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Autore: Niji Akarui    05/05/2014    3 recensioni
Vivere?
Che cosa vuol dire?
Chi può spigare il significato di questo verbo?
È un termine così complesso che ha mille sfaccettature, il vivere si reincarna nell’amicizia, nell’amore, nel poter constatare attraverso questi sentimenti di essere reale e di appartenere a questo mondo, per quanto deteriorato e corrotto esso sia.
Vivere è camminare su questa terra, che la natura ci ha gentilmente concesso.
Ma se alla nascita la vita stessa ci precludesse la possibilità di esistere?
E se divenissimo col tempo uno spettro di ciò che saremmo potuti essere?
E se finissimo in un mondo fatto di dolore e oscurità?
E se poi trovassimo la luce?
And if we back to life?
Genere: Fluff, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Un nuovo giorno sorgeva sulla frenetica Seoul, città che non dava mai pace ai suoi abitanti, città nella quale le luci non si spegnevano finche il sole non sorgeva di nuovo ad illuminare le innumerevoli strade dove a quell’ora del mattino si riversava il profumo delle prelibatezze preparate dalle tante caffetterie , presto prese d’assalto da uomini o donne che correvano verso la loro postazione di lavoro, ma che di certo non volevano rinunciare ad un dolce risveglio.

Ma gli adulti non erano gli unici padroni delle strade, anche i giovani con il loro zaino in spalla si apprestavano a correre nelle loro rispettive scuole, per seguire un'altra sfiancante giornata scolastica, alleviandola grazie alle loro amicizie, alle persone che amavano e che proteggevano, grazie ai loro sogni per i quali stavano lavorando.

Tutto questo era ben visibile dalla camera di Junhong, il quale come tutte le mattine appena sveglio si apprestava a guardare fuori, immobile nel suo letto, grazie a quella finestra non esageratamente grande e nemmeno toppo piccola, contornata dal tende azzurrine e pareti bianche, che gli offriva un’ottima visuale su quel mondo che pareva andare avanti anche senza di lui.

In fin dei conti a lui bastava guardare oltre quelle lunghe e magnifiche gambe che aveva, una maledizione le aveva definite, così notevoli e così inutili, sin dalla nascita erano rimaste paralizzate, sin da quando era bambino non aveva mai provato quella gioia che molti esseri umani trovano scontata e provano ossia quella di camminare, lui guardando attraverso quella finestra sognava, sognava di diventare un famoso ballerino, un acclamato idol, sognava di poter fare tutti gli sport che più gli piacevano, sognava di avere amici che lo amassero, sognava… di rientrare a far parte della categoria dei “normali” … e poi c’erano giorni, in cui riconosceva che si stava solo crogiolando nel suo dolore e questo non faceva che renderlo patetico, lui sapeva perfettamente che c’era altra gente come lui, e così nemmeno la soddisfazione di poter essere in qualche modo speciale non era mai arrivata per lui.

-Jun sei sveglio? Sto entrando- ed ecco la voce di sua madre che come ogni mattina faceva capolino da dietro la porta, per venirgli a portare la colazione.

Llui odiava profondamente quella donna, la stessa che lo aveva costretto a quel miserabile genere di vita.

Ormai Jun aveva accresciuto così tanto quel disprezzo che da parecchi mesi non parlava più, non permetteva a nessuno di ascoltare la sua voce, non che nessuno lo volesse alscoltare, lui semplicemente rimaneva in silenzio a contemplare il mondo che gli scorreva veloce sotto gli occhi.

La madre si avvicinò al letto, si sedette sulla sedia di fianco al letto, posò sulle gambe il vassoio e prese e una piccola porzione di ciò che quella mattina gli aveva portato come colazione – oggi ti ho preparato una buona crostata di fragole, mi sono alzata presto per farla- sorrise, poi sapendo che non avrebbe ricevuto nessuna risposta, imboccò il figlio, il quale consumò il tutto senza emettere un suono, senza lamentarsi o senza dimostrare di gradire ciò che la madre con amore gli avesse preparato.

Lo imboccava con lentezza e pazienza, dandosi come ogni giorno la colpa del male che affliggeva il figlio e che giorno dopo giorno le martoriava il cuore ormai mal concio.

Dopo aver concluso la colazione, la signora Choi gli rimboccò le coperte e gli diede un leggero bacio sulla fronte, per poi lasciarlo nuovamente sol con i suoi indecifrabili pensieri.

Il ragazzo dopo una buona oretta, stanco di guardare le strade ormai del tutto sfollate, voltò il capo verso il televisore e cercò un programma musicale che lo aggradasse, la musica era ciò che più lo aggradava e rendeva la vita monotona di tutti i giorni più sopportabile, ed era proprio in momenti in cui credeva di essere solo in casa che alzava il volume del televisore e cantava, cantava col cuore, emettendo una voce così melodica che sarebbe in grado di scogliere il cuore di chiunque, eppure sebbene lui credeva di non avere ascoltatori poiché si vergognava di quel talento, che irrefrenabilmente lo portava sperare, a sognare e a credere che un giorno tutte quelle fantasie sarebbero divenute… realtà; la madre si accucciava dietro la porta della sua camera, quando le giornate per lei si facevano davvero dure, quando aveva bisogno di staccare da quell’orrenda vita che anche lei conduceva, un pomeriggio era rientrata in casa senza fare rumore, e si era accorta che il figlio cantava, stava usando la sua voce che già da un paio di mesi non sentiva più, d’allora fingeva di uscire giusto per sentire il figlio e per sentire così più leggero il suo cuore, reso meno pesante da quelle magnifiche note.

Ormai erano giunte pressoché le dieci del mattino così la donna tornò nella camera di Junhong per lavarlo. Il ragazzo nemmeno in quelle situazioni opponeva resistenza, sapeva che se lo avesse fatto avrebbe reso l’agonia di dover guardare il suo gracile corpo nudo troppo a lungo, lo aveva appreso da bambino, più o meno a nove anni, quando di fare le spugnature proprio non ne voleva sapere, per non parlare del bagno, vederlo attrezzato in maniera particolare solo per lui gli faceva venire il volta stomaco, mai avrebbe accettato quella situazione che lo vedeva come un disabile, non che avesse qualche cosa contro di loro, anzi li comprendeva troppo bene ma mai avrebbe ammesso la sua “anormalità”.

-alza il braccio Jun- il ragazzo eseguì l richiesta senza dire nulla, sperando che quel terribile momento si concludesse il prima possibile – ecco fatto tesoro- la madre raccolse la bacinella dell’acqua e la portò via andando poi a gettarla nella vasca da bagno, era il momento di tornar alle faccende di casa, faccende svolte in una casa ormai diventata troppo grande, il suo primo genito studiava in un’altra città e per quanto ne fosse felice certe volte le mancava, e poi c’era suo marito, che però non faceva più ritorno in quella casa, non che le importasse aveva sempre taciuto ma sapeva perfettamente di essere stata abbandonata perché non più amata e quindi tradita, si era chiesta con chi, se fosse più giovane, si era chiesta in che cosa avesse sbagliato, si era chiesta perché doveva rimanere proprio lei da sola, aveva pianto in solitudine finché un bicchiere di vino giornaliero, da lei molto amato, non aveva iniziato ad esserle di compagnia, col tempo poi quei bicchieri erano aumentati, e mentre Jun dormiva , si ritrovava con la testa fra le mani a vomitare nel bagno dei quell’enorme casa nella quale ormai nessuno più viveva…

L’ora del pranzo arrivò presto e passò tant’altro velocemente fino a giungere ai primi momenti del pomeriggio, quella era la parte del giorno che Jun preferiva, poiché sotto casa sua vi era un vecchio parco, con qualche albero e poca erba, in compenso con quella terra era più facile, per i soliti i ragazzi che si riunivano la sotto, creare il diamante, il tipico campo utilizzato nello sport del baseball; infatti nemmeno quel giorno tardarono ad arrivare, presto presero un rametto ed approssimarono i limiti del campo utilizzando poi delle pietre come contorni per le basi, a lui piaceva immaginarsi fra di loro, che erano così legati, che non trovavano mai un vincitore perché l’importante era divertirsi tutti insieme.

Presero guanti, mazze e la palla per poi posizionarsi nelle rispettive posizioni e giocare.

Youngjae si apprestava a lanciare con tutta la forza che possedeva nel suo braccio destro, convinto più che mai che quel giorno a battere il suo compagno di giochi Yongguk, che era alla battuta, l’altro dal suo canto non intendeva di certo fasi vincere da un ragazzo più piccolo di lui, quindi si mise sull’attenti pronto a non farsi sfuggire il colpo , dietro di lui a ricevere c’era Himchan, coetaneo di Yongguk, il quale faceva segno a Jae su quale tipo di lancio avrebbe dovuto eseguire, in fine poi nel momento in cui il battitore avesse preso e respinto il colpo con la sua mazza, Daehyun, miglior amico di Youngjae  e Jongup il più piccolo del gruppo avrebbero preso la palla proprio per eliminare il maggiore.

Giocarono per un’oretta buona fino al momento in cui un raggio solare non accecò il battitore che impossibilitato a indirizzare la palla la colpì a caso facendola volare contro una finestra che finì per infrangersi  -oh cavolo!- esclamò Daehyun seguito poi dagli altri, che avevano lasciato le loro postazioni per raggrupparsi in un punto dal quale la visuale sarebbe stata migliore.

-Questa volta non credo la farai franca- se la rise Youngjae – sta zitto, è una cosa seria- lo ammonì Himchan, Yongguk no prestò loro molta attenzione, poiché corse via, non intendeva scappare, lui era un’anima buona, un’anima pura, un paladino d’altri tempi, un uomo che riconosceva ed ammetteva sempre il suo errore, per cui fece il giro del palazzo fino a quando trovò l’entrata ringraziò il cielo poiché era stata lasciata aperta, a quel punto vi si fiondò all’interno correndo su per le scale, aveva calcolato che molto probabilmente il piano al quale si dovesse fermare fosse il settimo così una volta arrivato suonò un campanello – si chi è?- la voce di un uomo inondò i suoi timpani, si sentiva terribilmente in colpa, dopo poco un uomo sulla cinquantina gli aprì la porta – mi scusi ma…- si bloccò poiché senza fiato, piegandosi su se stesso e portandosi una mano sul petto  -qualcuno le ha rotto la finestra?- il signore inclinò il capo e poi lo scosse – senta saprebbe indicarmi quale appartamento di questo piano si affaccia sul parco qua dietro?- l’uomo ci pensò un attimo poi  gl’indicò la porta alle sue spalle –grazie- Yongguk fece un inchino poi suonò il campanello con la scritta Choi – si chi è?- una donna sul metro e sessantacinque dai capelli corti, castano scuro e gli occhi piccoli e di color nocciola aprì la porta –dimmi ragazzo?- le chiese gentilmente la signora – senta credo di averle rotto…- Yongguk non completò la frase che fu trascinato dentro – oddio grazie al cielo non sei andato via, vieni mio figlio sembra diverso, devi incontralo, è successo in camera sua…- la donna parlava ma il ragazzo aveva smesso di ascoltarla non capendo cosa stesse dicendo, poi si trovò innanzi ad una porta che venne aperta e fu catapultato all’interno della stanza, dalle pareti bianche illuminate dalla luce che filtrava dall’unica finestra della camera che andava poi a bagnare la figura di un ragazzo sui sedici anni, coi capelli neri e il viso da bambino, la pelle candida e gli occhi scuri, le labbra rosee che sotto quella tenue luce lo facevano assomigliare ad un angelo, seduto li su quel letto come se nulla fosse, come se non sapesse di appartenere ad un regno elevato a quello degli uomini, era li immobile con un sorriso stampato sulle labbra che guardava una pallina da baseball finitagli sulle gambe, Yongguk allora si avvicinò al letto e subito gli saltò all’occhio una sedia a rotelle coperta da un leggero strato di polvere risposta in un angolo della camera come a voler essere dimenticata, poi senza fiatare, raggiunse la sedia affianco al letto di Junhong e gli sorrise – piacere io sono Bang Yongguk e… ho appena rotto la tua finestra- a sentire quella voce profonda, mai udita prima Junhong sussultò voltandosi verso un ragazzo dai capelli scuri rasati ai lati, la sua pelle era olivastra, ciò che saltava all’occhio di quel corpo tonico era di certo il sorriso gengivale che in quel momento poteva osservare, una mano dalle dita affusolate e lunghe  era protesa verso di lui.

Era stato preso in contro piede, non sapeva perché, non voleva nemmeno sapere il come ma le parole uscirono veloci dalla sua bocca , come se sentire la sua voce lo spaventasse, e la sua mano andò a stringere quella dello sconosciuto – piacere io sono Choi Junhong-.

E fu in quella camera, sotto gli occhi lucidi di sua madre, e grazie a quella sua finestra sul mondo che al col tempo era divenuto uno schermo in grado di proteggerlo da quella che sarebbe potuta essere veramente la vita reale nuda e curda, e che lo aveva diviso dal mondo ormai infranta, che Junhong vide nell’oscurità di quei giorni una speranza che da tanto, troppo tempo attendeva.

I due si strinsero saldamente la mano, come solo due persone che si fidano l’una dell’altra fanno e si scambiarono un’inspiegabile sensazione di calore e pace.

 


 ANGOLO DELL'AUTRICE:

Hola!!! bene ragazze sono qui con questa nuova fanfiction, si lo so un povero ed adorabile Zelo che non può camminare è davvero crudele, ma non è colpa mia se con 40 di febbre sono queste le idee che mi nascono in mente, cosa ne pensate voi, vi ha messo tristezza? beh allora ho fatto il mio dovere, aspetto le vostre recensioni, i vostri pensieri e aspetta il prossimo capitolo de : "Il Canto di Saejin" ^^ alla prossima!!! >.< 

  
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