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Autore: Thewindy    13/05/2014    0 recensioni
"Nove doni a camminare,
solo di uno ti puoi fidare.
Oh mio dono scegli bene
se amare e bere fiele"
*Primo capitolo è solo una filastrocca di prologo, tutto inizia dal secondo*
Genere: Avventura, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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C’era una fanciulla assai carina,
girava marmellata in cantina,
una notte di luna piena
trova un cadavere in cancrena,
si muove tutto con orrore
non vuol lasciare quel suo calore.
La piccoletta spaventata
Spalma un poco di marmellata,
e la morta impietosita piange la dipartita.
“Non posso andare via da questo mondo
Ho un dono assai fecondo”
Con carezza assai sincera
spegne ogni cantilena,
sorride sogni e d’incanto
scompare il malanno.
Il giorno dopo non appare,
la ragazza la va a cercare,
rinfrancata dell’evento
ringrazia per il portento.
Passa il tempo passa la stagione
La carestia non porta more.
Niente marmellata,
niente cibo,
la città intera è in delirio;
per il vuoto e il dolore
piange lacrime e sudore
nel tentare di zappare.
Ecco che per magia
Spunta una pianta e così via.
La giovinetta alza il volto e il campo che era incolto
Con un battito di mano
Diviene un campo beato.
Festeggian tutti il prodigio
Finché arriva il pasticcio
Una vecchia assai particolare
La vuole già sfidare
Ciò che tocca cambia forma
Muta colore e si trasforma
Prima che un dardo nascosto
La uccida sul posto
La terra trema
La roccia sale
E nel costato le apre un canale
La vecchia giace ora morta
Ma lo spirito già la esorta
“Giovinetta dal buon cuore,
dopo troppe lune un nuovo bagliore,
finalmente me ne posso andare,
a te rendo il dono di alterare;
già sei abile con la terra,
 





attenta a chi cerca sfida”.
 
Un giorno la streghetta
Oramai amata per la vicenda
Incontrò un boscaiolo nerboruto
Alto
Biondo
E barbuto
L’occhio di opale non mentiva
aveva lo spirito di pietra viva,
lo guardava lavorare
e ogni giorno
da lui
le piaghe andava a curare.
L’amore sbocciò fecondo
e per legarlo gli fece un dono
peli di orso
zanna di lupo
muta e combina il tutto
sarai ciò che hai sempre voluto.
Fu così che vissero per poco
E
Prima che la stagione avesse fine
L’umore della giovane dovette sfiorire
Un altro bell’imbusto era apparso
E come l’ape di fiore in fiore
La giovane saltò sul quello migliore.
Oramai perso oramai affranto
L’uomo dei boschi cambiò il suo manto.
Dimenticata ogni civile convivenza
Correva per i boschi come oscura presenza
Nei paesi già vicini si parlava come meschini
“Un lupo nero corre solo
Occhi grigi che scrutano attorno
Sembra un orso per misura”
“Ha salvato mia figlia durante la mietitura”
“Orsù vecchia che stai a dire
Quella cosa fa rabbrividire
Nessuno entri nel bosco tetro
Dove dimora il lupo nero”
 
E così finisce ancora una storia un po’ sola,
da giovane e genuina
a potente ma sgualdrina,
non temete diede tanto
a chi dava altrettanto
non era cieca alla sventura
ma era umorale come madre natura,
donò frutti e cibo
ai disperati e al vicino
ma lo faceva allegramente
se una verga era compiacente.
Per il suo primo amante si perse proprio in quell’istante
Vaga ancora nell’antro nero
Non sappiamo se il suo cuore è bianco o nero. 
 
 
Non sono mai stata una brava ragazza a socializzare, diciamo che mi lasciavo trasportare dalle situazioni e dalle persone che mi attorniavano a scuola o in quelle poche attività che sporadicamente portavo avanti.
Diciamo che le mie amicizie si contano sulle dita di una mano e alla fine non sono ne affranta ne entusiasta.
Mi va bene così, o almeno è quello che penso sempre per non cadere in una spirale di dolore troppo dura da sostenere.
Mi guardo allo specchio ogni giorno e vedo un volto pulito e dolce, dagli occhi da cerbiatta, come dice mia madre, castani che non spiccano molto con i miei capelli corvini corti e costantemente rintanati in un codino troppo alto per essere considerato serio.
La pelle di alabastro ritengo sia il mio punto di forza, è magnifica come naturalmente contrasta con il calore soffice e vellutato delle mie labbra; mi viene sempre da definirmi la piccola Biancaneve della mia scuola.
Per quanto io sia fisicamente carina, ed è assodato, fortunatamente, mi manca quella scintilla che porta gli altri ad essere attratti da me, come se erigessi muri e fossi in grado di sciogliere nodi che nessuno vuole che io sciolga.
Alla fine non sono un’analista ma la verità è che davanti ai miei occhi la gente si sente scrutata nel profondo come se potessi dischiudere le porte dei loro più oscuri segreti che dimorano persi nel loro Ippocampo e allo stesso tempo, ciò che per riflesso vedo nell’oscurità delle loro iridi, è lo smarrimento di un animale che non riesce assolutamente a scrutare qualcosa nell’altro che lo sta approcciando.
Mi vedono fredda e io vedo tutti così caldi e vividi nella mia mente.
Lo faccio da quando ne ho ricordo, da quando da piccola mia madre mi ha trovato a quattro anni a strillare nella mia stanza una notte.
Penso di aver avuto un incubo.
Un turbamento che ancora mi affligge certi giorni in cui, dopo un’estenuante corsa in mezzo ad una folla inferocita di persone  e infiniti stati d’animo, segreti, emozioni che intuisco ma non rapisco, rivedo nei miei sogni più profondi.
Ricordo o sogno, non so; quelle mani candide e ancora leggermente miti sulla mia pelle, che mi coccolano e mi arridono ad un futuro migliore.
Sento quel tocco leggero, quasi come un alito di vita che tenta di solleticarmi e indurmi al sonno, dolcemente e in modo così materno.
Quando ci penso, beh, mi viene da pensare che nemmeno mia madre mia abbia mai trasmesso una scarica così pura, vera, profonda di calore materno.
Così sento quell’amore che trasuda fine, pronto a spalancare la mia mente, a fare breccia nella mia anima per scaldarla e fonderla, ma non per disintegrarla, quanto per permetterle di essere tutto ciò che in potenza può essere.
Quel calore mi dice che da quel momento posso essere in atto ciò che voglio, purché scelga la via giusta per raffreddarmi e cristallizzare o vetrificare come voglio.
Come è apparsa quella tensione statica che ha dolcemente sollevato tutti i peli delle mie braccia, scompare.
E’ in quel momento che esplodo in lacrime per le parole che capto e per la perdita di quel calore che so che non tornerà mai più in tutta la mia vita.
Così scema il sogno e forse il ricordo di una bambina troppo spaventata da un incubo troppo vero.
Le uniche parole che sento ancora oggi dentro vibrare sono scritte che non hanno senso nella nostra sintassi, nel nostro linguaggio.
Vediamo, è come se in me fosse svelata l’essenza di una faccia della realtà. Heidegger mi punirà per quello che dico, ma è come se fossi riuscita a svelare l’essere di un ente: io lo denomino “le porte che sbattono”.
Per tutti questi motivi, per molti altri alla fine mi trovo carina e sola a non importunare nessuno e quindi a non essere importunata.
Fino a che un giorno non ti svegli un luogo sconosciuto.
La sera prima comoda nel letto, ripesi alla vita che hai e che stai lasciando andare e la mattina dopo l’ennesimo sogno-ricordo, ti trovi persa, smarrita fra ombre e luci di un luogo che non conosci ma che intriga…
E’ così che è iniziata la storia che un giorno sarà filastrocca…
 
Un rumore di scatto metallico e la luce, come sorgente psichedelica, assolve al suo compito di sveglia.
Gli occhi nocciola di una fragile giovane si spalancano a causa della tiepida luce che penetra fra le fronde degli alberi fitti del bosco, divorato dal muschio, fradicio e dal rivoltante odore di umidità.
Un altro scatto, questa volta seguito da un rombo echeggiante fra i muri di corteccia che assimilano il suono bloccandone l’espansione incontrollata, risuona vago.
Il volto scatta attonito, il collo si volta rapido torcendosi verso il nucleo del suono.
Non è lontano.
La giovane figura è già in piedi e nel terrore non connette tutto ciò che bombarda il suo cervello.
Un secondo sparo, netto, pulito fra la radura.
E’ in quel momento che il cervello prendere una rincorsa senza fine, scatta e si getta dalla rupe in un vuoto che è alto, pulito, mozzafiato: logica.
L’adrenalina scorre pazza in ogni anfratto e l’incanto si infrange portando il corpo a correre nella direzione opposta, il cuore sbatte nel petto e il cervello grida solo fuggi.
Non c’è tempo di cogliere i dettagli in quei momenti: la vista si fa acuta e ogni colore passa in secondo piano; è come correre su una scacchiera di bianchi e neri, luci e vuoti d’essa che si alternano psichedelici fino a che qualcosa si prostra davanti al tuo sguardo.
Alto.
Massiccio.
Corazzato.
Ma che cazzo… Si è l’unica cosa che un cervello sano, attento può dire in un momento simile, e nel mentre lo pensi un braccio, come una scure cala pesante verso di te, tuonando lugubre, nello stridio delle articolazioni arrugginite, usurate e acute come grida.
Il corpo fortunatamente si sbilancia ed evita di venir compresso e smembrato da ciò che sembra un feticcio d’acciaio grosso quanto un orso.
Non urli, l’aria che inspiri affannosamente è spolpata da un cervello che ingurgita animalescamente tutto l’ossigeno a disposizione per rimanere vigile, per coordinare tutte le sintesi chimiche che in questi pochi secondi ti faranno scattare i muscoli, e ti salveranno la vita.
E il secondo colpo di martello, il secondo braccio svetta per silurati.
Quella macchia di luce, che prima batteva, si oscura; i palmi delle mani, i piedi, serpeggiano per farti schiavare, mentre il volto, percorrendo un arco perfetto, fissa una morte arrugginita.
Il rombo.
Una.
Due.
Tre volte, e un pezzo di corazza salta dalla spalla.
Quattro, e il muscolo si sfilaccia, rivelando la carne viva che fiotta sangue come una fontana, mentre frammenti di cartilagine, ossa si disperdono delicati nell’aria.
L’assalitore si sbilancia.
Cinque, e si scheggia il volto, ma fortunatamente qualcosa penetra e soffoca la vita di ciò che era contenuto.
Ora è silenzio.
Ora l’adrenalina cala e il corpo rammollisce, franando sotto il suo stesso peso.
La ragazza si trova distesa a terra.
Un nuovo scatto e qualcosa tintinna a terra.
“Alzati, usciamo da qua” è una voce bassa e calma, come cioccolata calda nelle orecchie di un affamato di suoni.
Lei lo fissa, pallida e un conato sale, portandola a puntellarsi su mani e ginocchia.
Vomita saliva e succhi gastrici, il residuo di tutto quello che è successo in pochi minuti.
“Usciamo di qua, ho finito le munizioni di questo” parla ancora quella voce e viene da davanti a lei.
Il volto si alza un’ultima volta e trova un nerboruto, alto e barbuto biondo, la t-shirt aderente nera che segna un tronco che sembra millenario e possente, e sostiene un corpo adonico e leggermente abbronzato. Gli avambracci d’acciaio tesi tendono le mani grandi e tozze, sporche di terra e sangue su un fucile a pompa, che azzarderei rovente da quanto ha sparato.
Un leggero spiraglio che sembra un sorriso si delinea fra la barba biondiccia cenere che ricopre la mandibola squadrata e virile.
Ciò che scioglie il cuore è quell’occhio come opali, freddo, distaccato, ma sensuale e fiero, che scalda il cuore e da protezione alle anime perse che hanno la fortuna di fissarlo.
L’occhio sinistro sfortunatamente è celato da una palpebra chiusa, sormontata da uno squarcio ancora sanguinante che collega il sopracciglio e lo zigomo.
Una mano si avvicina e lei dolcemente fa leva su di essa per alzarsi.
“Mi sono rotta tutti i jeans” riesce solo a dire lei uscita dallo stato di shock.
“Lo sono anche i miei, spero vada di moda” aggiunge lui e questa volta un sorriso quasi stupido, caldo che gli alza entrambi gli zigomi la rincuora.
“Sono Markous, tieni” e le porge una piccola pistola.
“Spero che non ci serva per uscire” conclude e si incammina verso il folto della boscaglia.
Tremante, spaesata, e ora armata cammina fianco a fianco dello sconosciuto che svetta sopra di lei almeno di due spanne; camminano adagio per non evocare rumori che potrebbero allertare cose che corrono nel bosco.
Mentre i palmi delle manine bianche di lei arrossiscono stringendo l’impugnatura della pistola, e, un dito quasi accarezza il grilletto pronto a spillare vita da un altro mostro malsano, lei finalmente parla.
“Elizabeth… Eli… Io… Mi… chiamo Elizabeth” dice con voce tremante.
“Beh Elizabeth – confessa Markous continuando imperterrito a camminare col volto fisso sul bosco- ti ho chiamata qua io, e per intenderci non è un sogno quello che vedi. Non farti uccidere.”
Le parole scorrono gentili come se si stesse parlando di qualcosa di stupido e superficiale.
“Ho dato un occhio per averti qua – lo dice indicando lo squarcio sul suo volto- ed è una strega quello che ci voleva, cazzo”.
Elizabeth non proferisce parola.
“Dal tuo silenzio, denoto che o sei in shock ancora o sai di essere una strega”.
Lui non la guarda e lei continua a fissare i piedi che iniziano a incespicare, le mani conserte sulla pistola.
Tutta la consapevolezza della sua stranezza sembra prendere un senso in quel nome: strega.
Rimane comunque con uno sconosciuto, in un luogo impervio che non conosce e in compagnia di cose che sembrano violente e pericolose.
Non dice nulla, non si sbilancia.
Soffoca ogni emozione, disagio, turbamento, e da persona matura si mantiene pronta a sparare, anche se non lo ha mai fatto, contro chiunque attenti a lei: Markous o gli altri.
Nel mentre tende ogni muscolo, e le orecchie fischiano nello sforzo di forgiare e intensificare ogni suo senso e riflesso, la luce di un mondo senza alberi si spalanca mostrando un cielo azzurrissimo costellato da sporadiche nuvole bianchissime e alte.
Il vento soffia caldo e secco, prosciugando l’intirizzimento delle ossa dato dall’umidità stagnante della vegetazione.
La brezza accarezza i campi dorati e impreziositi da piccole pennellate di rosso oppio.
Il sentiero fra i campi scende, ruzzolando verso la costa, dove, mite, li aspetta un villaggio di case di pietra dai tetti colorati.
“Visto che non parli, andiamo giù e prendiamo munizioni, poi parliamo”.
Markous riparte nella calura di un luogo che sembra tratteggiato da un fiaba.
Nessuno spazio per il turbamento e la confusione.
Elisabeth, per quanto spaventata, sa che deve pensare solo ad essere pronta a sparare fino a che qualcosa o qualcuno non la convincerà d’essere al sicuro.
 
 
Nota dell’Autore:
Salve a tutti, il primo vero capitolo in cui si presentano i protagonisti.
Già con questa parte si sale a rating Arancione, ma non temete, alla fine si tocca senza problemi il rosso XD.
Spero che vi sia piaciuta, vi invito cortesemente a postare un commento, mi farebbe davvero felice, visto che normalmente scrivo di cose strane e non riesco mai ad avere un feedback utile L
Per quanto riguarda la storia, sarà sempre strutturata con una piccola filastrocca (anche se non è perfetta perdonatemi) che narra delle tradizioni delle streghe, un tratto narrativo e se serve un intervento diretto della psiche della giovine Elizabeth (“esserci”).
Per quanto riguarda il numero di capitoli pensavo di creare una storia abbastanza corta e non persa in descrizioni (non le adoro a meno che non siano a sfondo psicologico) e con pochi personaggi.
Non temete da buona fiaba sarà a lieto fine (è uno spoiler che ho deciso di concedere perché scrivo sempre di cose drammatiche).
Se avete domande, volete lasciare un post, beh fatelo, mi fare molto contento.
  
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