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Autore: marani    07/05/2014    1 recensioni
Il primo dei due racconti che fa parte della mia personale 'bilogia' dedicata alle due persone che mi hanno messo su questo mondo. Un 'posto' anomalo e magico. Un bizzarro testamento verbale. Una tormentata discesa nel profondo dei rimpianti e dei rimorsi, alla ricerca di una innocente fanciullezza che razionalmente parebbe persa per sempre. A meno che...
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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6.

(TLAC)
Grossomodo, diventammo amici. Di certo con lui instaurai una frequentazione degna di tale nome, molto più che con qualsiasi altro mio conoscente, collega o altro, perlo­me­no negli ultimi tre o quattro anni. E non mi venne mai troppo da pensare che fosse suo­nato. Non lo pensai e non lo penso ora, no­nostante la faccenda del non riuscire a fare quattro passi in più su un banalissimo viottolo di campagna mi ristagnasse dentro co­me un pezzo di legno imprigionato in un gorgo lento e infinito. Forse, la cosa che rendeva accettabile quel particolare “blocco” era il fatto che io stesso provassi la me­desima, bizzarra sensazione. Sempre che l’arzillo omino non mi stesse prendendo per i fondelli, ma que­sto presumo che avrei potuto scoprirlo presto. Ad ogni modo, mi preoccupava leggerissimamente il fat­to di paralizzarmi là, a pochi centimetri dall’imbocco del ponte, come se cadessi preda di qualche fan­tastico incantesimo, ma non tan­to da spingermi a parlarne con qualcuno (con qualcuno un po’ più fer­rato in materia del vecchio, intendo), né ancora meno da forzarmi a non effettuare il mio consueto gi­ro serale. Non mi dava l’impressione di una fobìa, ecco, e mi sarei certo allarmato di più se all’improvviso avessi manifestato crisi di panico all’idea di interagire coi clienti della banca, o cose del ge­nere. E poi le chiacchierate con Aristide, anche se non sempre chiarivano i nostri dubbi reciproci, an­zi, erano abbastanza esaurienti. In fondo era l’unico con il quale poter parlare di quell’argomento specifico. Ripeto, il mio giro di a­micizie si può contare sulle dita della mano di… un monco, e non mi ci vedevo proprio ad esporre le mie discutibili teorie con qualche collega d’ufficio. Non dico che a­vrebbero chiamato il 113, ma di sicuro la già scarsa considerazione nei miei confronti a­vrebbe subìto un brusco tuffo verso il basso. Con quel tizio, al contrario, le cose erano diverse. Nessuno dei due pareva possedere e­lementi fondamentali e chiarificatori (io per niente, lui qualcosina di più, in virtù di un’osservazione empirica che andava avanti da oltre dieci lustri), ma potevamo parlarne con sereno distacco, come due vec­chi gentiluomini che presto o tardi avrebbero de­ciso di intraprendere la strada del mare, ma che per il momento preferivano rimanersene sulla riva a fissarne la maestosa immensità. Ci piaceva di­scuterne, in definitiva, quasi ne ricavassimo una sorta di complice soddisfazione. Lo facevamo come due ap­passionati d’arte di fronte ad un incomprensibile dipinto di arte moderna, o due tifosi della me­­desima squadra di calcio. Al di là della scaramuccia iniziale, nessuno dei due pro­vocò più l’altro sulla presunta incapacità di giungere alla sommità dell’argine, in una sorta di tacito rispetto per quella che ritenevamo in tutto e per tutto una debolezza u­mana e personale. Solo in un occasione, nella quale mi sentivo particolarmente “euforico” (quel pomeriggio mia madre non mi aveva scambiato per un lontano cugino o per il lattaio, al contrario, deliziandomi coi racconti di quando mi portava al mare, poco meno di mezzo secolo fa, agghindato con un bizzarra mantellina-asciugamano rossa ed un cappellino a punta che mi facevano desolatamente assomigliare ad un clown del circo in mi­niatura) mi era venuto il ghiribizzo di provocarlo, proponendogli di punto in bianco di compiere assieme il Grande Passo. Di mettere al bando le ciance, per capirci, ed at­traversare fianco a fianco quel supponente ponticello. Vaila, amigo, fuera el dente fuera el dolor. L’im­per­tinente frase, in effetti, prese a formarsi nel fondo della gola, già pronta a trasferirsi sulla plancia di lan­cio della mia linguaccia in attesa dell’ok al de­collo. Questo prima che un’immagine mentale, nitida e glaciale, non mi “sfolgorasse” all’interno della testa. Mi vidi sul ciglio di uno scoglio a strapiombo sul mare (molto a strapiombo) mentre, per fare un po’ lo spiritosone, pungolavo il mio vicino di “precipizio” (se fosse o meno il vecchio Aristide è un dato assolutamente privo di in­teresse) a compiere un dissennato tuffo in coppia. Stra-certo che il mio pavido e sconosciuto interlocutore a­vrebbe risposto “non se ne parla nemmeno”, e beandomi nel contempo della sua ovvia “tremarella” al solo pensiero. Invece il tizio, contro ogni più lo­gica e saggia previsione, non solo ribatteva “oh ma certo parliamone” ma addirittura, senza darmi il tempo di fiatare, afferrava il mio polso in una morsa ferrea, trascinandomi senza pietà verso l’abisso. Nell’istante in cui quella vivida fantasia mi ricacciava in gola quel tentativo di fanfaronata, il mio viso dev’essersi fatto livido come quello di un ca­da­vere, tanto da spingere il vecchio a sincerarsi se tutto era okay, con un’espressione premurosa e preoccupata. Inutile dire che da quel momento in avanti ul­teriori spacconate che avessero come o­biettivo il superamento di quella nostra personale “linea del Piave” divennero alquanto tabù. Di solito io arrivavo nei pressi di casa sua, sprizzando sudore da tutti i pori (non di­mentichiamo che l’o­biettivo principale delle mie pedalate era quello di tenermi in for­ma, nei limiti del possibile, ed e­ra­vamo ormai giunti a metà luglio, con la ciclabile che sembrava fondersi sotto il sole, nonostante fos­se tardo pomeriggio) e lui mi scorgeva da qualche finestra del pianterreno. Veniva verso di me, so­­litamente scortato dalla si­nuosa compagnia del trio Stella-Romeo-Taddeo (tre diffidenti ed altezzosi gatti, come a­­vevo giustamente ipotizzato) impegnati a sgusciare attraverso le sue gambe come pic­­­coli squaletti pelosi. Possedeva anche una specie di cane, piccolo e brutto e isterico (ri­cordava mol­­to un poggiapiedi semovente) che durante i primi dieci minuti in cui a­ve­va a che fare con un e­stra­neo (ed io per lui rimasi estraneo a vita) non la smetteva di tremare e uggiolare e schizzare pipì in giro, simile ad un indemoniato canino. Io e il mio nuovo amico restavano in piedi, ognuno dal pro­­prio lato della bassa recinzione che divideva la ciclabile dal giardino arido. Mi avrà sollecitato ad en­­trare almeno un fan­tastiliardo di volte, ma io ho accolto il suo cortese invito solo in poche, eccezionali oc­casioni, perché mi dava l’assurda idea di “tradire” lo spirito dell’impegno fisico. Star­sene là scomodamente separati dalla trama rugginosa della rete divisoria manteneva al contrario una sorta di “precarietà”, come se la sosta fosse casuale e temporanea (pur se la durata di quelle “partite di chiacchiere” era di ben lunga superiore al tempo im­piegato per compiere l’intero percorso ciclabile) mentre, al contrario, lo spaparanzarsi sulle cigolanti ma accoglienti sedie pieghevoli, sotto l’invitante ombra di un ci­liegio, equivaleva ad ammettere tutta la mia debosciata indolenza. Eb­bi modo così di conoscerlo bene, e di ammirare la serena semplicità attraverso cui ve­deva le cose del mondo. Era vedovo, e da alcuni suoi vaghi accenni non mi aveva dato l’idea che la perdita della consorte lo avesse più di tanto sconvolto. Succede, no ? Er­rori di valutazione, in fondo son situazioni in cui ci si imbarca a scatola chiusa. C’è gente, come il sottoscritto, che darebbe quello che ha di più prezioso (e se ne fosse sprovvisto sarebbe pronto a rubare e depredare e uccidere) pur di riavere a fianco la compagna con cui sperava di passare una vita, e altri che trovano la pace solo nel ca­suale mo­mento in cui il loro rapporto affettivo viene sciolto per qualche motivo. A quanto ho capito, non a­­veva nemmeno parenti che abitassero in zona, con i quali intrattenere rapporti di un certo spessore. L’unica figlia si era trasferita nella bassa Pa­do­vana subito dopo il matrimonio, ormai da tempo im­me­­morabile, e si sa come vanno queste cose. Non si trova mai il tempo di fare una visita, e c’è sempre qualcos’altro da fa­re, e alla lunga ci si riduce (nel migliore dei casi) ad una telefonata ben poco sentita in occasione delle festività comandate. In pratica era solo, come chi vi sta parlando in questo mo­mento, e l’unica precaria compagnia gli veniva dalle scostanti attenzioni dei gat­ti, dai quali anche il pavido poggiapiedi canino, che di nome faceva Poldo, sembrava starsene prudentemente alla lar­ga. Tornando a noi, comunque, il vecchio aveva ra­gione riguardo alla “cecità” dei passanti nei confronti del viottolo. Io gli feci visita qua­si ogni giorno, per circa tre mesi, e non ce ne fu uno, adulto o bambino, a cui capi­tas­se di bloccarsi là com’era successo a me. Era diventata una sorta di gioco-scommessa, tra noi, quella di indovinare il tempo di “permanenza” dei vari viandanti in quel dato punto della ciclabile. Perché, vedete, a tratti pareva che qualcuno… in qualche modo… intuisse qualcosa… In alcuni perlomeno, a differenza del grosso dei passanti che scivolavano via senza il mi­nimo indugio, pareva subentrare una sorta di fu­gace “incertezza”. Tipo quando avete esigenza di far­vi venire in mente un particolare im­portante, determinante, un numero di telefono, un’indirizzo, un volto, che invece tenta di sfuggirvi, il bastardello, sgusciando tra le pieghe della memoria. Avete pre­sente, no ? Quell’attimo in cui fisicamente sembrate presenti ma in realtà siete in tutt'altro posto con la testa. Quella è l’impressione che davano i (rari) “ispirati” mentre, a differenza della massa di pe­coroni insensibili, venivano per un fugace attimo at­tratti dalla presenza del viottolo. Ed ogni volta a me veniva l’irrefrenabile impulso di mettermi a sbraitare “Razza di coglioni !!! Ma non riuscite proprio a vederlo ?!? E’ lì, lì, giusto DIETRO LE VOSTRE SPALLE !!!”. Grazie al Cielo qualcosa, forse un intervento in extremis della mia più assennata coscienza, mi evitava una figura ben poco de­­corosa. Impedendo nello stesso tempo al malcapitato “non vedente” di turno di tornarsene a casa con un succoso aneddotto sulle sorprese della ciclabile da raccontare. Sai, cara, oggi ero lì che mi fa­ce­vo la solita pedalata, quando un tizio, dall’aria apparentemente normale e distinta, E’ ANDATO VIA DI MELONE !!! Il mio compagno di “recinzione” pareva prenderla con molta più filosofia, sulla scorta di una maggior frequentazione in materia, continuando placido a disquisire del più e del meno. Ogni tanto, quasi in maniera automatica, si chinava per elargire una carezza ad uno dei gatti, che immancabilmente si scostava sdegnato, o a Poldo, il cane-poggiapiedi, che al contrario diveniva preda di un sussultante orgasmo per l’emozione. Par­lavamo di tutto, io e Aristide, non solo del bizzarro argomento che ci accomunava. Sul­le prime, a dire il vero, i commenti sul viottolo furono titubanti e circospetti, al­meno da parte mia, in un comprensibile tentativo di “annusare” le reazioni e i punti di vi­sta del vecchio, prima di decidere di scoprire in toto le carte. Ve l’ho detto, non mi tur­ba più di tanto che la gente si faccia l’idea di avere a che fare con uno che, come si di­ce dalle nostre parti, non ha tutte le fa­scine al coperto, ma dichiararmi spudoratamente così al primo appuntamento… Chiacchieravamo di tutto e di niente, del tempo, del governo, delle tasse, della televisione dove ormai non facevano più niente che non fos­se pubblicità o scemenze. Gli raccontai di mia moglie, dei tempi meravigliosi in cui sta­va bene e dell’inferno della malattia, e poi di mia madre. E il fatto che lui mi ascoltasse con in­teresse ed attenzione, intervenendo a tratti con poche, pertinenti frasi (c’è ben poco da dire, quando si vivono determinati incubi) alimentò in me l’ottima im­pressione che mi aveva suscitato fin dal­l’i­nizio. A poco a poco, in ogni caso, man mano che si rafforzavano la stima e la simpatia reciproca (e l’amicizia, se non la considerate una parola troppo grossa) i nostri discorsi pre­sero a convergere sempre più insistenti attorno ad un argomento ben definito, come uc­cellini ancora sospettosi che non si fidano troppo di posarsi sul ramo di un albero so­lo in apparenza privo di insidie, e fu così che venni a co­noscenza di tutto quello che so­no in grado di dirvi (del poco che) sul viottolo e dintorni.
(TLAC)

7.

Una volta qui era tutto così, mi disse indicando il viottolo, e riferendosi a tutto l’ambiente circostante. Non facevo nessuna fatica a credergli. Se solo la campagna che ci cir­condava, mondata da traffico e fabbrichette e villini da geometri, avesse rispecchiato anche un decimo della bellezza di quell’angolo, non ci sarebbe stato niente da invidiare ad altri scorci naturalistici ben più celebrati. Mi raccontò con tono leggero di rim­pianto e piacere dell’acqua trasparente del canale, in cui guizzavano pe­sci dai ri­flessi argentati e rane chiacchierone, col baluginìo smeraldo di qualche libellula che in­­crespava a tratti l’immobilità dell’aria. Nelle infinite giornate d’estate, assieme ai suoi coetanei delle nu­merose fattorie sparse per i dintorni, era prassi quotidiana far compagnia alla popolosa fauna acquatica, cullati dalla colonna sonora infinita di le­gioni di invisibili cicale. Ci tuffavamo da là, giù di sotto come bombe, disse indicando una scrostata passerella pedonale che dalla strada permetteva l’accesso ad un nucleo di case al di là del corso d’acqua (decisamente brutta rispetto al ponticello a po­chi pas­­si da noi, ma lui si affrettò a precisare, come se avesse potuto leggermi nel pensiero, che non era in grado di ricordare se già a quel tempo esistesse una sorta di ostracismo collettivo nei confronti del ponte). Era solo che la scelta dell’utilizzo a mò di trampolino era caduta sulla meno suggestiva passerella, commentò, e nessuno di loro a­veva tempo e voglia di porsi tante domande. Non c’era traccia della zona industriale ar­ti­gianale, ovviamente, nemmeno nelle intenzioni delle sciagurate giunte comunali de­gli anni ancora a venire, e il banale luogo comune del qui una volta era tutta cam­pagna, in quel particolare frangente, non era niente più che la cruda verità. Il periodo a cavallo tra l’infanzia e l’adolescenza sembrava essere quello che rimpiangeva di più, al­meno in base alla fre­quenza con cui ritornava nelle sue descrizioni, attraverso le quali cercava di farmi comprendere al me­glio… di più, a fare in modo che io potessi quasi riuscire a “vedere”… le cose che aveva vissuto. Non erano certo stati tempi facili, tutt’altro, scarse possibilità economiche (per usare un banale eufemismo) la fame, la guerra, e in ogni caso il ricordo che ne conservava gli faceva brillare gli occhi co­me un bimbo in un luna park. Era legatissimo a quel periodo, e alla madre che, a suo dire, a­veva rap­presentato la figura più importante di tutta la sua vita. Come vi ho accennato, le volte in cui ho accettato la sua cortese ospitalità varcando il cancelletto del giardino si possono contare sulle dita di una mano, ed in un'unica occasione ho messo piede all’interno della casa. Sì, lo so, rischio per l’ennesima volta di passare per bizzarro e misantropo ma, a dif­ferenza della simpatia che l’uomo mi ispirava, non ero per niente attratto dall’idea di conoscere i luoghi in cui viveva. Non so, la sua solitaria condizione, così simile alla mia (se proprio avevo vo­glia di un campionario di piatti sporchi nel lavello e odore di chiuso era sufficiente che non mi muovessi da casa), in quell’abitazione così grande e vuota. E poi la prevedibile presenza di in­confondibili “puzze di gatto” in grado di riportarmi mio malgrado agli ultimi momenti di mia madre nel suo mi­nuscolo appartamento… non so come spiegare, ma proprio non mi andava. Forse aveva qualcosa a che fare con la mia discutibile incapacità di mi­surarmi con la vecchiaia e la solitudine, anche se in confronto alle “mummie” che im­perversavano nei corridoi della casa di riposo il mio maturo amico era di una vitalità invidiabile, così ci volle un terrificante acquazzone scatenatosi quasi senza preavviso per costringermi a varcare la soglia di quella casa. Come spesso mi succede, andò me­glio delle mie catastrofiche previsioni, grazie al Cielo. Non era una reggia, questo no, la pensione di ex-meccanico non gli consentiva lussi sfrenati e dissennati, ma l’accogliente cucina d’altri tempi in cui mi fe­ce accomodare sapeva di buono. Ci concedemmo un caffè nient’affatto male, mentre ascoltavamo i boati fragorosi dei tuoni di un temporale estivo con i controfiocchi, sbirciando dalle finestre la ci­clabile deserta fla­gellata da valanghe d’acqua che scuotevano il grosso gelso all’imbocco del viottolo. Senza apparentemente impressionarlo più di tanto. Una vaga quanto insistente traccia-fantasma della presenza dei gatti persisteva nell’ampio locale, ma il profumo di pulito e di caffè appena fatto riu­sciva a sopraffarlo senza troppa fatica. Soddisfatto di quella situazione, lasciai vagare lo sguardo in gi­ro. Appeso sopra all’immancabile fo­colare che troneggiava maestoso (potendo disporre di un bel gruzzoletto di quattrini qui ci si potrebbe tirar fuori un posticino coi fiocchi, ricordo di aver pensato mentre il vecchio armeggiava con la caffettiera) c’era un ritratto fotografico sbiadito dal tempo, raf­figurante una bella signora in abiti eleganti, dall’apparente età di trent’anni, dalla chioma fluente che le si spandeva sulle spalle e un vezzoso neo giusto sotto l’occhio si­nistro. Con delicatezza, m’informai su chi fosse e lui, rimirando il quadro con sguardo quasi sognante, mi confermò che si trattava della sua adorata madre. Non era bellissima ?, mi chiese con la voce colma di orgoglio e, al mio convinto cenno di assenso, soggiunse che, in ogni caso, il bianco e nero della foto (il bianco e sep­pia, dato che quella posa doveva esser stata scattata all’incirca negli anni ’30 o giù di lì) non le rendeva appieno giustizia. Non è in grado di mostrare il suo lato più bello, precisò indicandosi con un buffo gesto semicircolare la zucca pelata, a differenza del sottoscritto, i suoi capelli era lunghissimi, e di un rosso che toglieva il fiato…Ce ne restammo lì al tavolo della cucina ancora un po’, illuminati a tratti dai lampi si­mi­li a flash di ci­clopiche macchine fotografiche, sempre più radi e fiochi, finchè il cie­lo, seppur burrascoso di nubi co­lor carbone, non decise di smetterla di innaffiare i cam­pi riarsi dalla calura estiva. Subito dopo pre­si a pedalare con calma in direzione di ca­sa, con un maglioncino del vecchio sulle spalle (come spesso succede, l’improvviso acquazzone aveva abbassato di molto le roventi velleità dell’afa), che non avrei potuto u­tilizzare in altro modo, considerata la notevole differenza di taglia, ed un in­volto con sei uova appena scodellate dalle galline, tenuto con delicatezza nella mano destra. Per en­­trambi, ma­glione e uova, era stato vano e sprecato ogni mio tentativo di oppormi a quella cortese premurosità. Quando ci si metteva, il vecchio Aristide sapeva essere ir­re­sistibilmente convincente. Col passare del tempo, e l’intensificarsi delle visite, venni a conoscenza di ulteriori particolari ri­guardo a quel posto. L’anziano mi confermò un’infinità di volte (come se io faticassi a credergli, mentre in realtà a quel punto non la trovavo più tanto strana, co­me cosa) di non aver mai oltrepassato il li­mite formato dall’imbocco del ponte. Né tantomeno, e questo forse suonava già un po’ più bizzarro, aveva ricordi di averlo vi­sto fare ad una qualsiasi altra persona. In tutti questi anni ?!, non riuscii a fare a meno di sbottare io. In tutti questi anni, mi confermò, fissandomi pacioso dal di là della rete di recinzione. A quel punto, in realtà, la confidenza e la cordialità che si era instaurata tra noi permetteva di poter sputare frasi istintive che in qualunque altro frangente a­vrebbero potuto passare per im­pertinenti. Nessuno nessuno ?, incalzai io, deciso a non mollare l’osso (e, magari inconsciamente, riu­scire ad incastrarlo) Nemmeno, che so, un contadino, un cacciatore, qualche ragazzino curioso… Ca­voli, dovrà pur essere di qualcuno, quel dannato pezzo di terreno !. Aristide mi aveva fissato sgranando i grandi occhi amplificati dalle spesse lenti degli occhiali, come faceva ogni qualvolta un mio sanguigno moto d’insofferenza sull’argomento mi faceva andare (bonariamente) fuori dai gangheri. Gliel’ho detto, è proprietà del demanio, precisava paziente, e a quanto mi è dato sapere, non ho mai visto ronde di guardie demaniali effettuare grandi manovre in mia presenza… Come al solito, non si capiva mai bene (o perlomeno ero io, che non riuscivo a stabilirlo) se mi stesse prendendo per i fondelli un po’ oppure un sacco. E chiederglielo non avrebbe di certo fugato quel dilemma. Tutt’a un tratto, però, si era fatto serio, grattandosi la sommità della pelata, nel punto in cui il cranio appuntito ricordava quello di un segugio da caccia. Con questo NON voglio affermare che non vi sia mai salito nessuno in assoluto, borbottò, quasi rivolto a sé stesso. Venne distratto per un i­stante da un grosso camion lanciato a velocità del tutto criminale, che gettò lo scompiglio tra gli asfittici steli d’erba rinsecchiti lungo il ciglio della sta­tale, poi riprese: anche solo a livello di probabilità non reggerebbe, come cosa… e poi immagino che qualcuno le abbia avute, le proprie buone ragioni, per passare al di là…Quella frase sconclusionata mi si piantò in testa come un chiodo sparato a velocità su­per­sonica, ri­manendovi conficcato per alcuni giorni, durante i quali non potei impedirmi di rimuginarci su ad o­gni occasione buona. Poi quel tormento sembrò scomparire, anche se in questo preciso momento posso garantire che si era solo scavato una sorta di “nicchietta”, nei meandri del mio cervello ignaro, in cui ronfare, latente, fino al mo­mento in cui il suo risveglio avrebbe aiutato la composizione di un puzzle dai risvolti a dir poco sorprendenti. La faccenda, messa in quei termini, insisteva a sconcertarmi. Sa­rebbe stato come affermare che, ogni qualvolta ci si affaccia al balcone di casa propria, una casa in cui si è abitato sin quasi dalla nascita, non si scorge mai anima viva transitare nella via sottostante. Ce n’era abbastanza per esserne vivamente preoccupati. Oltre che come ottimo materiale per una puntata di quei vecchi telefilm… come si chiamavano ? Ah, “Ai confini della realtà”… Ad in­­tervalli più o meno regolari, quindi, non riuscivo ad impedirmi di tornare sulla questione. Anche perché, con tutta la buona volontà, quando di un dato argomento di cui si sa poco o niente si è ormai det­to… tutto… beh, come dire… non resta molto altro da discutere. Sembra una battuta di teatro surreale, ma è così. Un fine pomeriggio come tanti, impalati sui due versanti della bassa rete di re­cinzione, mentre sbucciavo una pesca gentilmente offertami dal pa­drone di casa (c’era stata la solita scaramuccia di insistenze e cortesi rifiuti, conclusasi con un pareggio nel momento in cui consideravo che, in fondo, si trattava solo di frutta, fresca e invitante per di più, che non avrebbe attentato troppo al mio faticoso mantenimento di una linea dignitosa) e, nello stesso tempo, mi lambiccavo il cervello nel­l’identificare una variante efficace e originale del solito, eterno dilemma (Mai visto nessuno ? Nessuno nessuno nessuno ? Neanche, fa esempio, per sbaglio ? Con la coda de­ll’occhio ?) una sorta di lampo mi balenò nella testa. Inghiottii il boccone di pesca che stavo assaporando, senza di­stogliere gli occhi dalle galline panciute che, dopo aver approfittato di un buco nella recinzione di cui erano a conoscenza solo loro (e probabilmente gli in­fidi gatti, che in quanto infidi non ne avrebbero mai e poi mai spifferato la posizione) becchettavano indisturbate tra il bordo della ciclabile, sfidando temerarie o incoscienti le ruote sfreccianti delle auto e, elemento molto più determinante, nei pressi dell’imbocco del ponticello. Molto nei pressi, presi atto con un sobbalzo che rischiò di di­­sarcionarmi dal sellino della bicicletta utilizzata a mò di precario sedile. E animali ?, devo aver sbottato all’improvviso, come folgorato. Lui, colto alla sprovvista, aveva sollevato gli occhi dalla concentrata contemplazione di una puntura d’insetto sull’avambraccio abbronzato. P-prego ?!, aveva biascicato, per nulla sicuro di a­ver capito il senso della mia esclamazione. Con un moto d’impazienza, ormai partito per la tangente, io avevo indicato il pollame sparso davanti a noi. A-n-i-m-a-l-i, avevo ri­petuto scandendo le parole come fossi alle prese con uno scolaro te­stardo, che so, galline, cani, gatti… non vorrà dirmi che nemmeno uno di loro si è fatto una passeggiatina su per quell’argine !. Aristide a quel punto aveva scosso la testa divertito, fa­cendo spallucce. Ah, in quel senso !, aveva replicato, con un sorrisetto che scatenò in me un’ingiustificato spasmo d’irritazione, Oh bè, tutto è possibile, come facciamo a e­scluderlo ? Solo che… voglio dire… sono ancora meno visibili delle persone, e poi co­me si fa ? Qui intorno di pulcini ce ne sono a bizzeffe ! (Pulcini ? Chi ha mai parlato di pulcini ?) Fece un gesto con la mano in direzione di uno dei gatti (Romeo o Taddeo, per quel che ne sapevo, da­to che l’unica che avevo imparato a riconoscere era Stella, per via di una sorta di macchia bianca tra il pelo nero del petto, e non era quella accoccolata sul prato in quel momento) che alzò impercettibilmente le orecchie, come se avesse intuito di essere stato tirato in ballo. Per quanto riguarda i gat­ti, poi, lo sa anche lei come so­no. Pare che non abbiamo altro da fare che mangiare, dormire e ri­prodursi, per cui in tutti questi anni ne sono girati talmente tanti che non posso proprio dire quanti ne siano spariti, e per quale motivo. Col traffico che c’è su questa strada è una fortuna che non ci ab­biamo tirato sotto anche noi…A me venne l’impulso di controbattere che non avevo mai parlato di “gatti spariti”(e di pulcini ?!) ma solo se, per caso, aveva avuto occasione di vedere un dannato pennuto farsi una passeggiatina ol­tre il ponte. E ritorno. Ma a quel punto, come spesso succedeva, il vecchio sembrava essersi addentrato in un territorio infido e spiazzante fatto di affermazioni inquietanti e surreali, così decisi di raffreddare i miei bollori, riprendendo a sbocconcellare il resto della pesca senza aggiungere altro. Il mio compagno, d’altro canto, non diede l’impressione di voler approfondire l’argomento. Ci ripensai su la se­ra, a casa, fissando senza vederle le sequenze di uno stupido quiz in televisione, e nei giorni successivi. Disturbato dal fatto che quello strano vecchio mantenesse un comportamento as­so­lutamente normale per settimane, salvo poi “svaccare” a tratti, senza il minimo preavviso, con af­fermazioni sconclusionate e sibilline. Forse il fastidio na­sceva dal conflitto tra queste e il mondo quotidiano fatto di aridi ma rassicuranti nu­meri con cui avevo a che fare. Di cui tutto si poteva dire, ma non che mutassero sotto ai miei occhi come abili trucchi di prestidigitazione. Sgusciando via dalla realtà oggettiva delle cose come le criptiche frasi del mio interlocutore. A volte giungevo alla conclusione che la solerte premurosità di quel vecchietto, temendo forse di potermi deludere nel ca­so non avesse avuto niente da rispondere a certi miei accorati quesiti, lo fa­cesse optare per uno sproloquio così da spostare il fulcro della questione. Mi rendo conto che detta così è un’analisi che ri­schia di assomigliare al motivo per cui l’ho elaborata, ma non mi viene in mente niente di meglio. E ripensarci mi fa venire come di consueto un inizio di mal di testa. O forse è solo il ri­sultato dell’aver fatto inclinare troppo questa bottiglia di grappa, che intravedo al­quanto prosciugata nella semioscurità del mio salotto. Immagino sia il caso di infilarsi nel letto, anche perché siamo ormai a fine me­se e domani in banca ci sarà un bel po’ da fare per via dei pagamenti di bollette e cose simili. Ma non preoccupatevi, la storia continua. Non so voi, ma io da qui non mi muovo, per il momento. Buonanotte.
  
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