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Autore: marani    16/05/2014    1 recensioni
Domanda: l'amore è sempre una cosa buona? Di slancio, verrebbe proprio di rispondere sì. Ma qualche volta non è esattamente così. Ed è in quei casi che difendersi si tramuta in una lotta senza pietà. Specie se chi dice di amarci ha poteri che nessun altro essere umano possiede.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAP. 5


Il sabato la biblioteca è aperta a ritmo ridotto, nel senso che solo la mattina è frequentabile dai cittadini. Nel pomeriggio, dopo un’ora di pausa pranzo tra le tredici e le quattordici, è regno incontrastato degli addetti all’archiviazione elettronica. Dovremmo smettere anche noi a fine mattina, ma per prendersi avanti con il lavoro di catalogazione l’amministrazione ha deliberato un po’ di ore straordinarie. Ben pagate e ben gradite, direi.
Arrivai al lavoro come ogni sabato mattina seguente una serata con gli amici, e cioè assonnata e con un principio di mal di testa in agguato dietro l’occhio sinistro. Già le uscite del venerdì non sono proprio un toccasana per un risveglio fresco e rilassato, figuriamoci poi con tutto quello che era successo. Innanzitutto dovetti inventarmi un ritardo nell’arrivo a casa per giustificare a Ricky il fatto di non avermi trovato pronta per uscire. Come succede di solito. Di conseguenza una telefonata agli amici col cellulare per avvertirli di cenare pure, che li avremmo raggiunti in pizzeria più tardi. Ricky non sembrò particolarmente innervosito da quell’intoppo, e questa è un’altra dote che apprezzo in lui. I nostri amici erano già al caffè quando facemmo il nostro ingresso nel locale. Io, scossa com’ero da tutti quegli strani episodi, avevo lo stomaco strizzato come un limone, e benedii il fatto che non rimaneva tempo per mangiare. Non sarei riuscita a buttar giù neanche una briciola. Ricky, allegro e ciarliero come al solito, afferrò un paio di tramezzini dall’aspetto stanco e li divorò al volo, mentre uscivamo verso il parcheggio. La nostra meta per quella sera era uno dei locali attualmente in voga in città, il Nexus. Come ovvio, era una bolgia fumosa, affollata da gente accaldata che gridava per cercare di intavolare un barlume di conversazione al di sopra del frastuono provocato da un gruppo musicale sul piccolo palco. Ci stringemmo in una decina attorno ad un minuscolo tavolino da quattro posti, mentre a turno ci si urlava nelle orecchie per parlare. La band sul palco non era poi così male, in fondo, a parte il volume decisamente fuori limite per la grandezza del locale. Stavano suonando un’onesta versione di “Message in a bottle” dei Police. Silvana si chinò verso di me:
- Si chiamano Reblatta...- m’informò mentre una cameriera sfinita ruminava un chewing gum attendendo le ordinazioni - mio fratello conosce il chitarrista. E’ uno dei gruppi che va per la maggiore, in città, negli ultimi tempi...-
Erano proprio bravi, effettivamente. Se giri un po’ di locali giovani ne senti di gruppuscoli che nascono e muoiono nel giro di qualche mese, e la maggior parte sono proprio inascoltabili. Il cantante, vestito di scuro, stava facendo sgolare il pubblico più appassionato, ammucchiato sotto il piccolo palco. Alcune ragazzine gridavano agitando le braccia, quasi isteriche. Arrivarono le bibite, e mi passarono il primo dei gin fizz che avrebbe contribuito non poco, sommato al volume della musica e al fumo che riempiva il locale, a regalarmi una bella emicrania prima dello scoccare della mezzanotte. Bevvi un lungo sorso e il cuore mi saltò un colpo: su un palchetto rialzato c’era Andrea, il ragazzo della biblioteca, che mi fissava. Lo vidi per un attimo, poi una coppia di ragazze dirette ai bagni si intromise tra me e lui. Quando passarono capii di essermi sbagliata. La persona che stavo fissando non era Andrea, anzi era proprio diverso. Un ragazzo un po’ stempiato, con un pizzetto biondiccio e due basette aguzze, che stava parlando con due ragazze. Sulla felpa aveva stampata la buffa faccia di Winnie Pooh.
Scossi la testa. Che diavolo mi stava succedendo? Avevo voglia di una sigaretta, e iniziai a frugare nella mia borsetta sempre troppo piena e troppo caotica. Non fumo molto, diciamo anzi che non arrivo a cinque in una giornata, ma ci sono momenti in cui accenderne una è un piacevole bisogno. Dopo un buon pranzo, ad esempio. O quando si hanno allucinazioni visive, come in quel momento.
Le dita affondate nelle tasche della borsetta si strinsero attorno ad un qualcosa di molto piccolo e cedevole al tatto. Lo tirai fuori, cercando di mettermi nella miglior luce possibile nel locale in penombra. Il cigno di carta, che avevo distrattamente recuperato sulle scale dopo l’incontro con Andrea, stava immobile sul mio palmo. Un’ala era un po’ schiacciata dal mio maldestro frugare nella borsetta. Osservai la maestrìa con la quale la sottile carta era piegata, l’accuratezza e la delicatezza di quella piccola creazione. In quell’istante Ricky smise di scherzare con l’amico che aveva a fianco e si girò verso di me, sorridente.
- Che è quella cosa? - chiese incuriosito. Io dovetti trattenermi per non far sparire con uno scatto il cigno, neanche mi avesse sorpreso con un disegno osceno tra le dita. Sorrisi imbarazzata.
- Credo si chiami origami...- risposi -...me l’hanno dato oggi in biblioteca... una studentessa del liceo. E’ bravissima a fare cose del genere...-
Ricky fece di sì con la testa e riprese a chiacchierare con il tipo alla sua destra. Io rimasi immobile ad ascoltare i musicisti che stavano macinando una cover dei Queen, chiedendomi e richiedendomi perché (perché cazzo) avevo mentito. L’emicrania aumentava il suo toc-toc dietro al mio occhio sinistro...
Il mal di testa mi scosse dai miei ricordi dell’ultim’ora, riportandomi alla calura del mio ufficio. Ed erano solo le nove di mattina. La borsetta di Sara pendeva dall’attaccapanni, quindi era già arrivata, e notai subito il post-it giallo attaccato alla mia lampada:
“SONO GIU’ IN STANZA CAFFE’ - UMORE MENO 2% - DISCUSSIONE CON IVAN - RESOCONTO A PRANZO - S.”
Quelle righe mi strapparono un sorriso divertito, nonostante il dolore alla testa che pareva voler aumentare. Le discussioni di Sara con il suo ragazzo erano all’ordine del giorno, e più di qualche volta compativo il povero Ivan, più vittima che altro. Naturalmente il nocciolo delle discussioni erano sempre cose di importanza capitale, per Sara, come un momentaneo calo nell’interesse di lui a seguirla per negozi per tutto il sabato pomeriggio o l’imperdonabile delitto di voler vedere i gol a 90° Minuto, la domenica sera. Ognuno ha le sue, pensai mentre mi appoggiavo con la fronte alla cupola della lampada sulla scrivania, nel tentativo di trovare un po’ di sollievo col freddo del metallo.
- Ehi, che brutta faccia hai...qualcosa non va ? - Andrea fece capolino dal corridoio, facendomi trasalire. Stavo per giustificarmi di quella strana posizione mettendolo al corrente della mia emicrania... quando il dolore sparì. Rimasi in ascolto, poi provai a scuotere la testa. Niente. Come canta il vecchio Lucio, nessun dolore. Lui entrò nella stanza:
- Tutto bene? - s’informò. Feci cenno di sì. Indicò la sedia davanti alla scrivania - posso sedermi? -
Ancora una volta incapace di parlare, sentendomi un’idiota, provai a fare un mezzo sorriso e feci sì con la testa. Mi sentivo leggermente, ma solo leggermente agitata, ed era una sensazione quasi piacevole. Lui accavallò le gambe, mettendosi comodo, afferrando distrattamente un fogliettino quadrato dal bloc-notes che aveva di fronte:
- Allora, dimmi, come ti trovi qui? Beh, venire in ufficio anche al sabato non aiuta a veder roseo ma ormai ci siamo. Bene, che ne dici di dare una mano ad un novellino... che tipo di ambiente è? -
Io mi controllai ancora una volta il dolore alla testa che era sparito e cercai le parole più adatte per rispondere alla sua domanda:
- Beh...diciamo che non si sta malaccio. Non è ovviamente l’ambiente più indicato per apportarvi innovazioni, soprattutto se troppo spregiudicate, ma penso che sia comprensibile. E’ una biblioteca, quindi il tempio della cultura conservata immutata nei secoli dei secoli... - fece una risatina divertita - ma credo sia solo questione di tempi giusti. Probabilmente battendo con insistenza sui tasti che si vogliono cambiare... sempre con molta delicatezza, intendo...-
Lui ammiccò:
- Ad esempio sulla divisione autonoma tra autori classici e contemporanei? -
Rimasi senza parole. Era il mio appunto che avevo elaborato nella piccola tesina di presentazione quando partecipai al colloquio di assunzione. Dovevo avere un’espressione davvero stupita: - m-ma come...?!? -
- Ho letto la tua relazione - rispose con un sorriso caldo. Non so come spiegare, ma quando sorrideva sembrava proprio che ti scaldasse il cuore. Sicura che il rossore delle mie gote stesse aumentando, distolsi lo sguardo dai suoi occhi. - beh, in effetti è disponibile pubblicamente, come tutto in una biblioteca. Ma mi è piaciuta. Sei riuscita a tenerti bassa come tono ma comunque si avvertiva sotto una determinazione... una grinta particolare. Secondo la fisiognomica cinese, ogni essere umano è abbinabile per carattere e fisionomia ad un animale. Tu potresti essere un grosso felino... - posò qualcosa sul tavolo, davanti a me. Era una delle sculturine di carta piegata, e ritraeva un gatto o qualcosa di simile - ...che so, una pantera, ad esempio, o una tigre...-
La mia testa era in confusione. Ormai stavo facendoci l’abitudine, in presenza di quello strano ragazzo. Aveva letto la mia relazione. Voglio dire, non credo l’avessero letta neanche il Presidente o la Maria Luisa che tennero assieme il mio colloquio. Sì, come diceva Andrea quel documento era pubblico e disponibile per chiunque, ma bisognava prendersi la briga di volerlo leggere. Nemmeno Ricky, nonostante se lo fosse ripromesso, aveva ancora trovato il tempo di darci un’occhiata e, conoscendolo, non credo che l’avrebbe trovato facilmente digeribile.
- Leggi le relazioni di tutte le ragazze nuove che conosci? - ribattei, poi trovai un po’ sciocca ed aggressiva quella frase e feci un cenno con la mano, come a dire di non badarci - scusa, a dire la verità mi lascia un po’ interdetta questa cosa, sai, le relazioni si fanno ma poi ci si convince sempre che non interessino a nessuno tranne a chi le scrive... cioè, tu che la scrivi la senti ovviamente in maniera diversa da chi la legge, e comunque...- mi sentivo come un’idiota che stesse straparlando a vanvera, ma in realtà lui mi ascoltava con un’attenzione totale. Sembrava quasi che... pendesse dalle mie labbra, come se invece di un’accozzaglia di concetti confusi stessi enunciando le leggi del mondo. E questo mi stupiva e mi faceva sentire bene nello stesso tempo. Mi sentivo leggera e eccitata, come su una nuvola. Era da tanto tempo che non mi sentivo così, si stava dicendo una parte di me stessa, anzi forse non mi ero mai sentita così. Avevo voglia di parlare con lui, di saperne più possibile, di conoscerne ogni aspetto. Il suo strano sguardo agrodolce non mi perdeva un attimo, e avrei dovuto essere imbarazzata ed infastidita. E invece mi piaceva. La parte di me che riusciva ad osservarmi un po’ dal di fuori si chiese cosa diavolo mi stesse succedendo, ma io la zittii subito riprendendo a parlare:
- Quelle... cose, quelle fatte con la carta. Sono bellissime... dove hai imparato? -
Lui riprese il piccolo animale cartaceo tra le dita, rimirandolo:
- E’ una cosa che risale a tanto tempo fa. Da piccolo soffrivo spesso di tonsillite e febbre, e durante le lunghe giornate passate a letto mio zio mi regalò un minuscolo manuale di origami giapponese, l’arte di piegare la carta. Da quella volta è un’abitudine che non mi ha mai abbandonato. Non so, mi rilassa... scarica la tensione, insomma. E poi ha un aspetto un po’ magico. -
- Cosa intendi dire con magico ? -
Lui sorrise e il suo sorriso era un piccolo sole:
- Beh... incuriosisce le ragazze carine, ad esempio. -
Subito le guance mi avvamparono di calore. Ero in balìa di quello sguardo e di quel sorriso, come una verginella del secolo scorso, io che ho tenuto a bada fior di sbruffoni e di cascamorti. Il telefono trillò e allungai una mano per rispondere: era Sara che mi salutava e mi diceva che si sarebbe fermata un po’ giù al magazzino per farsi dare una serie di volumi da catalogare. Bene, pensai dopo aver riappeso, posso stare ancora qui a parlare con te...
E difatti parlammo. Parlammo di mille cose, dalle scuole che avevamo frequentato (anche lui era stato alle medie in via Riale ed anche a lui risultava insopportabile la professoressa di disegno!) ai libri che ci piaceva leggere, dalla musica che ascoltavamo (nonostante tutto è sempre un piacere poter parlare con qualcuno che apprezza i tuoi cantanti preferiti) alle idee volte a cercare di migliorare la struttura bibliotecaria. Parlammo, parlammo e parlammo, fino a che l’occhio non mi cadde sull’orologio appeso alla parete. Strabuzzai gli occhi, incredula: erano le undici e venti! L’ultima volta che avevo guardato l’ora erano da poco passate le nove. E mi sembrava fosse trascorsa al massimo una mezz’oretta... Lui seguì il mio sguardo verso la parete:
- Come passa il tempo quando si sta bene - commentò, senza la minima ombra di ironia - adesso però forse è meglio far finta di lavorare almeno un po’, se no mi sentirei un rubastipendio - si alzò dalla sedia, dirigendosi verso la porta. Poi si girò, fissandomi - dove pranzi, oggi? - mi chiese, con un tono quasi di scusa nella voce.
A malincuore mi sentii rispondere:
- Ho promesso di uscire con la mia amica Sara - (perché era così difficile da dire?) - mi spiace... -
Il sorriso sbocciò ancora una volta:
- Okay, mi prenoto per la prossima. Ciao. -
Si girò e se ne andò, e io mi sentii improvvisamente stanca e svuotata. E delusa. E confusa.
Accesi il computer e mentre aspettavo che il sistema si avviasse, e anche per il quarto d’ora successivo, restai immobile a ripensare alle sue parole. Pazzesco. Se fosse stato possibile costruirsi artificialmente l’uomo perfetto non avrei potuto chiedere di più. E poi quella sensazione di benessere, fisico e mentale... Aggrottai la fronte mentre con il pensiero andavo a cercare Ricky. Io amo Ricky. Ovvio. Ci mancherebbe altro. Perché diavolo devo ribadirlo a me stessa? E’ fuori discussione. E tutto va a gonfie vele tra di noi
(quasi)
ok, a parte quello stupido problema.
Che forse è un Problema. Per spiegarvi, la sicurezza del mio Ricky si riflette ovviamente in ogni campo. Per cui lui è fermamente convinto e deciso che si potrebbe cominciare a parlare di matrimonio. Lo vuole e forse non vede l’ora. Anzi, a scanso di equivoci ha già acquistato la casa (e che casa, un palazzetto del ‘700 vicino alla piazza principale) e sta già predisponendo i restauri. Qual’è il Problema, allora? Temo di essere io. Credo di amarlo veramente ma questa faccenda del matrimonio mi spaventa un po’. Non so perché, ci ho pensato milioni di volte, e milioni di volte ne ho discusso con Ricky, con mia madre e con Sara (che naturalmente soffia come un ciclone affinché io accetti) e non riesco ad inquadrare bene cosa non mi convince. Forse è solo una paura irrazionale. Il fatto è che, a differenza di Ricky, io non sono per niente fermamente convinta né decisa e quindi trovo giusto pensarci. Sì, lo so, è una situazione bizzarra, di solito sono gli uomini che tergiversano, fanno gli evasivi o scappano a gambe levate. Stavolta invece è toccato a me. Succede, che posso farci? Credo di aver bisogno solo di ancora un po’ di riflessione, di capire cosa voglio realmente (quali sono i miei desideri più intimi e reali, per dirla con mia madre) e magari buttare un po’ di quattrini per un ciclo di sedute analitiche. E adesso ci mancava mister Perfezione... Ancora una volta, l’ennesima, la solita domanda mi si stagliava nel cervello, come una gigantesca insegna al neon: “cosa mi sta succedendo?”. Avevo sempre guardato con superiore compatimento quelle storie da giornaletti rosa in cui si parla di colpi di fulmine e di principi azzurri. E adesso smarrivo intere ore persa di fronte alla bella faccia di un emerito sconosciuto...
Il telefono suonò. Lanciai un’occhiata all’orologio, che batteva ormai mezzogiorno, e mi sentii molto colpevole di non aver combinato NULLA in un’intera mattina di lavoro. E molto preoccupata nel dovermi eventualmente giustificare con quel cerbero della Maria Luisa. Al terzo squillo presi la comunicazione:
- Biblioteca Civica, ufficio catalogazione, pronto? -
La voce nota della madre di Sara mi arrivò alle orecchie:
- Pronto... ciao, Giulia. Sono la signora Todescan, trovo per caso mia figlia? -
- No, signora, è fuori ufficio in questo momento... giù ai magazzini, a quanto credo. Ma penso di poterla rintracciare, se è urgente... -
Sentii la mia interlocutrice borbottare qualcosa a qualcuno, poi riprese:
- Sì, effettivamente temo di aver bisogno di lei... vedi, sto chiamando dalla nostra vicina, perché stamane, uff, la solita sbadata... sono uscita di casa lasciando le chiavi sul mobile in entrata, ed ora bisognerebbe che Sara facesse un salto qui con il suo paio di scorta. Lo so che le scoccerà prendere la macchina e venire fino a casa nostra, ma non sono riuscita a rintracciare né mio marito né mia figlia Sandra... puoi riferirle di questo problema? -
Scossi la testa sogghignando in silenzio della proverbiale sbadataggine della mamma di Sara e soprattutto degli sbuffi di esasperazione che la mia impulsiva amica non mi avrebbe risparmiato, e mi congedai da lei. Feci il numero del magazzino e, dopo essermi sorbita un paio di spiritosaggini degli zotici addetti (sì, Sara è qui, e si sta divertendo con noi maschioni... ah ah ah!!!) me la passarono. Come previsto la sua reazione non fu delle più entusiaste e dopo poco la vidi irrompere come una furia nell’ufficio. Mi lanciò uno sguardo di comica disperazione, afferrò la borsetta e si avviò alla porta:
- La nostra pausa pranzo salta, naturalmente - disse mentre frugava nella borsetta alla ricerca delle chiavi dell’auto - rimandiamo a lunedì la cronistoria dell’ultimo litigio con Ivan. Buon week-end, e divertiti almeno tu... -
La salutai con un cenno della mano e rimasi sola nella stanza. Poi un sottile senso di angoscia mi strinse la gola: dovevo muovermi, forse Andrea era già uscito dall’edificio, e io avevo un’ora di pausa a disposizione...


CAP. 6


Uscii dall’ufficio come una furia e mi lanciai giù dalle scale a rotta di collo. E il bello era che non avevo la minima idea in quale luogo della biblioteca Andrea fosse impiegato. Sfrecciai di fronte alla porta aperta dell’amministrazione e registrai con la coda dell’occhio la Maria Luisa alla scrivania che tentò un inutile: “Signorina Giulia, mi permetta due par...” Alla fine sbucai nella via tra le occhiate divertite ed incuriosite degli studenti che sciamavano fuori dall’austero portone della biblioteca. Di Andrea nessuna traccia. Per una decina di minuti feci una spola agitata tra la strada e l’androne dell’edificio, salutando distrattamente i colleghi che uscivano chiacchierando per il pranzo, senza riuscire a trovare un pretesto per chiedere notizie del ragazzo. Attesi nervosamente fino che non scorsi la figura secca e curva del signor Pesavento che veniva verso di me con il pesante mazzo di chiavi che serviva per chiudere il portone. Mi sentivo delusa e triste. Me l’ero fatto scappare sotto il naso. Mi avviai lentamente alla mia macchina, rovistando nel solito caos della borsetta alla ricerca delle chiavi. Le avevo appena infilate nella serratura quando una figura si riflesse nel finestrino:
- Scommetto che ti piace la pizza con il salamino...- disse una voce dietro di me. Il solito rullo di tamburi del mio cuore. Mi girai, sapendo già cosa avrebbe incontrato il mio sguardo: un sorriso incandescente, due occhi grandi e tristi. In più la cosa che mi stupiva era come fosse riuscito, tra le decine e decine di probabilità, a scegliere quel tipo di pizza. Che per inciso è una delle mie preferite, e non proprio il tipo di pizza che di solito ordina una leggiadra fanciulla. Le mie amiche si dirigono solitamente o su quella alle verdure (convinte che sia in qualche modo più dietetica) o su una più semplice margherita (perché se no non riescono a mangiarla tutta).
- Sì, e il salamino lo voglio anche bello piccante! - risposi divertita, rendendomi conto appena del possibile doppio senso di quella frase, pronunciata a botta calda nei confronti di uno sconosciuto. Raggiungemmo una pizzeria vicino a Piazza dei Signori e ci accomodammo ad un tavolino all’aperto, sotto il portico. Il locale, sia all’esterno che dentro, era stranamente vuoto, e sì che fra persone che lavorano in centro e turisti di solito era così affollato da renderlo caotico. Andrea notò il mio giro di sguardo e sorrise:
- Ho riservato il locale per te... scherzo, ovviamente... -
Un annoiato cameriere dai folti riccioli neri, dalla comica somiglianza col Maradona degli ultimi tempi (anzi, con un po’ più di pancetta) si avvicinò per prendere le ordinazioni, e non mancò di far scivolare gli occhi nella scollatura della mia camicetta. Lo fulminai con lo sguardo ma non ottenni nessuna reazione degna di nota. Se ne andò strascicando i piedi. Andrea afferrò una delle salviettine dal cestino del pane e iniziò a lavorarla con le dita, muovendole decise e veloci.
- Hai il ragazzo? - mi chiese senza nessun preavviso. Le sue mani piegavano e ripiegavano la salvietta ma i suoi occhi era fissi nei miei. Io mi sentii avvampare:
- ...S-sì, si chiama Ricky... - volevo aggiungere qualcos’altro, forse solo a mio beneficio, forse per renderne più reale l’immagine, ma smisi di parlare. Lui fece un sospiro silenzioso. Un paio di colombi volarono via dal sottoportico con un frullìo d’ali.
- Immagino sia una cosa seria... - continuò. Io bevvi un sorso di birra che il cameriere dagli occhi lunghi ci aveva appena servito e cercai di capire se quei discorsi così diretti mi stavano infastidendo o imbarazzando, ma la sensazione era invece di piacevole serenità. La sua voce, o il suo sguardo, avevano un potere quasi ipnotico in me. A parte quando scatenavano tachicardie e sudori incontrollati. Cercai le parole per una risposta più sincera (ma anche più neutra) possibile.
- Beh, diciamo che può essere definita seria... Non abbiamo ancora parlato di matrimonio (parlato forse no, discusso fino alla nausea, però... cara la mia confusetta!) ma credo che lui... e anch’io, ovviamente (sicura?) stiamo facendo sul serio... -
Il cameriere arrivò portando due pizze fumanti. Non mi rendevo conto dello scorrere del tempo, quando ero in compagnia di Andrea. Mi sembrava che ci fossimo appena seduti ed invece ecco qua le nostre ordinazioni bell'e pronte. Lui mi porse il piccolo tulipano completo di un paio di lunghe foglie che aveva creato con la salvietta:
- Mmh, giusto - disse - qualunque uomo con un minimo di intelletto che avesse la fortuna di poter stare con te dovrebbe fare sul serio. No, non dire che sto esagerando con questo discorso, visto che ci conosciamo solo da alcuni giorni. Vedi, io credo che ognuno nella vita incontri un’infinità di persone. Alcune di queste sono simpatiche, e allora diventano amici o compagni, altre sono assolutamente insopportabili, altre ancora del tutto indifferenti, e passano via senza lasciare traccia. Ma succede ogni tanto che una persona incontrata per caso, da come parla, da come si muove, anche solo da come profuma, abbia tutte le carte in regola per diventare una persona speciale - io rimasi bloccata sulla sedia, senza riuscire a profferire parola - quella che penso che tu sia -
Afferrò con decisione la forchetta, agitandola verso di me, dedicandomi uno dei suoi soliti sorrisi:
- Su, su, non impressionarti troppo - ridacchiò come un bambino divertito - non mi dire che nessuno ti hai mai fatto un complimento... e poi credo che adesso tu abbia appetito, no ? -
Mi scossi dal mio stupore. Aveva ragione. Il profumo della pizza che saliva verso di me mi stava deliziando le narici. Appetito?!? Avevo una fame incredibile! Mi sentivo completamente viva in quella situazione, percepivo la frescura del porticato, vedevo il sole giocare con le fronde di un albero, sentivo in lontananza una radiolina trasmettere una vecchia canzone di Elvis Presley. Era un momento perfetto, quando i momenti perfetti li trovi solo nei film, mentre nella vita c’è sempre qualcosa che non va. O l’afa ti fa sudare e pensi di puzzare lontano un miglio o la birra ti torna su rischiando di farti (scusate) ruttare in faccia al tuo compagno di pranzo o chissà che altro. Invece in quel caldo sabato di inizio estate mi sentivo meravigliosamente bene. E c’era di più, anche se m’imbarazza un po’ tornarci su col pensiero. Mi sentivo eccitata. Sessualmente eccitata. Avvertivo nitidamente i capezzoli duri come chiodi premermi prepotenti contro la stoffa leggera della camicia (mio Dio, sperando che non se accorga il cameriere voyeur...) e giù tra le cosce una deliziosa sensazione di calore e di umido. Mentre divoravo la pizza sotto lo sguardo divertito di Andrea dovevo farmi forza per non leccarmi le labbra come una belva durante il suo pasto. In fondo mi aveva paragonato ad un felino, no?
Lui invece mangiava lentamente, come se farlo potesse in qualche modo rubargli il tempo con me, e mi parlava. Aveva lasciato cadere quei discorsi troppo personali, e mi stava raccontando alcuni divertenti aneddoti di quando era alle medie. Lo avrei ascoltato per tutto il giorno. Diego Armando il cameriere (avevo sussurrato ad Andrea la mia idea sulla somiglianza di questi, e avevamo riso come scolaretti) arrivò come un falco per sparecchiare. Ai tavoli non c’era ancora nessuno. Radunò il mio piatto e le posate e ne approfittò per tuffare ancora una volta il suo sguardo nell’attaccatura del mio seno. E stavolta così ostentatamente che se ne accorse anche Andrea. Che ebbe uno strano, rapidissimo moto di stizza. La sua faccia si rabbuiò e, per un istante breve come un battito di ciglia, sembrò vibrare, come percorsa da un tremito interno. Poi il suo sguardo ritornò  quello conosciuto. Guardai l’ora e mi accorsi con disappunto che mancavano una decina di minuti alle due, e cioè al momento in cui avremmo dovuto rientrare al lavoro. Provavo un vero e proprio senso di scoramento all’idea di dover interrompere quell’incontro, ma per tutta la mattina non avevo combinato un bel niente e sarebbe stato meglio se per le due ore restanti avessi archiviato il maggior numero di libri possib... Mi bloccai, colta da un dubbio: io facevo parte dell’ufficio archiviazione, ma Andrea no (e dove lavori allori?), e quindi non sarebbe dovuto rientrare in biblioteca.
- Scusa, Andrea, ma tu in quale ufficio sei impiegato?- chiesi allora. Lui rispose:
- Beh, vedi, io sto... -
Poi un urlo agghiacciante lo interruppe, lacerando la quiete del dopopranzo. Ci girammo verso l’interno della pizzeria, mentre dalla cucina il cameriere che ci aveva servito schizzava fuori barcollando, le mani premute sull’occhio destro. Dietro a lui si catapultarono i suoi colleghi della cucina, agitati e spaventati, mentre il malcapitato singhiozzava disperatamente cercando di tamponarsi il viso con un canovaccio bagnato. Il padrone del locale fece un passo verso di noi, allargando le braccia come per giustificarsi di quella baraonda:
- Scusateci, signò - c’informò con un forte accento meridionale - ma l’olio della frittura è schizzato in faccia al guaglione. Non so proprio come sia successo...-


CAP. 7


Ritornammo alla biblioteca, un po’ scossi dall’accaduto. Aveva insistito a pagare le pizze (nonostante il mio vibrato tentativo di oppormi), dichiarando divertito che così era in credito di almeno un’altra uscita a pranzo. Sul pianerottolo del primo piano ci fermammo uno di fronte all’altro. L’edificio era silenzioso e deserto.
- Bene, è stato un vero piacere... - disse Andrea con una punta di malinconia nella voce. I suoi occhi e la sua bocca erano a pochi centimetri dal mio viso. Le mie narici erano solleticate deliziosamente dal profumo del suo respiro. Ero sicura che mi avrebbe baciato, ed ero ancora più sicura (e stupita) che, se fosse successo, mi sarei sciolta sulle sue labbra. Invece fece un passo indietro, sorridendo:
- adesso vai, dolce Giulia, e passa un buon week-end -
Sollevò una mano come per farmi una carezza ma, prima di sfiorarmi, il movimento del braccio deviò e si ravviò i capelli. Si allontanò nel corridoio, fece un giro su sè stesso per guardarmi un’ultima volta e sparì dietro l’angolo.
Ripresi a salire lentamente le scale, mentre nelle mente mi ronzavano mille parole: “tutte le carte in regola per diventare una persona speciale”, “dolce Giulia”, “chiunque avesse la fortuna di stare con te”. All’ultima rampa ebbi un improvviso capogiro, che mi fece aggrappare al corrimano, e mi sentii stanchissima, quasi esausta. Allarmata, feci gli ultimi gradini sbuffando e mi trascinai (è proprio il verbo adatto) verso la mia poltrona. Vi piombai sopra un attimo prima di esser sicura di stramazzare al suolo. Mi sentivo distrutta. La vista mi si appannava a tratti, e il sudore impregnava il mio corpo. Stavo per perdere i sensi. Allungai spaventata una mano verso il telefono per chiamare qualcuno e mi accorsi con orrore che le mie dita non avevano la forza di sostenere la cornetta, che cadde con un tonfo sulla scrivania. Pensai piena di angoscia a quegli articoli di giornale in cui si parlava di alcuni tipi di tumori al cervello che tolgono improvvisamente la capacità di afferrare anche gli oggetti più leggeri. Rimasi immobile, ad occhi chiusi, aspettando di vedere se la situazione migliorava. Dopo una decina di minuti mi sembrò di sentirmi un po’ più in forze. Proprio in quel momento Sara irruppe come una furia nell’ufficio:
- Si può sapere che razza di scherzo vi siete inventati?!? - sbottò inviperita, poi si bloccò - ehi, Giulia, cazzo... Stai sanguinando dal naso! -
La guardai per un attimo prima di realizzare bene cosa stava dicendo, poi mi toccai le narici con le dita. Erano rosse del mio sangue.


CAP. 8


- Stai scherzando?!? -
Fu il primo commento di Sara alla fine del mio resoconto. Le avevo raccontato quasi tutto, dall’incontro iniziale con relativo problema di stampa alle sensazioni fisiche, il batticuore, il rossore, il senso di eccitazione (soprattutto quello), dal suo sguardo al suo sorriso, dal trascorrere distorto del tempo ai ricordi in comune, all’indovinare i miei stati d’animo e le mie preferenze. E le cose che le avevo nascosto (il sogno, la segreteria telefonica, i piccoli origami) non avrebbero comunque aiutato a considerarmi meno scriteriata. Per cui ora toccava a Sara restarsene lì con la bocca spalancata dall’incredulità di quel racconto. Dopo che lei aveva allibito me mettendomi al corrente che a casa di sua madre non c’era nessuno - proprio nessuno - che si fosse chiuso fuori dalla porta. Quando era arrivata là trafelata aveva trovato i suoi e le sorelle minori sedute attorno al tavolo a gustarsi una mega insalata mista. L’avevano guardata come un marziano e avevano giurato e spergiurato che mai e poi mai avevano chiamato in biblioteca. Per cui Sara se n’era ritornata al lavoro convinta di uno stupido scherzo delle sue colleghe e, a giudicare dallo sguardo ben poco convinto, questa convinzione non era ancora passata.
Il mio malessere invece era un ricordo ormai sbiadito, a parte un leggero tremito alle gambe. Mi sentivo come quando si esce da una forte influenza. Mi strinsi nelle spalle:
- E perché poi? - ribattei poco convinta della mia difesa - non faccio nulla di male, è solo un ragazzo particolarmente gentile che...
La mia sanguigna amica mi fulminò con lo sguardo:
- Particolarmente gentile un paio di palle!!! - esclamò (Sara è una che dice pane al pane e vino al vino) puntandomi un dito contro - su, Giulia, non prendiamoci in giro! Questa è la classica situazione in cui un bellimbusto con la parlantina sciolta vuole imbarcare una... una... - si cercò le parole corrucciando la fronte - una sprovveduta che sta andando fuori di cranio. E sappiamo tutte e due dove portano queste cose, ad una camera da letto da qualche parte! -
Finsi di indignarmi ma lei non mi diede tregua:
- Mio Dio, ne abbiamo parlato fino alla nausea di queste situazioni... ed ogni volta ci ripetevamo ridendo che a noi non sarebbero successe. Che non avremmo permesso che ci succedessero! E adesso sono qui a sentire che la mia migliore amica... con un ragazzo che la adora e che farebbe di tutto per lei... che si bagna in pizzeria - non fece caso alla mia bocca spalancata dalla crudezza dei suoi termini - sì, si scioglie per il primo sconosciuto dagli occhi magnetici che incontra ! -
Sara da sempre è stata più intransigente di una monaca di clausura in fatto di fedeltà e di rispetto. E sinceramente anch’io. E probabilmente lo ero ancora. In fin dei conti non c’era stato nessun episodio che spingesse in direzioni sbagliate. In fondo le sensazioni fisiche erano le mie, e lui poteva essere realmente solo un collega gentile. O forse un po’ galante, ma senza doppi fini. Non si era affatto comportato, nelle parole e nei modi, come la maggior parte dei ragazzi quando vogliono andare al sodo. Ecco, questo poteva essere un buon argomento per calmare l’irruenza della mia amica. Alzai un dito come per chiedere la parola:
- Sara, la stai facendo più tragica di quello che è. In fondo non è mica successo nulla, è una persona gradevole, con cui è un piacere conversare... tutto qui -
Lei mi guardò con il tipico sguardo di compatimento che si indossa quando il proprio interlocutore “non sa quello che dice”:
- Ok, ok, è come dici tu. Questo misterioso Andrea è un brillante conversatore e un correttissimo collega. Però non venirmi a dire che io non ti ho avvisata quando salteranno fuori i problemi... - s’infervorò di nuovo agitandosi sulla sedia - ...lo sai benissimo che se tu dovessi spingerti troppo avanti non ci sarebbe futuro per questa faccenda. Ma Cristo, cosa pensate di fare, farlo fino a diventare blu come i puffi e poi? Sposarvi? Avere dieci figli? Da uno che ti ha messo a posto un problema del computer?!? -
Il suo cipiglio era serio e convinto, ma io non potei fare a meno di scoppiare in una risata al suo comico riferimento ai puffi. Sara si alzò, scuotendo la testa:
- Se ti sono sempre amica accetta un consiglio... - concluse sistemandosi la borsetta a tracolla - ...pensa bene a quello che fai. Anche se adesso sono tutti sorrisi e luci colorate, alla fine arrivano il dolore e le lacrime. Ci vediamo lunedì, e salutami Ricky... -
E mi sembrò che sottolineasse il suo nome con il tono di voce.
  
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