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Autore: Horansmile    21/05/2014    0 recensioni
Estate 1975, Nola Kellergan, una ragazzina di 15 anni, scompare misteriosamente nella tranquilla cittadina Aurora, New Hampshire.
Le ricerche della polizia non danno alcun esito.
Primavera 2008, New York.
Harry Styles,giovane scrittore di successo, sta vivendo uno dei rischi del suo mestiere: è bloccato, non riesce a scrivere una sola riga del romanzo che da lì a poco dovrebbe consegnare al suo editore.
Ma qualcosa di imprevisto accade nella sua vita: il suo amico e professore universitario Louis Tommlinson, uno degli scrittori più stimati d'America, viene accusato di aver ucciso la giovane Nola Kellergan.
Il cadavere della ragazza viene infatti ritrovato nel giardino della villa dello scrittore, a Goose Cove, poco fuori Aurora, sulle rive dell'oceano.
Convinto dell'innocenza di Louis Tommlinson, Harry Styles abbandona tutto e va nel New Hapshire per condurre la sua personale inchiesta.
Harry, dopo oltre trent'anni deve dare risposta a una domanda: chi ha ucciso Nola Kellergan?
E, naturalmente, deve scrivere un romanzo di grande successo.
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ATTENZIONE: La storia non è frutto della mia fantasia, è copiato spiaccicato,parola per parola da un libro (letteralmente),è un libro che a me è piaciuto molto, mi ha regalato un sacco di emozioni diverse ,è uno dei miglir libri che abbia mai letto ( e ne ho letti molti).
Vorrei evitare insulti o roba del genere, volevo soltanto impersonare un libro che mi ha fatto sognare( di un'autore che ha la mia stima) con i miei idoli.
Chi non vuole leggere la ff ,ha il diritto di non farlo,vorrei solo far sognare delle directioner con un libro che fa sognare e rimanere con il fiato sospeso .
Comunque per chi non è interessato alla storia con i personaggi (One direction) può leggere il libro vero.
LA VERITA' DEL CASO HARRY QUEBERT di Joel Dicker.
 
 
Parte prima
 
La malattia degli scrittori
(Otto mesi prima dell’uscita del libro)
 
31.
Negli abissi della memoria
 
“Il primo capitolo è fondamentale, Harry.
Se ai lettori non piace, non leggono il resto deli libro.
Tu come intendi cominciare il tuo?”
“Non lo so, Louis. Pensi che un giorno ci riuscirò?”
“A fare cosa?”
“A scrivere un libro”
“Ne sono certo”
 
All’inizio del 2008,all’incirca un anno e mezzo dopo essere diventato, grazie al mio primo romanzo, il nuovo beniamino delle lettere americane, fui colpito da un terribile blocco dello scrittore, una sindrome che sembra piuttosto diffusa tra gli autori baciati da un successo istantaneo e clamoroso.
La malattia non era arrivata di colpo: si era insinuata dentro di me lentamente.
Era come se il mio cervello, una volta infettato, si fosse bloccato un po’ per volta.
Di fronte ai primi sintomi avevo fatto finta di niente: mi ero detto che l’ispirazione sarebbe tornata l’indomani, o il giorno dopo, o forse il successivo.
Ma i giorni, le settimane e i mesi erano passati e l’ ispirazione non era mai tornata.
La mia discesa in quegli inferi si era sviluppata in tre fasi.
La prima, indispensabile per una splendida caduta vertiginosa , era stata l’ascesa folgorante: il mio primo romanzo aveva venduto due milioni di copie, catapultandomi, a soli ventotto anni, nell’Olimpo degli scrittore di successo.
Era l’autunno del 2006 e nel volgere di qualche settimana il mio nome diventò il nome: la mia immagine spuntava dappertutto, in televisione, sui giornali, sulle copertine delle riviste.
Il mio viso compariva su enormi cartelloni pubblicitari nelle stazioni delle metropolitana.
I critici più severi dei grandi quotidiani della East Coast erano tutti d’accordo: il giovane Harry Styles sarebbe diventato un grandissimo scrittore.
Un libro, uno solo, e già vedevo aprirsi davanti a me le porte di una nuova vita: quelle delle giovani star milionarie.
Lasciai la casa dei miei, a Montclair, nel New Jersey, per trasferirmi in un lussuoso appartamento del Villane; abbandonai la mia Ford di terza mano per una Range Rover nuova fiammante, nera e con vetri fumè; cominciai a frequentare i ristoranti più ricercati, mi affidai ai servizi di un agente letterario che organizzava il mio tempo ­­- e veniva a guardare le partite di baseball sullo schermo gigante del mio nuovo appartamento. Affittai uno studio a due passi da Central Park , in cui una segretaria di nome Denise, che forse si era invaghita di me, sbrigava la mia corrispondenza, preparava il mio caffè e archiviava i miei documenti importanti.
Nei primi sei mesi dopo l’uscita del libro mi ero limitato ad approfittare degli agi della mia nuova esistenza.
Ogni mattino passavo in studio per leggere gli eventuali articoli che mi riguardassero  e per dare un’occhiata alle decine di ammiratori che ricevevo quotidianamente e che Denise provvedeva ad archiviare in voluminosi schedari.
Poi, soddisfatto di me stesso e giudicando di aver lavorato abbastanza, me ne andavo a zonzo per le strade di Manhattan, dove i passanti sussurravano tra loro al mio passaggio.
Dedicavo il resto delle giornate ad approfittare dei nuovi diritti che mi offriva la celebrità: il diritto di comprare qualunque cosa mi andasse; il diritto di ottenere posti VIP al Madison Square Garden per assistere alle partite dei Rangers; il diritto di sfilare sul red carpet insieme alle star della musica di cui, da ragazzo avevo comprato tutti i dischi; e il diritto di uscire con Cara Delevingne, la top model del momento, che tutti si contendevano. Ero uno scrittore famoso; avevo l’impressione di fare il mestiere più bello del mondo.
E, convinto che il mio successo sarebbe durato per sempre, avevo ignorato i primi  avvertimenti del mio agente e del mio editore, che mi sollecitavano a rimettermi al lavoro e a cominciare a scrivere il mio sceondo romanzo.
Fu durante i successivi sei mesi che mi resi conto che il vento stava girando: le lettere degli ammiratori si erano diradate e per strada non venivo abbordato così spesso.
Ben presto, i passanti che ancora mi riconoscevano cominciarono a chiedermi:
”Signor Styles, di cosa parlerà il suo prossimo libro? E quando uscirà?”
A quel punto avevo capito che dovevo provarci, e ci avevo provato: avevo buttato giù qualche idea su dei fogli volanti e abbozzato una sinossi sul mio computer.
Niente di buono. Allora mi ero spremuto per partorire qualche altra idea e avevo abbozzato un altro paio di trame. Ma anche in quel caso, senza risultati apprezzabili. Alla fine avevo comperato un nuovo computer, nella speranza che fosse corredato di buone idee e di eccellenti sinossi. Tutto invano. Allora avevo provato a cambiare metodo: requisivo Denise fino a tarda notte per dettarle quelle che mi sembravano frasi fantastiche, parole splendide e incipit eccezionali. Ma l’indomani tutte quelle parole mi suonavano insulse, le frasi sgangherate e gli incipit disastrosi. Stavo entrando nella seconda fase della malattia.
Nell’autunno del 2007 era passato ormai un anno dall’uscita del mio primo libro e non avevo ancora scritto neanche una riga del secondo. Quando non ci fu più nessuna lettera da archiviare, nessun avventore che mi riconoscesse in un locale pubblico, e nessun manifesto con la mia faccia nelle grandi librerie di Broadway, mi resi conto che la gloria era effimera. Era una gorgonie affamata, e coloro che non la nutrivano si vedevano rapidamente rimpiazzati, come stava succedendo a me: l’uomo politico del momento, la starlette del l’ultimo reality, il gruppo rock che aveva appena sfondato avevano deviato su di sé la mia parte di visibilità. Eppure dal mio primo libro erano strascorsi solo dodici piccolissimi mesi: un lasso di tempo ridicolmente breve ai miei occhi, me che, nella scala del successo, corrispondeva a un’eternità.
In quello stesso anno, solo negli USA, era nato un milione di bambini, era morto un milione di persone, mezzo milione era sprofondato nella droga, un milione era diventato milionario, diciassette milioni avevano cambiato cellulare, cinquantamila erano deceduti in incidenti d’auto e, nelle stesse circostanze, due milioni erano rimasti feriti in maniera più o meno grave. Quanto a me, ero rimasto al mio primo libro.
Schmid & Hanson, l’influente casa editrice newyorkese che aveva sborsato una bella somma per pubblicare il mio primo romanzo, e che puntava molto su di me, assillava il mio agente, Josh Devine, il quale a sua volta mi dava il tormento. Mi diceva che il tempo stringeva, che dovevo assolutamente presentare un nuovo manoscritto, e io, rassicurando lui per rassicurare me stesso, gli rispondevo che il secondo romanzo procedeva di buon passo e che non c’era alcun motivo di preoccuparsi.
Ma, nonostante le ore che passavo chiuso in ufficio, le pagine restavano bianche: l’ispirazione era scomparsa da un momento all’altro e non la trovavo più. E la sera, a letto, non riuscendo ad addormentarmi, pensavo che ben presto, e prima di compiere trent’anni, il grande Harry Styles avrebbe cessato di esistere.
Quel pensiero mi spaventò così tanto che decisi di concedermi una vacanza per rinfrescarmi le idee: mi concessi un mese in un albergo di lusso di Miami con il pretesto di cambiare aria, intimamente convinto che un po’ di relax all’ombra delle palme mi avrebbe permesso di riprendere il pieno controllo del mio genio creativo.
Ma evidentemente la Florida era solo un magnifico tentativo di fuga, e duemila anni prima di me il filosofo Seneca aveva già sperimentato quella penosa situazione: ovunque possiate fuggire, i problemi che vi affliggono si infileranno nei vostri bagagli e vi seguiranno dappertutto.
Era come se, appena sbarcato a Miami, un affabile faccino cubano mi avesse rincorso mentre uscivo dall’aeroporto e mi avesse detto:
”E’ lei il signor Styles?”
”Si”
”Allora questa è sua”
E mi avrebbe porto una busta con dentro una manciata di fogli.
“Sono le mie pagine bianche?”
”Si signor Styles. Pensava di lasciare New York senza portarle con sé?”

Così passai quel mese in Florida da solo, chiuso in una suite in compagnia dei miei demoni, triste e risentito.
Sul mio computer, acceso giorno e notte, il file che avevo nominato Nuovo romanzo.doc restava disperatamente vergine.E la sera in cui offrii un margarita al pianista del bar dell’albergo, capii di avere contratto una malattia molto diffusa nell’ambiente artistico.
Seduto al bancone, il pianista mi raccontò che in tutta la sua vita aveva scritto soltanto una canzone, ma quella canzone era stata una cannonata.Aveva avuto un tale successo che in seguito non era riuscito più a scrivere niente, e adesso, rovinato e disperato, sopravviveva strimpellando successi di altri artisti per i clienti dell’albergo.
“All’epoca ho fatto delle tournee incredibili nelle più grandi sale del paese” mi disse, aggrappandosi al colletto della mia camicia.
“Diecimila persone che gridavano il mio nome, ragazzine che svenivano e altre che mi lanciavano le mutandine. Una cosa fantastica.”
E dopo aver leccato come un cagnolino il sale sul bordo del suo bicchiere, aggiunse:
”Ti giuro che è la verità”
Il lato peggiore era proprio quello, perché sapevo bene che era vero.

 
  
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