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Autore: MarsKingdom    05/06/2014    2 recensioni
“Contatterò io il suo manager per consegnare le foto alla rivista, d’accordo?”, dissi nervosa e spazientita, rigirandomi tra le dita la mia catenina con la triade, quella che non toglievo mai.
Aspettai inutilmente un cenno, una parola, anche un grugnito da parte del tizio.
Sembrava di parlare con un muro.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ebbene, dopo secoli e secoli, eccomi qui con un nuovo capitolo. A mia discolpa posso dire che è tutta colpa dello studio e che per farmi perdonare, ho pubblicato un capitolo un po' più lungo del solito. Voi però non siate timide e fatevi sentire, anche per critiche o pareri.
Mi raccomando, ci tengo tantissimo! <3 Un abbraccio a chi mi legge con entusiasmo. Grazie mille!
-MarsKingdom


Sembrava così strano dirlo, paradossale anche solo pensarlo, ma in realtà ormai era vero: frequentavo Shannon Leto, ero stata a casa sua e avevo fatto l’amore con lui. Non potevamo definirci fidanzati, non volevamo definirci e basta. Affrontavamo giorno dopo giorno come una sfida, non ne avevamo parlato con nessuno, anche se Matt (e di sicuro anche Jared) avevano intuito qualcosa.
In un’altra occasione mi sarei risa in faccia allo specchio, mi sarei data della stupida, ma in questo caso non potei fare a meno di sorridere come un’ebete quando Shannon si presentò alla porta del mio studio. Oramai ci frequentavamo da un po’, e dopo aver bruciato le tappe tre settimane prima nel suo appartamento, avevo deciso di riprendere tutto con molta calma.
Non era stato un comportamento solito per me, lasciarmi andare. Ora volevo riprendere a vivere con il mio ritmo, quel ritmo dettato dal mio cuore zoppicante, con cui mi sentivo padrona di me stessa.
Andai ad aprire la porta, raggiante.
Me lo ritrovai lì, in tutta la sua forza e virilità, che mi guardava sorridente.
“Buongiorno bellezza”, mi disse, facendomi l’occhiolino.
“Buongiorno anche a te!”.
Ci sarebbe stato un gran discutere su chi fosse la bellezza, qui.
Non mi ero ancora abituata a vederlo comparire di punto in bianco, e di sicuro non mi sarei mai abituata al suo aspetto fisico.
“Ti ho portato la colazione”, disse, mostrando una busta di carta bianca e due bicchieri di caffè lungo.
“Dovrei lavorare, ma accetto volentieri”, risposi, allungandomi verso di lui per ricevere un bacio che non tardò ad arrivare.
Avevo imparato ad essere più intraprendente anche con il contatto fisico: mi fidavo di lui, e come spesso mi ripeteva, non dovevo aspettare di ricevere un gesto affettuoso, ma dovevo essere la prima, se lo volevo, a mettermi in gioco.
“Infatti sono qui anche per parlare di lavoro”
“Allora vieni”.
Ci sedemmo sul salottino del mio studio privato, dove di solito ricevevo i clienti più incontentabili, che rimanevano colpiti dalle foto alle pareti. Ma dato che mi ritrovavo a discutere e a fare colazione con il soggetto delle foto, questa volta la cosa fu un tantino imbarazzante.
Tra un sorso di caffè e un morso alla ciambella, lo sguardo di Shannon volteggiava curioso tra le decine di foto alle pareti. Probabilmente su 100 foto, 80 ritraevano solo lui.
Primi piani, figure intere, occhi. Qualcuno avrebbe potuto azzardare che la mia fosse una malattia, come uno serial killer che cerca ogni dettaglio della sua vittima.
“Poi dici a me di smetterla con le foto..”, commentò divertito.
“Tu sei un personaggio pubblico. Non te le ho fatte mentre dormivi. E poi… mi sei sempre piaciuto”, ammisi arrossendo.
“Tu sei più bella, soprattutto quando nessuna preoccupazione ti passa per la testa, ad aggrottare questo bellissimo volto”, disse piano, sfiorandomi la fronte con l’indice.
Dopo qualche minuto di silenzio, si alzò, sconcertato, forse per vedere più da vicino una foto in particolare. Era quasi del tutto coperta dalla sedia della scrivania.
Feci finta di nulla, perché avevo compreso di quale foto si trattasse. Era volontariamente mezza nascosta.
Ma a Shannon non sfuggì nulla.
“Questa foto..”, disse, “questo momento.. me lo ricordo”.
Oh, anche io me lo ricordavo.
 
Gennaio 2009, il gelo di una Parigi innevata e io là fuori ad aspettare che finisse il concerto per poterli almeno vedere.
Un oceano mi separava dagli Stati Uniti, da casa mia. Avevo fatto quella pazzia di seguirli nel tour europeo. Avevo acquistato i biglietti sul posto, data dopo data, città dopo città. Ma con Marsiglia i soldi erano finiti.
Rimasi così fuori dallo stadio, ad aspettarli, a chiedermi come sarei andata all’aeroporto il giorno dopo per prendere l’aereo che mi avrebbe riportata a casa.
E quando finalmente la porta si aprì con uno scatto sonoro, vidi solo Shannon, che prese a calci un bidone là vicino, col cappuccio della felpa sulla testa, nervoso, nel vano tentativo di accendersi una sigaretta.
La mano che, rabbiosa, non riusciva a far scattare l’ingranaggio dell’accendino, e la sigaretta che rimaneva inutilmente sospesa tra le labbra scolpite di lui.
Sapevo che stava male, non so come, ma lo percepivo.
Oppure avevo solo proiettato su di lui le mie paure, il mio male di vivere che già a quel tempo mi tormentava, solo per non sentirmi sola in quella notte.
E decisi di non avvicinarmi, di non salutarlo
Fu probabilmente il gesto più altruista in vita mia. La fotografia mi aveva sempre portato ad essere invadente per definizione, ma in quel momento, per lui, mi sarei vergognata a chiedergli di fare una foto insieme, chiedergli un autografo, o solo parlargli.
Lo lasciai ai suoi pensieri, alla sua sigaretta, quella che poi scoprii essere una delle ultime.
Gli scattai, silenziosa, solo una foto, che non pubblicai mai; e quando poi la stampai per il mio studio, decisi di metterla nascosta, alle mie spalle, e di scriverci sopra L490, con lo stesso carattere con cui poi me lo feci tatuare.
 
Tentai di spiegarlo brevemente a Shannon, omettendo qualche particolare.
Ma subito dopo cercai di nascondermi dietro le mie stesse mani, mentre fissavo a testa bassa il grande bicchiere di carta che conteneva il caffè.
Con la coda dell’occhio vidi Shannon accanto alla sua stessa foto. Si girò a guardarmi.
“Come fai? Come facevi anche allora a capire tutto?
Io quella sera avevo ricevuto una brutta notizia. Mia madre era stata ricoverata. Ed è in quelle occasioni che maledici la tua passione, la tua stessa vita che ti trattiene a centinaia di kilometri di distanza dalla persona che più ami al mondo. È stato un duro colpo; quella sera decidemmo di tagliare due canzoni dalla scaletta e io uscii per primo sul retro, prima che la folla tentasse di divorarmi. A dirla tutta, non ricordo di averti vista; un po’ mi dispiace, ma d’altra parte se ti avessi conosciuto quella sera, non avrei capito che persona speciale saresti stata, accecato com’ero dalla rabbia.
E posso solo ringraziarti adesso per allora, per non avermi rivolto la parola, per essere rimasta lì in disparte, ma in un silenzio solidale. Tu devi avere un dono”
Alzai il viso e lo guardai avvicinarsi di nuovo. Si sedette accanto a me.
Gli afferrai un ginocchio per fargli sentire che ero lì, adesso come allora.
Più di allora.
“Io non ho un dono, Shannon. Te l’ho detto, io ho come l’impressione, chiamala presunzione se vuoi, di riuscire a capirti. Ce l’ho sempre avuta. Sono convinta che in molte occasioni tu ti sia creato un personaggio per poter nascondere il tuo lato più vulnerabile. Ma sei bellissimo in entrambi i casi.”
“Come fai a capirlo?”
“Gli occhi, Shan. I tuoi occhi non mentono mai. Distanza, telecamere, fotografie. Tutto può ingannare, ma non lo sguardo”.
Mi ritrovai a fissarlo di nuovo in quegli specchi di ambra, che trovavo così simili ai miei. Ma lui fu il primo a spezzare il contatto, e la cosa mi sorprese.
Mi sfiorò le labbra con un dito. Quella lentezza, quell’incertezza mi stavano spiazzando. D’improvviso appoggiò la testa nell’incavo del mio collo, in una posizione così innocente e tenera. Non sapevo se si sarebbe mosso di nuovo, e iniziai inspiegabilmente ad agitarmi ma evitai di farglielo capire.
Il mio cuore stava palpitando frenetico.
Dio, fa’ che non se ne accorga.
Ma ovviamente aveva un orecchio proprio sul mio cuore, e percependo il battito che alternava palpitazioni a rallentamenti preoccupanti, si tolse immediatamente.
E la totale assenza fu ancora peggio.
L’aria iniziò a mancarmi.
Mi odiavo per queste mie reazioni.
Odiavo il fatto che nessun medico era riuscito mai ad aiutarmi.
Ancora di più odiavo me stessa, per non avere alcun controllo sulle mie emozioni.
Come era possibile che il minimo contatto fisico inaspettato mi scatenasse attacchi di panico?
Cercai a tastoni la mano di Shannon, fissando il vuoto.
Me la portai al cuore, premendo forte, mentre cercavo di modulare il respiro.
“Devo…?”, disse Shannon.
Ma non lo feci parlare.
Volevo fidarmi di lui, desideravo che mi toccasse senza scatenare in me quegli stupidi attacchi ai quali ormai dovevo essere abituata.
E così, con uno sforzo enorme, lasciai la mano di Shannon sul mio cuore e chiusi gli occhi.
Il mio senso principale non era più lì a fare da torre di controllo, e questo scatenò una guerra momentanea nel mio cervello.
Avevo bisogno del controllo. Era tutto per me.
Ma mi imposi di lasciarmi andare.
Strinsi i denti e ascoltai il cuore. Lo sentivo in gola, lo sentivo rimbombare nel cervello. Era ovunque, sotto ogni mia vena, sotto il tocco della mano di Shannon.
Era il ritmo di un cavallo zoppo, che forse avrebbe terminato la propria corsa.
Decisi di andare oltre.
“Toccami”, dissi a Shannon.
Forse aveva capito dove volevo arrivare, perché non fece domande, agì solamente.
Nei pochissimi secondi che precedettero il suo tocco, mi irrigidii, chiedendomi quale parte del mio corpo avrebbe toccato. La gamba? Il braccio? I fianchi? Una coscia?
Tentavo di essere preparata. Ero tesa come una corda di violino. I nervi a fior di pelle che tentavano di catturare ogni minima sensazione.
Ma quando il tocco arrivò, fu dolce e inaspettato.
Era un bacio sulla fronte, delicato, umido. Percepii le rughe che si erano formate per la tensione, distendersi.
Gli sfiorai il volto.
Mi sentivo come un cieco, ma aiutava. Avevo potuto fare affidamento solo sul tatto, e questo mi aveva messo notevolmente alla prova.
Ringraziai silenziosamente Shannon, che mi cullò per qualche istante, prima di tornare tranquillamente a parlare di lavoro, con la mente un po’ più libera, ma paradossalmente turbata.

 
  
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