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Grossomodo, diventammo amici. Di certo con lui instaurai una frequentazione degna di tale nome, molto più che con qualsiasi altro mio conoscente, collega o altro, perlomeno negli ultimi tre o quattro anni. E non mi venne mai troppo da pensare che fosse suonato. Non lo pensai e non lo penso ora, nonostante la faccenda del non riuscire a fare quattro passi in più su un banalissimo viottolo di campagna mi ristagnasse dentro come un pezzo di legno imprigionato in un gorgo lento e infinito. Forse, la cosa che rendeva accettabile quel particolare “blocco” era il fatto che io stesso provassi la medesima, bizzarra sensazione. Sempre che l’arzillo omino non mi stesse prendendo per i fondelli, ma questo presumo che avrei potuto scoprirlo presto. Ad ogni modo, mi preoccupava leggerissimamente il fatto di paralizzarmi là, a pochi centimetri dall’imbocco del ponte, come se cadessi preda di qualche fantastico incantesimo, ma non tanto da spingermi a parlarne con qualcuno (con qualcuno un po’ più ferrato in materia del vecchio, intendo), né ancora meno da forzarmi a non effettuare il mio consueto giro serale. Non mi dava l’impressione di una fobìa, ecco, e mi sarei certo allarmato di più se all’improvviso avessi manifestato crisi di panico all’idea di interagire coi clienti della banca, o cose del genere. E poi le chiacchierate con Aristide, anche se non sempre chiarivano i nostri dubbi reciproci, anzi, erano abbastanza esaurienti. In fondo era l’unico con il quale poter parlare di quell’argomento specifico. Ripeto, il mio giro di amicizie si può contare sulle dita della mano di… un monco, e non mi ci vedevo proprio ad esporre le mie discutibili teorie con qualche collega d’ufficio. Non dico che avrebbero chiamato il 113, ma di sicuro la già scarsa considerazione nei miei confronti avrebbe subìto un brusco tuffo verso il basso. Con quel tizio, al contrario, le cose erano diverse. Nessuno dei due pareva possedere elementi fondamentali e chiarificatori (io per niente, lui qualcosina di più, in virtù di un’osservazione empirica che andava avanti da oltre dieci lustri), ma potevamo parlarne con sereno distacco, come due vecchi gentiluomini che presto o tardi avrebbero deciso di intraprendere la strada del mare, ma che per il momento preferivano rimanersene sulla riva a fissarne la maestosa immensità. Ci piaceva discuterne, in definitiva, quasi ne ricavassimo una sorta di complice soddisfazione. Lo facevamo come due appassionati d’arte di fronte ad un incomprensibile dipinto di arte moderna, o due tifosi della medesima squadra di calcio. Al di là della scaramuccia iniziale, nessuno dei due provocò più l’altro sulla presunta incapacità di giungere alla sommità dell’argine, in una sorta di tacito rispetto per quella che ritenevamo in tutto e per tutto una debolezza umana e personale. Solo in un occasione, nella quale mi sentivo particolarmente “euforico” (quel pomeriggio mia madre non mi aveva scambiato per un lontano cugino o per il lattaio, al contrario, deliziandomi coi racconti di quando mi portava al mare, poco meno di mezzo secolo fa, agghindato con un bizzarra mantellina-asciugamano rossa ed un cappellino a punta che mi facevano desolatamente assomigliare ad un clown del circo in miniatura) mi era venuto il ghiribizzo di provocarlo, proponendogli di punto in bianco di compiere assieme il Grande Passo. Di mettere al bando le ciance, per capirci, ed attraversare fianco a fianco quel supponente ponticello. Vaila, amigo, fuera el dente fuera el dolor. L’impertinente frase, in effetti, prese a formarsi nel fondo della gola, già pronta a trasferirsi sulla plancia di lancio della mia linguaccia in attesa dell’ok al decollo. Questo prima che un’immagine mentale, nitida e glaciale, non mi “sfolgorasse” all’interno della testa. Mi vidi sul ciglio di uno scoglio a strapiombo sul mare (molto a strapiombo) mentre, per fare un po’ lo spiritosone, pungolavo il mio vicino di “precipizio” (se fosse o meno il vecchio Aristide è un dato assolutamente privo di interesse) a compiere un dissennato tuffo in coppia. Stra-certo che il mio pavido e sconosciuto interlocutore avrebbe risposto “non se ne parla nemmeno”, e beandomi nel contempo della sua ovvia “tremarella” al solo pensiero. Invece il tizio, contro ogni più logica e saggia previsione, non solo ribatteva “oh ma certo parliamone” ma addirittura, senza darmi il tempo di fiatare, afferrava il mio polso in una morsa ferrea, trascinandomi senza pietà verso l’abisso. Nell’istante in cui quella vivida fantasia mi ricacciava in gola quel tentativo di fanfaronata, il mio viso dev’essersi fatto livido come quello di un cadavere, tanto da spingere il vecchio a sincerarsi se tutto era okay, con un’espressione premurosa e preoccupata. Inutile dire che da quel momento in avanti ulteriori spacconate che avessero come obiettivo il superamento di quella nostra personale “linea del Piave” divennero alquanto tabù. Di solito io arrivavo nei pressi di casa sua, sprizzando sudore da tutti i pori (non dimentichiamo che l’obiettivo principale delle mie pedalate era quello di tenermi in forma, nei limiti del possibile, ed eravamo ormai giunti a metà luglio, con la ciclabile che sembrava fondersi sotto il sole, nonostante fosse tardo pomeriggio) e lui mi scorgeva da qualche finestra del pianterreno. Veniva verso di me, solitamente scortato dalla sinuosa compagnia del trio Stella-Romeo-Taddeo (tre diffidenti ed altezzosi gatti, come avevo giustamente ipotizzato) impegnati a sgusciare attraverso le sue gambe come piccoli squaletti pelosi. Possedeva anche una specie di cane, piccolo e brutto e isterico (ricordava molto un poggiapiedi semovente) che durante i primi dieci minuti in cui aveva a che fare con un estraneo (ed io per lui rimasi estraneo a vita) non la smetteva di tremare e uggiolare e schizzare pipì in giro, simile ad un indemoniato canino. Io e il mio nuovo amico restavano in piedi, ognuno dal proprio lato della bassa recinzione che divideva la ciclabile dal giardino arido. Mi avrà sollecitato ad entrare almeno un fantastiliardo di volte, ma io ho accolto il suo cortese invito solo in poche, eccezionali occasioni, perché mi dava l’assurda idea di “tradire” lo spirito dell’impegno fisico. Starsene là scomodamente separati dalla trama rugginosa della rete divisoria manteneva al contrario una sorta di “precarietà”, come se la sosta fosse casuale e temporanea (pur se la durata di quelle “partite di chiacchiere” era di ben lunga superiore al tempo impiegato per compiere l’intero percorso ciclabile) mentre, al contrario, lo spaparanzarsi sulle cigolanti ma accoglienti sedie pieghevoli, sotto l’invitante ombra di un ciliegio, equivaleva ad ammettere tutta la mia debosciata indolenza. Ebbi modo così di conoscerlo bene, e di ammirare la serena semplicità attraverso cui vedeva le cose del mondo. Era vedovo, e da alcuni suoi vaghi accenni non mi aveva dato l’idea che la perdita della consorte lo avesse più di tanto sconvolto. Succede, no ? Errori di valutazione, in fondo son situazioni in cui ci si imbarca a scatola chiusa. C’è gente, come il sottoscritto, che darebbe quello che ha di più prezioso (e se ne fosse sprovvisto sarebbe pronto a rubare e depredare e uccidere) pur di riavere a fianco la compagna con cui sperava di passare una vita, e altri che trovano la pace solo nel casuale momento in cui il loro rapporto affettivo viene sciolto per qualche motivo. A quanto ho capito, non aveva nemmeno parenti che abitassero in zona, con i quali intrattenere rapporti di un certo spessore. L’unica figlia si era trasferita nella bassa Padovana subito dopo il matrimonio, ormai da tempo immemorabile, e si sa come vanno queste cose. Non si trova mai il tempo di fare una visita, e c’è sempre qualcos’altro da fare, e alla lunga ci si riduce (nel migliore dei casi) ad una telefonata ben poco sentita in occasione delle festività comandate. In pratica era solo, come chi vi sta parlando in questo momento, e l’unica precaria compagnia gli veniva dalle scostanti attenzioni dei gatti, dai quali anche il pavido poggiapiedi canino, che di nome faceva Poldo, sembrava starsene prudentemente alla larga. Tornando a noi, comunque, il vecchio aveva ragione riguardo alla “cecità” dei passanti nei confronti del viottolo. Io gli feci visita quasi ogni giorno, per circa tre mesi, e non ce ne fu uno, adulto o bambino, a cui capitasse di bloccarsi là com’era successo a me. Era diventata una sorta di gioco-scommessa, tra noi, quella di indovinare il tempo di “permanenza” dei vari viandanti in quel dato punto della ciclabile. Perché, vedete, a tratti pareva che qualcuno… in qualche modo… intuisse qualcosa… In alcuni perlomeno, a differenza del grosso dei passanti che scivolavano via senza il minimo indugio, pareva subentrare una sorta di fugace “incertezza”. Tipo quando avete esigenza di farvi venire in mente un particolare importante, determinante, un numero di telefono, un’indirizzo, un volto, che invece tenta di sfuggirvi, il bastardello, sgusciando tra le pieghe della memoria. Avete presente, no ? Quell’attimo in cui fisicamente sembrate presenti ma in realtà siete in tutt'altro posto con la testa. Quella è l’impressione che davano i (rari) “ispirati” mentre, a differenza della massa di pecoroni insensibili, venivano per un fugace attimo attratti dalla presenza del viottolo. Ed ogni volta a me veniva l’irrefrenabile impulso di mettermi a sbraitare “Razza di coglioni !!! Ma non riuscite proprio a vederlo ?!? E’ lì, lì, giusto DIETRO LE VOSTRE SPALLE !!!”. Grazie al Cielo qualcosa, forse un intervento in extremis della mia più assennata coscienza, mi evitava una figura ben poco decorosa. Impedendo nello stesso tempo al malcapitato “non vedente” di turno di tornarsene a casa con un succoso aneddotto sulle sorprese della ciclabile da raccontare. Sai, cara, oggi ero lì che mi facevo la solita pedalata, quando un tizio, dall’aria apparentemente normale e distinta, E’ ANDATO VIA DI MELONE !!! Il mio compagno di “recinzione” pareva prenderla con molta più filosofia, sulla scorta di una maggior frequentazione in materia, continuando placido a disquisire del più e del meno. Ogni tanto, quasi in maniera automatica, si chinava per elargire una carezza ad uno dei gatti, che immancabilmente si scostava sdegnato, o a Poldo, il cane-poggiapiedi, che al contrario diveniva preda di un sussultante orgasmo per l’emozione. Parlavamo di tutto, io e Aristide, non solo del bizzarro argomento che ci accomunava. Sulle prime, a dire il vero, i commenti sul viottolo furono titubanti e circospetti, almeno da parte mia, in un comprensibile tentativo di “annusare” le reazioni e i punti di vista del vecchio, prima di decidere di scoprire in toto le carte. Ve l’ho detto, non mi turba più di tanto che la gente si faccia l’idea di avere a che fare con uno che, come si dice dalle nostre parti, non ha tutte le fascine al coperto, ma dichiararmi spudoratamente così al primo appuntamento… Chiacchieravamo di tutto e di niente, del tempo, del governo, delle tasse, della televisione dove ormai non facevano più niente che non fosse pubblicità o scemenze. Gli raccontai di mia moglie, dei tempi meravigliosi in cui stava bene e dell’inferno della malattia, e poi di mia madre. E il fatto che lui mi ascoltasse con interesse ed attenzione, intervenendo a tratti con poche, pertinenti frasi (c’è ben poco da dire, quando si vivono determinati incubi) alimentò in me l’ottima impressione che mi aveva suscitato fin dall’inizio. A poco a poco, in ogni caso, man mano che si rafforzavano la stima e la simpatia reciproca (e l’amicizia, se non la considerate una parola troppo grossa) i nostri discorsi presero a convergere sempre più insistenti attorno ad un argomento ben definito, come uccellini ancora sospettosi che non si fidano troppo di posarsi sul ramo di un albero solo in apparenza privo di insidie, e fu così che venni a conoscenza di tutto quello che sono in grado di dirvi (del poco che) sul viottolo e dintorni.
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Una volta qui era tutto così, mi disse indicando il viottolo, e riferendosi a tutto l’ambiente circostante. Non facevo nessuna fatica a credergli. Se solo la campagna che ci circondava, mondata da traffico e fabbrichette e villini da geometri, avesse rispecchiato anche un decimo della bellezza di quell’angolo, non ci sarebbe stato niente da invidiare ad altri scorci naturalistici ben più celebrati. Mi raccontò con tono leggero di rimpianto e piacere dell’acqua trasparente del canale, in cui guizzavano pesci dai riflessi argentati e rane chiacchierone, col baluginìo smeraldo di qualche libellula che increspava a tratti l’immobilità dell’aria. Nelle infinite giornate d’estate, assieme ai suoi coetanei delle numerose fattorie sparse per i dintorni, era prassi quotidiana far compagnia alla popolosa fauna acquatica, cullati dalla colonna sonora infinita di legioni di invisibili cicale. Ci tuffavamo da là, giù di sotto come bombe, disse indicando una scrostata passerella pedonale che dalla strada permetteva l’accesso ad un nucleo di case al di là del corso d’acqua (decisamente brutta rispetto al ponticello a pochi passi da noi, ma lui si affrettò a precisare, come se avesse potuto leggermi nel pensiero, che non era in grado di ricordare se già a quel tempo esistesse una sorta di ostracismo collettivo nei confronti del ponte). Era solo che la scelta dell’utilizzo a mò di trampolino era caduta sulla meno suggestiva passerella, commentò, e nessuno di loro aveva tempo e voglia di porsi tante domande. Non c’era traccia della zona industriale artigianale, ovviamente, nemmeno nelle intenzioni delle sciagurate giunte comunali degli anni ancora a venire, e il banale luogo comune del qui una volta era tutta campagna, in quel particolare frangente, non era niente più che la cruda verità. Il periodo a cavallo tra l’infanzia e l’adolescenza sembrava essere quello che rimpiangeva di più, almeno in base alla frequenza con cui ritornava nelle sue descrizioni, attraverso le quali cercava di farmi comprendere al meglio… di più, a fare in modo che io potessi quasi riuscire a “vedere”… le cose che aveva vissuto. Non erano certo stati tempi facili, tutt’altro, scarse possibilità economiche (per usare un banale eufemismo) la fame, la guerra, e in ogni caso il ricordo che ne conservava gli faceva brillare gli occhi come un bimbo in un luna park. Era legatissimo a quel periodo, e alla madre che, a suo dire, aveva rappresentato la figura più importante di tutta la sua vita. Come vi ho accennato, le volte in cui ho accettato la sua cortese ospitalità varcando il cancelletto del giardino si possono contare sulle dita di una mano, ed in un'unica occasione ho messo piede all’interno della casa. Sì, lo so, rischio per l’ennesima volta di passare per bizzarro e misantropo ma, a differenza della simpatia che l’uomo mi ispirava, non ero per niente attratto dall’idea di conoscere i luoghi in cui viveva. Non so, la sua solitaria condizione, così simile alla mia (se proprio avevo voglia di un campionario di piatti sporchi nel lavello e odore di chiuso era sufficiente che non mi muovessi da casa), in quell’abitazione così grande e vuota. E poi la prevedibile presenza di inconfondibili “puzze di gatto” in grado di riportarmi mio malgrado agli ultimi momenti di mia madre nel suo minuscolo appartamento… non so come spiegare, ma proprio non mi andava. Forse aveva qualcosa a che fare con la mia discutibile incapacità di misurarmi con la vecchiaia e la solitudine, anche se in confronto alle “mummie” che imperversavano nei corridoi della casa di riposo il mio maturo amico era di una vitalità invidiabile, così ci volle un terrificante acquazzone scatenatosi quasi senza preavviso per costringermi a varcare la soglia di quella casa. Come spesso mi succede, andò meglio delle mie catastrofiche previsioni, grazie al Cielo. Non era una reggia, questo no, la pensione di ex-meccanico non gli consentiva lussi sfrenati e dissennati, ma l’accogliente cucina d’altri tempi in cui mi fece accomodare sapeva di buono. Ci concedemmo un caffè nient’affatto male, mentre ascoltavamo i boati fragorosi dei tuoni di un temporale estivo con i controfiocchi, sbirciando dalle finestre la ciclabile deserta flagellata da valanghe d’acqua che scuotevano il grosso gelso all’imbocco del viottolo. Senza apparentemente impressionarlo più di tanto. Una vaga quanto insistente traccia-fantasma della presenza dei gatti persisteva nell’ampio locale, ma il profumo di pulito e di caffè appena fatto riusciva a sopraffarlo senza troppa fatica. Soddisfatto di quella situazione, lasciai vagare lo sguardo in giro. Appeso sopra all’immancabile focolare che troneggiava maestoso (potendo disporre di un bel gruzzoletto di quattrini qui ci si potrebbe tirar fuori un posticino coi fiocchi, ricordo di aver pensato mentre il vecchio armeggiava con la caffettiera) c’era un ritratto fotografico sbiadito dal tempo, raffigurante una bella signora in abiti eleganti, dall’apparente età di trent’anni, dalla chioma fluente che le si spandeva sulle spalle e un vezzoso neo giusto sotto l’occhio sinistro. Con delicatezza, m’informai su chi fosse e lui, rimirando il quadro con sguardo quasi sognante, mi confermò che si trattava della sua adorata madre. Non era bellissima ?, mi chiese con la voce colma di orgoglio e, al mio convinto cenno di assenso, soggiunse che, in ogni caso, il bianco e nero della foto (il bianco e seppia, dato che quella posa doveva esser stata scattata all’incirca negli anni ’30 o giù di lì) non le rendeva appieno giustizia. Non è in grado di mostrare il suo lato più bello, precisò indicandosi con un buffo gesto semicircolare la zucca pelata, a differenza del sottoscritto, i suoi capelli era lunghissimi, e di un rosso che toglieva il fiato…Ce ne restammo lì al tavolo della cucina ancora un po’, illuminati a tratti dai lampi simili a flash di ciclopiche macchine fotografiche, sempre più radi e fiochi, finchè il cielo, seppur burrascoso di nubi color carbone, non decise di smetterla di innaffiare i campi riarsi dalla calura estiva. Subito dopo presi a pedalare con calma in direzione di casa, con un maglioncino del vecchio sulle spalle (come spesso succede, l’improvviso acquazzone aveva abbassato di molto le roventi velleità dell’afa), che non avrei potuto utilizzare in altro modo, considerata la notevole differenza di taglia, ed un involto con sei uova appena scodellate dalle galline, tenuto con delicatezza nella mano destra. Per entrambi, maglione e uova, era stato vano e sprecato ogni mio tentativo di oppormi a quella cortese premurosità. Quando ci si metteva, il vecchio Aristide sapeva essere irresistibilmente convincente. Col passare del tempo, e l’intensificarsi delle visite, venni a conoscenza di ulteriori particolari riguardo a quel posto. L’anziano mi confermò un’infinità di volte (come se io faticassi a credergli, mentre in realtà a quel punto non la trovavo più tanto strana, come cosa) di non aver mai oltrepassato il limite formato dall’imbocco del ponte. Né tantomeno, e questo forse suonava già un po’ più bizzarro, aveva ricordi di averlo visto fare ad una qualsiasi altra persona. In tutti questi anni ?!, non riuscii a fare a meno di sbottare io. In tutti questi anni, mi confermò, fissandomi pacioso dal di là della rete di recinzione. A quel punto, in realtà, la confidenza e la cordialità che si era instaurata tra noi permetteva di poter sputare frasi istintive che in qualunque altro frangente avrebbero potuto passare per impertinenti. Nessuno nessuno ?, incalzai io, deciso a non mollare l’osso (e, magari inconsciamente, riuscire ad incastrarlo) Nemmeno, che so, un contadino, un cacciatore, qualche ragazzino curioso… Cavoli, dovrà pur essere di qualcuno, quel dannato pezzo di terreno !. Aristide mi aveva fissato sgranando i grandi occhi amplificati dalle spesse lenti degli occhiali, come faceva ogni qualvolta un mio sanguigno moto d’insofferenza sull’argomento mi faceva andare (bonariamente) fuori dai gangheri. Gliel’ho detto, è proprietà del demanio, precisava paziente, e a quanto mi è dato sapere, non ho mai visto ronde di guardie demaniali effettuare grandi manovre in mia presenza… Come al solito, non si capiva mai bene (o perlomeno ero io, che non riuscivo a stabilirlo) se mi stesse prendendo per i fondelli un po’ oppure un sacco. E chiederglielo non avrebbe di certo fugato quel dilemma. Tutt’a un tratto, però, si era fatto serio, grattandosi la sommità della pelata, nel punto in cui il cranio appuntito ricordava quello di un segugio da caccia. Con questo NON voglio affermare che non vi sia mai salito nessuno in assoluto, borbottò, quasi rivolto a sé stesso. Venne distratto per un istante da un grosso camion lanciato a velocità del tutto criminale, che gettò lo scompiglio tra gli asfittici steli d’erba rinsecchiti lungo il ciglio della statale, poi riprese: anche solo a livello di probabilità non reggerebbe, come cosa… e poi immagino che qualcuno le abbia avute, le proprie buone ragioni, per passare al di là…Quella frase sconclusionata mi si piantò in testa come un chiodo sparato a velocità supersonica, rimanendovi conficcato per alcuni giorni, durante i quali non potei impedirmi di rimuginarci su ad ogni occasione buona. Poi quel tormento sembrò scomparire, anche se in questo preciso momento posso garantire che si era solo scavato una sorta di “nicchietta”, nei meandri del mio cervello ignaro, in cui ronfare, latente, fino al momento in cui il suo risveglio avrebbe aiutato la composizione di un puzzle dai risvolti a dir poco sorprendenti. La faccenda, messa in quei termini, insisteva a sconcertarmi. Sarebbe stato come affermare che, ogni qualvolta ci si affaccia al balcone di casa propria, una casa in cui si è abitato sin quasi dalla nascita, non si scorge mai anima viva transitare nella via sottostante. Ce n’era abbastanza per esserne vivamente preoccupati. Oltre che come ottimo materiale per una puntata di quei vecchi telefilm… come si chiamavano ? Ah, “Ai confini della realtà”… Ad intervalli più o meno regolari, quindi, non riuscivo ad impedirmi di tornare sulla questione. Anche perché, con tutta la buona volontà, quando di un dato argomento di cui si sa poco o niente si è ormai detto… tutto… beh, come dire… non resta molto altro da discutere. Sembra una battuta di teatro surreale, ma è così. Un fine pomeriggio come tanti, impalati sui due versanti della bassa rete di recinzione, mentre sbucciavo una pesca gentilmente offertami dal padrone di casa (c’era stata la solita scaramuccia di insistenze e cortesi rifiuti, conclusasi con un pareggio nel momento in cui consideravo che, in fondo, si trattava solo di frutta, fresca e invitante per di più, che non avrebbe attentato troppo al mio faticoso mantenimento di una linea dignitosa) e, nello stesso tempo, mi lambiccavo il cervello nell’identificare una variante efficace e originale del solito, eterno dilemma (Mai visto nessuno ? Nessuno nessuno nessuno ? Neanche, fa esempio, per sbaglio ? Con la coda dell’occhio ?) una sorta di lampo mi balenò nella testa. Inghiottii il boccone di pesca che stavo assaporando, senza distogliere gli occhi dalle galline panciute che, dopo aver approfittato di un buco nella recinzione di cui erano a conoscenza solo loro (e probabilmente gli infidi gatti, che in quanto infidi non ne avrebbero mai e poi mai spifferato la posizione) becchettavano indisturbate tra il bordo della ciclabile, sfidando temerarie o incoscienti le ruote sfreccianti delle auto e, elemento molto più determinante, nei pressi dell’imbocco del ponticello. Molto nei pressi, presi atto con un sobbalzo che rischiò di disarcionarmi dal sellino della bicicletta utilizzata a mò di precario sedile. E animali ?, devo aver sbottato all’improvviso, come folgorato. Lui, colto alla sprovvista, aveva sollevato gli occhi dalla concentrata contemplazione di una puntura d’insetto sull’avambraccio abbronzato. P-prego ?!, aveva biascicato, per nulla sicuro di aver capito il senso della mia esclamazione. Con un moto d’impazienza, ormai partito per la tangente, io avevo indicato il pollame sparso davanti a noi. A-n-i-m-a-l-i, avevo ripetuto scandendo le parole come fossi alle prese con uno scolaro testardo, che so, galline, cani, gatti… non vorrà dirmi che nemmeno uno di loro si è fatto una passeggiatina su per quell’argine !. Aristide a quel punto aveva scosso la testa divertito, facendo spallucce. Ah, in quel senso !, aveva replicato, con un sorrisetto che scatenò in me un’ingiustificato spasmo d’irritazione, Oh bè, tutto è possibile, come facciamo a escluderlo ? Solo che… voglio dire… sono ancora meno visibili delle persone, e poi come si fa ? Qui intorno di pulcini ce ne sono a bizzeffe ! (Pulcini ? Chi ha mai parlato di pulcini ?) Fece un gesto con la mano in direzione di uno dei gatti (Romeo o Taddeo, per quel che ne sapevo, dato che l’unica che avevo imparato a riconoscere era Stella, per via di una sorta di macchia bianca tra il pelo nero del petto, e non era quella accoccolata sul prato in quel momento) che alzò impercettibilmente le orecchie, come se avesse intuito di essere stato tirato in ballo. Per quanto riguarda i gatti, poi, lo sa anche lei come sono. Pare che non abbiamo altro da fare che mangiare, dormire e riprodursi, per cui in tutti questi anni ne sono girati talmente tanti che non posso proprio dire quanti ne siano spariti, e per quale motivo. Col traffico che c’è su questa strada è una fortuna che non ci abbiamo tirato sotto anche noi…A me venne l’impulso di controbattere che non avevo mai parlato di “gatti spariti”(e di pulcini ?!) ma solo se, per caso, aveva avuto occasione di vedere un dannato pennuto farsi una passeggiatina oltre il ponte. E ritorno. Ma a quel punto, come spesso succedeva, il vecchio sembrava essersi addentrato in un territorio infido e spiazzante fatto di affermazioni inquietanti e surreali, così decisi di raffreddare i miei bollori, riprendendo a sbocconcellare il resto della pesca senza aggiungere altro. Il mio compagno, d’altro canto, non diede l’impressione di voler approfondire l’argomento. Ci ripensai su la sera, a casa, fissando senza vederle le sequenze di uno stupido quiz in televisione, e nei giorni successivi. Disturbato dal fatto che quello strano vecchio mantenesse un comportamento assolutamente normale per settimane, salvo poi “svaccare” a tratti, senza il minimo preavviso, con affermazioni sconclusionate e sibilline. Forse il fastidio nasceva dal conflitto tra queste e il mondo quotidiano fatto di aridi ma rassicuranti numeri con cui avevo a che fare. Di cui tutto si poteva dire, ma non che mutassero sotto ai miei occhi come abili trucchi di prestidigitazione. Sgusciando via dalla realtà oggettiva delle cose come le criptiche frasi del mio interlocutore. A volte giungevo alla conclusione che la solerte premurosità di quel vecchietto, temendo forse di potermi deludere nel caso non avesse avuto niente da rispondere a certi miei accorati quesiti, lo facesse optare per uno sproloquio così da spostare il fulcro della questione. Mi rendo conto che detta così è un’analisi che rischia di assomigliare al motivo per cui l’ho elaborata, ma non mi viene in mente niente di meglio. E ripensarci mi fa venire come di consueto un inizio di mal di testa. O forse è solo il risultato dell’aver fatto inclinare troppo questa bottiglia di grappa, che intravedo alquanto prosciugata nella semioscurità del mio salotto. Immagino sia il caso di infilarsi nel letto, anche perché siamo ormai a fine mese e domani in banca ci sarà un bel po’ da fare per via dei pagamenti di bollette e cose simili. Ma non preoccupatevi, la storia continua. Non so voi, ma io da qui non mi muovo, per il momento. Buonanotte.