,
attraverso gli occhi castani di una ragazza qualunque, che potrebbe
essere me,
te, lei, l'altra, ognuna di noi.
(Mi pentirò di avervelo detto ma Judith ha dei tratti in
comune con me...) Non
c'è una vera e propria trama di fondo (tant'è
vero che volevo fare una raccolta
di one shot), sono solo attimi di vita, spezzoni, fotografie, giorni,
persone.
E poi vabbè, Ranma e Akane ed il loro amore, che non possono
mai mancare.
Bene,
passiamo alle note tecniche: lo so, il titolo è ripreso da
uno di quegli
orrendi film italiani con Scamarcio, ma (la frase, solo la frase) mi
piaceva
tanto, quindi...
Questa storia non è proprio un vero AU, anche se siamo in un
tempo completamente
diverso, per cui qualcosa potrebbe risultare un pelino OOC eheh.
Sappiate che, come sempre (chi mi legge lo sa) non ho linee guida e
scrivo
capitolo per capitolo, trasportata dall'ispirazione quando e se arriva
(a
proposito Vanni, ci sono anche con te, non mi sono dimenticata!) quindi
pazientate con me, ok?
Il
primo grazie alle mie stupende Faith84, Spirit99 e
VioletArmstrong2013 che sono
delle
fantastiche consigliere/ supportatrici/ rialzatrici di autostima :)
Il secondo grazie a chiunque leggerà e/o
recensirà, fa davvero sempre piacere.
Ho finito di scassarvi l'anima, al prossimo capitolo!